Cosa succede in Russia? / Putin e la grande parata a Mosca

11 Novembre 2016

Prendiamo le mosse da alcune settimane fa, precisamente dal 14 ottobre quando nella città di Orël è stato inaugurato il primo monumento mai innalzato in Russia (e forse nel mondo) allo zar Ivan IV, il Terribile. La popolazione della cittadina si era schierata quasi all’unanimità contro questa decisione. Una prima inaugurazione, pensata per il 4 agosto (450° anniversario della fondazione della città), era slittata a causa delle resistenze pubbliche ma il volere delle autorità locali ha portato comunque all’erezione della statua il mese scorso in occasione della festa ortodossa dell’Intercessione della Madre di Dio. La motivazione ufficiale sta nella leggenda che vuole Orël fondata proprio da Ivan, quella meno esplicita rientra invece in una serie di riabilitazioni di personaggi storici discutibili, la cui grandezza starebbe nell’aver fatto grande e nell’aver tenuto unita la Russia, prescindendo dalle modalità applicate nella gestione del potere. Reazioni e proteste si sono susseguite, e sono ancora in atto, mentre lo stesso ministro della cultura, Vladimir Medinskij (la cui tesi di dottorato era stata dedicata proprio alla ricostruzione di fatti storici “mistificati”), è intervenuto per difendere la scelta e sostenere che la fama sanguinaria dello zar in questione è dovuta alle calunnie dei viaggiatori stranieri dell’epoca.

 

Monumento a san Vladimir, Mosca.

 

Il principe moscovita Ivan IV si era autoproclamato zar di tutta la Russia, unificando sotto la propria egida i vari principati e contrastando il potere feudale dei boiari, venendo riconosciuto nel 1561 dal patriarca di Costantinopoli e facendo nascere il mito di Mosca terza Roma. Per sostenere le riforme e contrastare gli oppositori aveva costituito una guardia speciale, crudele e violenta, gli opričniki. Il film di Sergej Ejzenštejn Ivan il terribile (parte I e II) costituisce un’interessante lettura di questa storia, realizzata negli anni della Seconda Guerra Mondiale “per Stalin” che amava identificarsi con il suo illustre predecessore, e che mette in scena aspetti diversi del carattere del sovrano. Dalla volontà di unificare il Paese e gestirlo con mano forte e severa (dettagli che avrebbero fatto meritare al regista il premio Stalin per la prima puntata del film), ai dubbi sempre crescenti e alla solitudine quasi disperata che lo opprimeva e deprimeva nella seconda parte (che avrebbe, per queste ragioni, visto la luce soltanto nel 1958, molti anni dopo la morte del regista).

 

Una visione analitica dei due film che prendesse in considerazione la possibilità di applicarli alla situazione storico-politico contemporanea, e non soltanto a quella staliniana com’è stato più volte fatto, potrebbe aiutare la comprensione di quanto sta succedendo nel Paese oltre che di ciò di cui si tratta in queste pagine.

Il 4 novembre scorso, giornata dell’unità nazionale, un altro monumento ha fatto parlare di sé, questa volta a Mosca. Inaugurato alle soglie del Cremlino alla presenza del Presidente Putin, del premier Medvedev, del ministro Medinskij e del sindaco di Mosca Sobjanin, è stato dedicato al principe Vladimir, detto “Il bel sole”, colui che nel lontano 988 aveva “cristianizzato” la Russia imponendo al proprio popolo la conversione da religioni pagane per poter convolare a nozze con una principessa cristiana e ampliare e stabilizzare la propria sfera di potere. Anche in questo caso non sono mancate le opposizioni che hanno ricordato la crudeltà di questo regnante, per altro già canonizzato dalla chiesa ortodossa e dunque santo a tutti gli effetti, e la sua condotta non particolarmente in sintonia con i principi del cristianesimo. Altro punto di dissidio sta nel fatto che Vladimir avesse regnato ai tempi dell’antica Rus’ di Kiev e che l’appropriazione da parte di Mosca di una figura legata alla storia ucraina e rivendicata a gran voce dalle autorità kieviane, non facesse che acuire i già pesanti contrasti tra i due Paesi.

