Nel groviglio dell’Affaire Dreyfus 

13 Luglio 2024

Da circa 130 anni continuiamo a parlare dell’Affaire Dreyfus, uno dei casi giudiziari più noti della storia europea in epoca moderna e contemporanea. Sarebbe quasi impossibile dar conto delle opere storiografiche, dei resoconti giornalistici, dei film, degli sceneggiati televisivi, dei testi teatrali o dei romanzi dedicati a questa vicenda. Siamo di fronte a una produzione enorme, variegata, sfuggente, che minaccia di schiacciare con la sua mole anche le studiose e gli studiosi più volenterosi. Un corposo saggio di Clotilde Bertoni – Nel nome di Dreyfus. Storia pubblica di un caso di coscienza (Bologna, il Mulino, 2024) – prova oggi a tracciare un percorso in questo diluvio di fonti eterogenee, con l’obiettivo di comprendere come uno scandalo politico-mediatico consumatosi nella Francia di fine Ottocento sia riuscito a catturare l’attenzione dell’Europa intera (e di altri continenti, almeno in parte) nell’epoca della sua esplosione, e a scolpirsi in seguito nella memoria collettiva, mantenendo intatto il suo fascino fino ai giorni nostri. 

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I nodi essenziali della trama sono noti, ma forse è utile riportarli alla mente. Nel 1894 Alfred Dreyfus, militare ebreo alsaziano, viene accusato dal ministero della Guerra di aver tradito il suo paese con atti di spionaggio a favore dell’esercito tedesco. Il suo arresto è seguito dall’esplosione di molteplici conflitti, legati per un verso o per un altro alla difficile congiuntura politica della Terza Repubblica: governi brevi, alleanze parlamentari fluide, tumultuose trasformazioni economiche, continue paure legate alla diffusione di idee comunarde o anarchiche, gestione incerta degli equilibri internazionali. Le prove a carico dell’imputato sono fragili. Si limitano, in sostanza, alle analogie fra la sua grafia e quella del bordereau, un documento che attesterebbe la trasmissione di informazioni strategiche ai nemici. Ben presto il paese si spacca in due fronti contrapposti: innocentisti e colpevolisti, anche identificabili come “dreyfusardi” e “antidreyfusardi”. Ne consegue una battaglia senza esclusione di colpi che mette in gioco due grandi mitologie. La prima è impregnata di antisemitismo e presenta Dreyfus come emissario di una minacciosa setta ebraica, dotata di strabordanti possibilità finanziarie e pronta a soggiogare la concorrenza per occupare le posizioni di potere apicali, dentro e fuori dalla Francia. La seconda è fondata su una cieca fiducia nell’esercito, considerato come “arca della nazione”, unica roccaforte di probità morale “nello sconquasso della società liberale e borghese, al di sopra di ogni sospetto e pure di ogni domanda”. 

Il primo processo si svolge a porte chiuse, obbedendo a logiche di antico regime che si credevano tramontate con la Rivoluzione del 1789. Prevale il bisogno di salvaguardare la segretezza della procedura e la reputazione dell’apparato militare, ma la scelta si rivela infelice e produce effetti difficili da controllare. Gli organi di informazione manifestano una grande curiosità per l’accaduto e provano a intercettare gli interessi di un pubblico imbevuto di pregiudizi, incline ad accogliere qualsiasi forma di manipolazione e a liberare i suoi istinti più feroci, pur muovendosi all’interno di un sistema “formalmente democratico”. L’intensità degli impulsi partecipativi stimola la crescita di un racconto corale dotato di molteplici profili che – nelle parole di Clotilde Bertoni – assume le sembianze di un “incredibile romanzo della realtà”, capace addirittura di “spodestare la fiction” sfruttandone al contempo tutti i filoni più fortunati, dal dramma shakespeariano alla narrativa realistica, dalla tragedia alla commedia. Il presunto “alto tradimento” di Alfred Dreyfus ha in effetti potenzialità letterarie enormi. Può essere letto come una “storia antica che gronda lacrime e sangue, avvolta di tenebre mai diradate del tutto, costellata di ingiustizie, complotti e soprusi”, ma anche come una “storia modernissima di lotta […] per i diritti umani” condotta sotto “riflettori troppo abbaglianti”. Di certo appare come “il più pirotecnico” fra gli scandali, disseminato di “sorprese spiazzanti”, pronto a generare nuovi interrogativi a ogni tornante, ben lontano dall’offrire facili soluzioni.

