Il bacio dell'insetto
Manca la scrittura. Ed è un peccato e un paradosso, nel caso di Il bacio dell’insetto. Storia di una famiglia e di una malattia ignorata, a firma di Daisy Hernandez, e tradotto in Italia per i tipi di Codice Edizioni. Un peccato, giacché le premesse c’erano tutte, a partire dal motivo, il racconto di una malattia negletta, la Chagas, la “malattia del bacio”. Che se è vero che solo negli Stati Uniti ne sono affette, al momento, circa 300mila persone, che si contano sei milioni di contagiati nel mondo e più di 10mila decessi annui, pure, accanendosi prevalentemente sulla comunità latina, tanto che fino a pochi anni fa era confinata in Sudamerica, non è mai riuscita a diventare notizia – e quindi emergenza – soffrendo di quella trascuratezza e di quel disinteresse collettivo che influenzano le capacità diagnostiche prima ancora delle soluzioni terapeutiche. Un peccato e un paradosso, appunto, perché Daisy Hernandez insegna scrittura creativa (forse per questo? Idiosincrasie personali!) e, a parere del recensore, non è riuscita a creare una forma del racconto capace di tenere insieme le premesse e le promesse di cui al sottotitolo: la storia di una famiglia e quella di una malattia.
Ma andiamo per ordine. Cos’è la Chagas e perché si chiama “malattia del bacio”? Si tratta di una malattia parassitaria, il cui nome scientifico è tripanosomiasi americana, che si trasmette agli esseri umani dalle triatomine, insetti più comunemente conosciuti come “cimici del bacio”. Chagas, dal nome del medico brasiliano che la scoprì nel 1909 e che per ben due volte fu candidato al premio Nobel, onore che gli fu negato, forse anche per via di quella trascuratezza che colpisce le malattie dei poveri nei paesi “non occidentali”, al pari della lebbra e della cecità fluviale. Magari è questione di tempo. La cecità fluviale, infatti, a differenza della Chagas, nel 2015 un Nobel lo ha fatto conquistare all’irlandese William C. Campbell e al giapponese Satoshi Omura, scopritori dell’avermectina, una molecola che cura l’oncocercosi, chiamata appunto cecità fluviale, causata da un verme neumatode, e che ne ha drammaticamente diminuito l’incidenza: da 20 milioni di persone colpite ogni anno, e condannate alla completa cecità, a circa un milione. Vale la pena accennare che il terzo Nobel per la Medicina di quel 2015, andò alla scienziata cinese Youyou Tu per la scoperta delle proprietà antimalariche dell’artemisinina, una storia che incrocia la guerra del Vietnam e intreccia le vite di Ho Chi Minh, di Mao Zedong, di Zhou Enlai, e di 541 ricercatori cinesi che furono esentati dal processo della “rivoluzione culturale”, salvando le loro vite, prima ancora di quelle che sono riusciti a risparmiare con i progressi delle loro ricerche. Vicenda, questa, che meriterebbe un racconto al pari (migliore?!) di quello della malattia del bacio… Che però non si trasmette baciandosi. Capitò, invece, che le triatomine, classificate nella famiglia degli “insetti assassini” (all’occhio degli scarafaggi giganti, le dimensioni di un’unghia), sanguisughe in Texas e negli Sati del sud-ovest, vinchuca in Argentina e Bolivia, chince in America Centrale e in Messico, conquistassero gli onori del Washington Post, nel Giugno del 1899, quando un giornalista riferì di una serie di pazienti ricoverati per punture d’insetto, con naso, guance e specialmente labbra superiori gonfie come una palla da baseball color rosso rubino. Nei racconti dei malcapitati, una serie di coincidenze comuni a tutti: la cimice colpiva verso il tramonto, a volte a notte inoltrata, la vittima non la vedeva, sentiva solo la puntura sulla bocca, e l’indomani mattina si svegliava con il labbro gonfio. Furono i giornali a dargli il nome di cimice del bacio, con resoconti che arrivavano anche da El Paso e Las Vegas. Esilaranti alcune cronache dell’epoca, con entomologi che sostenevano convintamente come l’insetto pungesse le persone sulla bocca perché trovava “irritante” il movimento delle labbra; medici che negavano la responsabilità degli insetti, anonimi lettori e corrispondenti delle locali testate, che sostenevano l’innocenza degli animali, accusando i pazienti di un eccesso di consumo di fragole… da cui la tumefazione di color rubino. Pensa te! D’altra parte fu addirittura Leland Ossian Howard, il direttore del dipartimento di entomologia dello US Department of Agricolture, a sostenere che le punture dell’estate del 1899 fossero frutto di un’isteria collettiva ingigantita dai media. Non inventiamo mia nulla!