 

Per evitare un’aperta rissa era anche stato deciso di ridurre l’altezza del monumento perché non risultasse più alto di quello che già si erge a Kiev, oltre che per aggirare il veto dell’Unesco che aveva minacciato di ritirare il patrocinio sul Cremlino di Mosca se la statua avesse mancato di rispetto ai requisiti esposti nella convenzione sulla protezione del suo patrimonio. E la questione è ancora aperta. Tra i promotori dell’iniziativa per la costruzione della statua rientra anche un personaggio inquietante, Aleksandr Zaldostanov, noto nei giri dei biker come il Chirurgo, capo del gruppo di motociclisti “Lupi della notte”, ultra nazionalisti (anzi, come preferiscono dire i russi, ultra patriottici), di cui Vladimir Putin è membro onorario. Questo ha portato i dissidenti a pensare che l’omonimia dei due capi possa nascondere una recondita volontà di innalzare un monumento al Vladimir contemporaneo sotto le mentite spoglie dell’antico principe. A benedire la cerimonia e l’opera scultorea, il patriarca ortodosso Kirill, nel cui saluto inaugurale sono risuonati accenti quali: “Se Vladimir avesse ragionato allo stesso modo di alcuni dei nostri contemporanei, non avrebbe mai compiuto la sua scelta. Sarebbe rimasto un pagano o un cristiano a livello personale, ma non avrebbe battezzato la santa Rus’. Di conseguenza non sarebbero esistite né l’antica Rus’, né la potenza ortodossa russa, né il grande impero russo, e neppure la Russia moderna”. 

 

Monumento a Ivan il Terribile, Orël. 

 

Veniamo ora alla manifestazione che si è tenuta sulla piazza Rossa il 7 novembre scorso, 99° anniversario della Grande Rivoluzione Socialista d’Ottobre, per chiamarla con il nome che le è stato proprio nei settant’anni di esperimento sovietico. Ricorrenza delicata e foriera di possibile imbarazzo per l’autorità istituzionale. Come ignorare una data che ha influenzato le sorti del mondo? D’altro canto, come celebrare un evento responsabile di vessazioni e tormenti, da molti disconosciuto, da altri, però, nostalgicamente vagheggiato? Ricorrendo a un escamotage strategicamente geniale che si ripete già da 14 anni. Si è commemorato, con una “marcia solenne” (toržestvennyj marš), non una tradizionale parata militare, non già il 7 novembre 1917 ma lo stesso giorno del 1941, quando in una Mosca pressata dall’avanzata nazista la piazza Rossa si era colmata di 28.000 soldati, cavalli e mezzi corazzati per dare all’intero Paese il segnale che la capitale non si arrendeva. Le truppe marciarono dalla piazza Rossa direttamente verso il fronte difensivo che tratteneva a stento l’avanzata tedesca. Evento di altissima portata simbolica che avrebbe fornito energie e sostegno ai combattenti e al popolo delle retrovie.

 

 

La commemorazione dei giorni scorsi, 75° anniversario del 1941, ha fatto ancora una volta leva su questi sentimenti, ha schierato i 55 veterani rimasti in vita a Mosca e messo in scena uno spettacolo, difficile definirlo altrimenti, che del primigenio pathos nulla ha conservato se non le abbondanti e strategiche citazioni. In assoluta sintonia con lo spirito che ha voluto l’erezione dei monumenti di cui si parlava all’inizio, promuovendo la potenza del Paese, la sua unità indissolubile, la coesione del popolo russo basate sul grande sacrificio della guerra.

 

 

 

 

La festa della Vittoria, dai sovietici anni Sessanta in poi, era stata pensata come omaggio a chi aveva combattuto, era morto, ma soprattutto a chi era sopravvissuto e, con la sua presenza, poteva testimoniare dell’eroica grandezza passata. Oggi i veterani superstiti sono diventati non già spettatori d’onore ma protagonisti. I frequenti primi piani della ripresa televisiva rimandano i loro volti attoniti e, forse, spaesati.

 

Veterano. 