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La difesa dell’accusato è guidata dal fratello Mathieu e dalla moglie Lucie Hadamard, ma si avvale anche della preziosa collaborazione di alcuni amici di famiglia. Fra questi c’è lo scrittore ebreo Bernard Lazare, che sfrutta i suoi contatti nel mondo del giornalismo per mettere in piedi una campagna di stampa a sostegno della tesi innocentista, senza scoraggiarsi di fronte allo scetticismo dilagante. La svolta arriva tuttavia con il coinvolgimento diretto del celebre romanziere Émile Zola che, forte dei suoi successi editoriali, decide di mettere in gioco la sua credibilità e si schiera apertamente dalla parte di Alfred Dreyfus con un articolo pubblicato sul quotidiano repubblicano-socialista “L’Aurore” il 13 gennaio 1898, corredato da un titolo tanto semplice quanto esplicito: J’Accuse. L’autore di Nanà e Germinal non ha nulla del “classico artista chiuso nel suo isolamento creativo”. È più che abituato a essere coinvolto in diverbi e polemiche sulle pagine dei giornali o ad affrontare platee infervorate. Sceglie quindi di farsi risucchiare dal “gusto della lotta concreta”, ben consapevole di quanto sia alta la posta in gioco. 

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Quella pubblicata da Zola è a tutti gli effetti una “lettera aperta”, costruita per mettere in rilievo tutti gli aspetti oscuri della contesa giudiziaria e per rompere la barriera di “mutismo” imposta dalla “ragion di Stato” (espressione usata dal poeta simbolista Camille Mauclair, e opportunamente riportata nel libro di Bertoni). Lo scrittore denuncia tutti i responsabili della costruzione del teorema giudiziario: i ministri, i giudici, i militari, e persino i periti grafologi. Anche a costo di usare toni melodrammatici, egli prova a strappare l’Affaire dalle porte chiuse dei tribunali statali, chiedendo l’apertura di una nuova inchiesta basata su criteri cristallini, condivisi, da sviluppare “alla luce del sole”. Si espone in prima persona al rischio di essere denunciato per diffamazione o vilipendio delle forze armate e, di fatto, finisce sul banco degli imputati. Rifiuta di ergersi a detentore di una verità rivelata, preferendo mantenere la postura del combattente. Il suo richiamo alla legalità e alla trasparenza suona come un invito per gli intellettuali del paese, che sono indotti a schierarsi da una parte o dall’altra, abbandonando ogni indugio. 

 

Proprio il significato della parola “intellettuale” subisce – secondo Clotilde Bertoni – una significativa trasformazione a fine Ottocento, anche in virtù delle evoluzioni del caso Dreyfus. Fra le persone avvezze allo studio delle lettere, nasce una nuova consapevolezza identitaria segnata dalla necessità di “agire sulla cosa pubblica autonomamente dalla politica”, “stanare gli abusi di poteri forti senza vincolarsi a un partito”, e “arrivare così a costituire per la collettività un punto di riferimento alternativo”. Siamo ormai lontani dall’antibonapartismo della prima metà del secolo, e ancor di più dalle iniziative dei philosophes illuministi, impegnati a mettere in discussione un sistema di potere ormai al tramonto. I nuovi intellettuali si confrontano con un mercato mediatico massificato e con un sistema politico fondato sul pubblico consenso. La militanza in un partito può influenzare le fortune e le sfortune professionali di chiunque, anche (o talvolta soprattutto) se si hanno impieghi statali. A dimostrarlo in maniera eloquente è la petizione apparsa sulle pagine dello stesso quotidiano “L’Aurore” il 14 gennaio 1898, subito dopo il J’Accuse, firmata da professori universitari, scrittori e scienziati. Pur essendo numerosi, infatti, i sottoscrittori non riescono a diventare maggioranza: il “grosso dell’accademia”, insieme a tante persone impegnate nel dibattito politico-culturale, rimane sul fronte antidreyfusardo o si chiama semplicemente fuori dalla battaglia, preferendo non esporsi. 