Ancora prima, nel 1835, un Charles Darwin allora ventiseienne, attraversava le pianure argentine in sella a due muli. Sfuggito a un attacco di locuste, si trovò in prossimità del villaggio di Lujan de Cuyo, dove pensò di dormire vicino a un fiume, tra file di pioppi e salici. Quando chiuse gli occhi, al tramonto, le cimici uscirono dai loro nascondigli e “fameliche gli strisciarono sul corpo, senza curarsi che fosse Charles Darwin”. Nei suoi taccuini si trova traccia in uno scritto dove riferisce di quanto ripugnante fosse stato sentire tutti quei bichos “… molli, senza ali, di circa un pollice di lunghezza che passeggiano su di voi, pieni di sangue”. Dopo il suo viaggio in Sud America, Darwin fu cagionevole di salute per la maggior parte della sua vita e nel 1959, a cento anni dalla pubblicazione di L’origine delle specie, e a circa ottanta dalla sua morte, qualcuno ha avanzato l’ipotesi che potesse aver contratto la malattia del bacio. “L’unica certezza che abbiamo, derivante dalla lettura dei suoi taccuini, è che ebbe un incontro ravvicinato con una specie di cimice del bacio in Argentina e in Cile. Oggi quegli insetti verrebbero classificati come Triatoma infestans”.
Un bacio della morte. Perché la cimice del bacio, il cui nome all’anagrafe è Panstrongylus megistus, ospita nelle sue viscere il parassita Trypanosoma cruzi il quale, non casualmente per la storia raccontata da Daisy Hernandez, si trova solo nelle Americhe, avendo però un cugino nell’Africa Centrale e Occidentale, Trypanosoma brucei gambiense , causa della più popolare “malattia del sonno”, e che all’inizio del XX secolo, in Uganda, fece 250mila vittime in soli cinque anni, minacciando le forniture di gomma e avorio dall’Africa all’Europa, e mobilitando perciò Belgio e Gran Bretagna in una dichiarata “guerra al parassita”. Tornando in America e a T. cruzi, a vederlo ingrandito ha un aspetto molto meno terrificante dello scarafaggio che lo ospita. Nel ventre di ogni cimice appare come un girino con la faccia appuntita ed è chiamato epimastigote. Quando si sposta nella parte inferiore dell’intestino assume le sembianze di un’anguilla con una cresta moicana e cambia nome, in tripomastigote.
Con quest’ultima fattezza lascia la cimice del bacio attraverso le feci e se, per fortuna sua ma non dell’ospite, atterra su un corpo umano, in particolare vicino agli occhi, al naso, alla bocca, lo invade. Dopo il bacio-morso, il carrier defeca. E qui cominciano i veri guai. “T. cruzi penetra nelle cellule e, dopo qualche ora, assume una forma simile a quella di una moneta. È quasi del tutto privo della coda e spesso, se osservato al microscopio su un vetrino colorato, ha una sfumatura color lavanda”. Ha cambiato ancora una volta nome, ora è un amastigote. E si moltiplica: due monete, quattro, otto… “I parassiti vibrano, si dimenano. Sottomettono le cellule che occupano fino a ucciderle, e quindi ricominciano a cacciare”. Altre cellule, altre trasformazioni, altre uccisioni. “Se questo ciclo si compie all’interno del cuore e si ripete abbastanza spesso, il tessuto cardiaco si cicatrizza mano a mano che le cellule muoiono. Il cuore si indebolisce con il passare dei decenni. È difficile pompare sangue con i tessuti cicatrizzati”. Trypasonoma ovvero, in greco antico, trypanon: un trapano, un organismo che perfora un corpo. Lo fa di nascosto, a volte per trent’anni e più, prevalentemente nel muscolo cardiaco, interrompendo le correnti elettriche e divorandone i tessuti; ma anche nell’esofago e nel colon. Come capitò alla Tia Dora, la sorella della madre di Daisy Hernandez, la sua zia-madre, che l’autrice incontra quando ha appena 6 anni nel cuarto dell’ospedale di New York, con il suo viso magro e il mento a punta, con “le consonati spagnole che le scappavano dalla bocca”, la prima volta che ascoltò dalla madre la parola Chagas. Il racconto della Hernandez parte da qui, e si sviluppa “in cerca…”: della storia della sua famiglia, della cimice del bacio, di altre famiglie, di altre storie come quella della Tia Dora. È un racconto che prova a cucire