 

Tutto ha avuto inizio alle fatidiche ore 10.00 battute dall’orologio del Cremlino mentre la banda militare intonava le solenni battute di Svjaščennaja Vojna (La sacra guerra), canzone simbolo della venerabilità di un conflitto che, non a caso, in Russia è sempre stato definito come Guerra Patriottica, e non Seconda Guerra Mondiale, a segnalare la portata non aggressiva della scesa in campo sovietica, motivata dalla fedifraga invasione nazista. Le bandiere della Federazione russa e il vessillo della Vittoria sono state solennemente portate in trionfo attraverso la piazza da un drappello di soldati.

 

Bandiera russa e vessillo della vittoria.

 

 

L’accento della manifestazione si focalizza subito, grazie ai commenti dei due speaker, sul concetto chiave: “l’intero paese guarda a Mosca e difende Mosca. I veterani, che avevano preso parte alla “leggendaria parata del 1941”, devono sapere che il Paese non dimentica il loro eroismo e continua ad andarne fiero.

A fare gli onori di casa non il Presidente Putin ma il Sindaco moscovita, Sergej Sobjanin, come a sottolineare il fatto che è Mosca ad aver voluto questa manifestazione e che la capitale continua, o riprende dopo un periodo di transizione, a essere portavoce e simbolo dell’intera nazione.

 

Il sindaco di Mosca tra i veterani.

 

La piazza Rossa, assecondando un cliché sovietico, viene citata nel suo breve saluto come “la piazza principale di tutto il Paese”. Le note dell’inno nazionale, nella versione solo strumentale, passibile quindi di essere collegato sia al testo sovietico che a quello successivo al crollo dell’URSS, visto che la musica è rimasta la stessa e soltanto le parole sono state sostituite, fanno da colonna sonora all’arrivo di una serie di figuranti che mettono in scena i momenti chiave della difesa di Mosca. 

La scenografia si sviluppa nel centro dell’immensa piazza in faccia a un grande palcoscenico costruito di fronte al mausoleo di Lenin, questa volta non mimetizzato da strutture intese a nasconderlo alla vista come era accaduto in parate degli anni passati, ma disinvoltamente ignorato e affiancato da tribune che ospitano spettatori. Il grande palco oggi protagonista è costituito da una scalinata centrale coronata da grandi schermi su cui scorrono immagini e filmati d’epoca. Il tutto sovrastato da un lunghissimo nastro di san Giorgio nero e arancione, decorazione militare della Russia zarista, recuperata nel 1992 e, dal 2005 diventato simbolo ufficiale della vittoria sui nazisti. Negli ultimi anni il suo significato è passato a indicare il nazionalismo russo e l’appartenenza alla corrente filo russa in Ucraina.

 

Scenografia della manifestazione.

 

 

L’intervento militare simulato evoca la difesa di Mosca e si sviluppa con roboante retorica e non senza un’ingenuità che non può non ricordare certo cinema real-socialista. 

 

Figuranti all’opera.

 

 

Sul più bello dell’azione da una camionetta scende un gruppo di fisarmonicisti. I loro cappottoni militari e la canzone che intonano, la Marcia dei carristi sovietici, sono le prime di una serie di citazioni che rimandano a topoi caratteristici dell’identità nazionale russo-sovietica, al limite dello stereotipo, ma proprio per questo immediatamente riconoscibili e condivisibili da tutti. 

 

I fisarmonicisti.

 

 

Nel frattempo i figuranti mettono in scena l’arrivo delle lettere da casa e altri toccanti momenti di vita al fronte. Il tutto sempre sull’onda del più conclamato kitsch. 

 

Figuranti che leggono lettere al fronte. 

 

Ai suonatori si aggiunge una prima bionda fanciulla, autentica russkaja krasavitsa (bellezza russa), drappeggiata in un grande scialle a fiori, altro tocco di stile nazionale, che, sullo sfondo delle immagini di Lidija Ruslanova, grande interprete di canti popolari interpretati anche al fronte per i soldati, ora proiettate sul grande schermo, canta la canzone popolare russa che aveva commosso le trincee e fatto sognare i combattenti: Valenki (stivali di feltro), ennesimo rimando a una ben precisa identità nazionale. 