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Caricatura di Alfred Dreyfus e di una donna ebrea, Jean-Louis Forain, 1898.

Il lavoro di analisi di Clotilde Bertoni si muove su un duplice binario: prova a far luce sull’andamento effettivo dell’Affaire e, parallelamente, segue la costruzione dei racconti mitici che lo accompagnano, attraverso verbali processuali, articoli, opuscoli, discorsi, racconti di finzione. Lo sguardo della studiosa si ferma sulle esperienze comunicative che godono di attenzione pubblica, illuminate dai riflettori mediatici, lasciando comprendere come la sventura di Dreyfus diventi a tutti gli effetti uno specchio, capace di riflettere ansie, conflitti e aspirazioni del corpo sociale francese durante la Terza Repubblica. I ripensamenti non sono accettabili per le parti in causa, pronte a spendere tutte le energie disponibili per difendere la loro tesi. Valga l’esempio dei militari, che continuano a far corpo anche di fronte alla palese inconsistenza dell’impianto accusatorio, senza il timore di cadere nel grottesco, col solo scopo di salvaguardare la credibilità dello Stato Maggiore e delle forze armate nella loro interezza. Risulta difficile, in definitiva, accogliere l’idea che ci sia stata fin dall’inizio una macchinazione pianificata contro Alfred Dreyfus. È più verosimile – scrive la studiosa – che si sia trattato di “un intrico di concause”, di “una fortuita sovrapposizione tra l’altezzoso senso di casta dell’esercito, la congiuntura storica, i pregiudizi antisemiti, e, ancora, le convenienze, le inclinazioni”, o anche “le intemperanze caratteriali” dei protagonisti.

Persino l’innocenza dell’imputato si rivela di importanza secondaria rispetto al potere di suggestione di una trama che restituisce, in controluce, una porzione rilevante delle tensioni di un’epoca. L’Affaire favorisce la crescita di un ciclone mediatico di rarissima intensità, che viene sfruttato “con disinvoltura fantasiosa” da operatori di diversi settori, per fini politici, economici, culturali e religiosi. Diventa un fenomeno di moda o di costume, finendo al centro di vignette, barzellette o canzoncine. Stimola la produzione di cartoline illustrate, statuine di gesso, cartapesta e legno che raffigurano in fogge caricaturali l’imputato, i suoi difensori o i suoi denigratori. La figura di Dreyfus appare sulla carta per sigarette, sulle fodere dei cappelli, sui posacenere, e arriva persino a ispirare una versione speciale del gioco dell’oca ispirata allo scandalo giudiziario. 

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Zola e il caso Dreyfus, Johan Braakensiek, 1898.

Tuttavia alla fine del percorso – e il libro di Clotilde Bertoni lo mette in evidenza a più riprese – si ristabiliscono i rapporti di forza. Con il progressivo affievolirsi degli entusiasmi, il caso giudiziario esce dall’agenda dei cronisti per diventare materia esclusiva di memorie e rielaborazioni artistiche. Ad assumere particolare rilievo nei nuovi scenari del primo Novecento è il destino degli intellettuali, che vengono “estromessi dalla prima linea", e sono costretti a osservare da spettatori gli scontri parlamentari incentrati sul futuro della collettività. Le loro iniziative “di idealità e giustizia” diventano potenzialmente minacciose per la stabilità del paese, specialmente se interpretate in maniera radicale. Pur essendo colpita da critiche aspre, la società borghese e liberale resiste agli scossoni. L’esercito mantiene intatto il suo prestigio. La ricerca della verità, talvolta corredata da atteggiamenti di grande coraggio, lascia spazio alla politica dei compromessi. E gli scrittori sono costretti a cercare altre cause alle quali dedicare il loro impegno. 

In copertina, La fine del caso Dreyfus, Johan Braakensiek, 1899.

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