di proposito la dimensione degli affetti, con quella della ricerca scientifica e l’indagine e la denuncia sociale, giacché “le malattie infettive non vengono debellate in maniera sistematica, ma relegate alle comunità di colore, ai poveri, ai senzatetto, ai cittadini di questa seconda America”. Ambizione giustificata e lodevolissima, peccato che le cuciture si leggano troppo e che le diverse storie viaggino in parallelo, senza trovare nel testo una scrittura capace di riassumerle in una narrazione unica. Poteva essere una saga familiare, raccontata a partire dalla negletta terribilità di una malattia sconosciuta ai più; poteva essere un saggio di giornalismo investigativo – alla Quammen, per intenderci – che incrociava le storie personali di molti, assai involontari, protagonisti; poteva essere un pamphlet di denuncia del “grande divario epidemiologico”, di cui a uno degli ultimi capitoli del testo. Sicché, questo “bacio dell’insetto”, volendo essere un po’ tutto, manca l’obiettivo principale, quello di catturare il lettore. Ed è un gran peccato. Perché la sua lettura rimane raccomandabile, diremmo anche necessaria. Oggi che pensiamo di aver debellato l’AIDS – quantomeno nelle nostre società occidentali –, dobbiamo sapere invece che esso è stato relegato alla comunità nera. “Nel 2016 i CDC [l’agenzia federale degli Stati Uniti, per il controllo e la prevenzione delle malattie, ndr.] stimarono che un afroamericano su due che fa sesso con un altro uomo contrarrà l’HIV”: come ha titolato il New York Times nel 2017, “un’epidemia nascosta di HIV in America”. Sempre negli USA, oggi, il tasso di tubercolosi tra gli immigrati – una patologia che saremmo tentati di attribuire solo alla memoria musicale di Violetta Valéry – è quindici volte più alto rispetto a quello degli autoctoni, mentre nel 2015 superò l’AIDS come malattia infettiva più letale al mondo, con il picco di casi più altri degli ultimi 26 anni. L’analisi assai recente del bilancio delle vittime del Covid-19 a New York, registra un tasso di mortalità, tra gli afroamericani e i latinoamericani, due volte superiore a quello dei bianchi. L’antropologo medico Paul Farmer sottolinea che esiste “un grande divario epidemiologico: da una parte ci sono quelle persone che moriranno di malattie legate alla vecchiaia, dall’altra quelle che moriranno molto prima perché i farmaci per le malattie curabili sono troppo costosi o nei villaggi in cui vivono non c’è abbastanza cibo per tutti”. Oppure, aggiunge la Hernandez, “perché tra i test di screening prenatali non c’è quello della malattia del bacio”. Al grande divario epidemiologico si affianca l’epiélite, quella delle famiglie che, negli Stati Uniti, possono permettersi di pagare 40 o 80mila dollari l’anno per avere a disposizione una rete di medici a chiamata. Un membro di questa élite risponde al nome di John Battelle, il cofondatore della rivista “Wired”, che con apprezzabile sincerità, a un giornalista che lo intervistava, ricordando di un incidente traumatologico occorso a suo figlio confessava: “Mi sento in colpa per avere la possibilità di saltare la fila. Ma quando uno ha dei figli, salta la fila”. E salta il divario epidemiologico. Nelle parole della cardiologa Arunima Misra, del Ben Taub Hospital, il più grande ospedale non profit di Houston, di fronte a una “Lucia” che non poteva permettersi un trapianto di cuore resosi necessario per l’azione distruttrice di T. cruzi: “Io vivo da questa parte del confine e lei [Lucia] dall’altra, quindi io ricevo assistenza sanitaria e lei no. Non possiamo salvare il mondo intero. Questo lo capisco, ma dovrebbe esserci comunque un sistema migliore”.
Testimonianze come Il bacio dell’insetto ci ricordano le conseguenze delle fenomenali disuguaglianze che riguardano il nostro mondo di privilegiati del mondo. E che bisogna immaginare un sistema migliore. Fosse solo per questo, l’eventualità per cui la scrittura di Daisy Hernandez, forse, poteva dispiegarsi con migliore creatività, non è una buona ragione per giustificare l’esenzione da una lettura necessaria.