 

Cantante in scialle russo. 

 

Mentre il crepitio delle armi e lo scoppio delle bombe scatena l’azione militare sopraggiunge un’altra fanciulla, questa volta lo scialle responsabile della citazione è il più sobrio orenburgskij platok, intessuto a mano con lana tanto impalpabile da poter passare, secondo la tradizione, attraverso un anello nuziale, che recita con enfasi estrema una delle poesie più famose dell’epopea bellica: Aspettami, e io tornerò di Konstantin Simonov. 

 

Attrice che legge una poesia.

 

 

I finti soldati, che trasportano in tutta la sua estensione orizzontale, una leggendaria bandiera rossa, si lanciano su per la scalinata tra nuvole di fumo e rombo di mitraglie. Chi vuole può leggerci di tutto, dalla presa del palazzo d’inverno a quella del Reichstag berlinese. 

 

Azione scenica.

 

La canzone questa volta è degli anni Ottanta, La vittoria resta giovane, e ribadisce che “da un estremo all’altro tutto il paese difende Mosca”.

Ancora risuonano frasi e slogan in sintonia con l’evento e si evidenziano parole chiave fondamentali: “gloria e forza”, “legame tra le generazioni”, “moscoviti pronti alla battaglia, allora come adesso”. L’ancora stentorea voce di un veterano dà il via alla vera a e propria marcia solenne che vede per una ventina di minuti drappelli di soldati delle più diverse armi, in divise storiche e che assomiglia sempre più a una delle tante sfilate rievocative di storia passata.

 

 

Corteo storico.

 

Tocco finale è l’arrivo di un cantante, attorniato da bambine e bambini, che intona il cosiddetto Inno di Mosca, una canzone dal titolo Mosca mia risalente proprio agli anni della guerra che si conclude con i versi: “amata mia capitale, dorata Mosca mia”.  

 

Canzone finale.

 

Le ultime scene hanno visto la corsa di giovani in divisa per distribuire garofani rossi, ultima citazione storico-mitologica, al pubblico che lasciava le postazioni.

Il commento del Sindaco è stato: “la marcia è durata poco più di un’ora, ma per la potenza del suo impatto sugli spiriti morali del nostro popolo non ha conosciuto precedenti. Si è trattato di una vittoria senza un solo sparo. Per il significato che ha avuto la parata è stata pari a operazioni militari di primaria portata”. 

Indiscutibile, come sempre da tempi remoti, l’impeccabilità sia dell’organizzazione che degli effetti speciali. Il livello estetico, a mio parere, ha concesso troppo spazio al kitsch, alle seconde lacrime di cui scrive Milan Kundera, motivate non da una sincera commozione ma dal compiacimento causato dalla commozione stessa e dalla sua (troppo) facile condivisione. Resta attualissimo il discorso sulle rappresentazioni della storia passata e delle operazioni relative alla memoria collettiva, in Russia come altrove. Più che mai si assiste a quanto una scuola di studiosi ha definito e affronta come “history with the pain removed”. Creazione di una mitologia più che analisi criticamente compiuta di storia. Il nome di Stalin non è ovviamente comparso.

 

Anche lo slogan gridato dai figuranti, “Per la Patria, per Mosca!”, è stato privato della sua terza fondamentale componente d’epoca, “per Stalin!”. I problemi vengono aggirati, i traumi smussati, le difficoltà cancellate. Evento, questo moscovita, più vicino alla sfilata inaugurale di una sagra paesana che a una consapevole commemorazione storica. Ma questo richiedono i tempi: rimandi a momenti indiscriminati di grandezza esemplare, di gestioni solide e ruvide (per non dire efferate) del potere, a figure che rappresentino tali realtà e che, chissà, preparino la strada al nuovo “unto del Signore”. Si fa un gran parlare di “fruizione di pancia” in questo giorni, anche in seguito ai risultati elettorali americani. Di una preoccupante vicinanza a stilemi staliniani di “pancia” parlerei anche in questa circostanza, sempre più prepotentemente aggressiva e vincente rispetto alla più impegnativa e scomoda “testa”.

 

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