Fotografie di Giuseppe Leone / Consolo, la Sicilia passeggiata
La Sicilia passeggiata (Mimesis, 2021) è il titolo di un saggio che Vincenzo Consolo dedica alla regione in cui è nato, arricchito dalle fotografie di Giuseppe Leone. Passeggiare non è sinonimo di vagare a caso, come un flâneur nelle vie di una moderna metropoli, ma significa innanzitutto tornare sui propri passi. Poiché la Sicilia passeggiata non è la stessa cosa di una passeggiata in Sicilia. I passi, non importa fino a che punto reali o immaginari, sono quelli di un viandante, che decide la direzione durante il suo cammino, un percorso a ritroso nel tempo e nello spazio, dove la meta coincide con il punto di partenza. Non si tratta infatti di un viaggio di scoperta, e nemmeno di esplorazione, ma è posto sotto il segno del nostos, del ritorno.
“Passeggiarla”, lasciare la propria impronta sulla sua terra è, per Consolo, un modo per misurarsi con i passi di chi lo ha preceduto, risalire idealmente a un punto originario che trascolora nel mito.
Il libro si apre con la citazione dell’Inno omerico a Demetra, Dea mater, dea della fertilità e delle messi. La versione più diffusa racconta che Demetra, disperata perché la figlia Persefone/Kore è stata rapita da Ade e relegata negli Inferi, per il dolore reagisce rendendo sterile la Terra; davanti a questa prospettiva di morte, Zeus propone a Demetra che Kore rimanga prigioniera per metà dell’anno, ritornando a fecondare la Terra dalla primavera all’autunno. Persefone, dunque, si presenta come figlia della dea della fertilità, ma anche sposa del re dei morti. Il legame tra Kore (ragazza, figlia) e Demetra simboleggia l’avvicendarsi delle stagioni e il ciclo della vegetazione, ma anche, per esteso, lo stesso ciclo vitale: solo il seme sepolto nella terra può rinascere come spiga, che è cibo e vita. Ciò che appare come una morte è in realtà la preparazione alla vita e al suo ritmo, a ciò che nasce e a ciò che inevitabilmente finisce.
Il mito di partenza, e di approdo, di Vincenzo Consolo è dunque fondato su un sostanziale dualismo che, come si vedrà, può essere declinato in diverse modalità.
Intanto, non è senza importanza che tra le località indicate dalla tradizione come quelle del rapimento di Proserpina, figurino Enna e Siracusa.
E proprio dal Siracusano, dalla necropoli di Pantalica, iniziano i passi di Consolo. Una città di morti capace di dare alloggio ai vivi, agli sfollati, a eremiti e banditi, a muli, asini, capre, pecore e pollame. Grotte che nei secoli sono state abitazioni, chiese, stalle, depositi, ripari; un’architettura di picconi e sudore, fatta a scavare e non a erigere, un costruire in negativo, con il dualismo originario fertile/sterile di Demetra che diventa pieno/vuoto, dove il vuoto è il ventre necessario a ospitare il pieno e il pieno deve subire l’insidia del tempo. Il racconto di Consolo ha il tempo lento e impercettibile di una goccia che scava la roccia: “Il vecchio parlava sempre, mi raccontava la sua vita, la fanciullezza e la giovinezza passate in quel luogo. Mi diceva di erbe e di animali, dei serpenti dell'Ànapo, e di un enorme serpente, la biddina, fantastico drago, che pochi hanno visto, che fàscina e ingoia uomini, asini, pecore, capre”, scrive in Le pietre di Pantalica.
I passi proseguono in una dimensione onirica, senza apparente logica, come un concatenarsi di associazioni di idee. La necropoli scavata nella roccia trova adesso il suo doppio nell’alveare, dove dal buio della cella, con la metamorfosi da larva a ninfa e poi a insetto alato si opera il miracolo della vita e dell’abbondanza. Il miele, cibo degli dei, e la storia millenaria di uomini dediti all’apicoltura, hanno lasciato tracce indelebili nella toponomastica. A Megara Iblea, situata forse nei pressi dell'odierna Avola, che porta ancora oggi nel suo stemma l'ape sicula, si coniò anche una moneta con l'effigie dell'ape per ricordare il famoso miele dei monti Iblei.
La coppia tenebra/luce dell’alveare si fa più concreta nella città di Lucia, in quello spazio “a forma d’occhio” del Duomo di Siracusa dove “regna la signora della luce e della vista: (…) dove è incastonato l’antico tempio di Minerva, la dea dell’olio, dell’ulivo, della luce dell’intelligenza”. Non è difficile scorgere in Lucia, come in Barbara, Agata, Venera, Ninfa, Febronia e tante altre vergini e martiri siciliane o venerate in Sicilia, una schiera di figure femminili che nelle loro agiografie differiscono solo per dettagli e circostanze, ma che convergono tutte fortemente sul modello arcaico di Persefone, la fanciulla vittima predestinata, il cui sacrificio è necessario perché possa adempiersi un disegno prescritto. La perdita della verginità è il prezzo da pagare per la fertilità, perché avvenga la muta da pupa a farfalla, da figlia a madre. La madre Demetra, a sua volta, deve sopportare di essere spogliata e privata dei frutti che solo grazie a lei si sono potuti cogliere. L’analogia fra le grandi madri mediterranee e i loro culti misterici legati alla fecondità e la Bedda Matre cristiana è sin troppo trasparente e raggiunge, “ideale forma nel momento del dolore sommo, quello in cui, durante la Settimana Santa, le viene ucciso il figlio”.
Il viaggio prosegue verso Enna. Qui “è il centro, il punto, più remoto e interno, e qui è l’ònfalo, la grotta e il grembo del più antico mito: della madre terra, della natura che muore e risorge. Qui i greci insegnarono ai pastori siculi a fendere la crosta con l’aratro, a spargere il seme, a raccogliere le spighe. E qui forse portarono, nella feracità di questa vasta plaga, il mito e il mistero del conflitto tra l’estate e l’inverno, la superficie luminosa e la tenebra ctonia, il regno di Ade che trattiene la fanciulla”. Il granaio dei greci e di Roma, la crapula di Verre e la fiaccola accesa delle rivolte servili, ma soprattutto i santuari dedicati a Demetra e Kore, i siti archeologici di Morgantina e Aidone, la statua della Dea e gli acroliti, le statuette votive di donne che reggono fiaccola e porcellino, testimonianze del culto tesmoforico. Qui, al centro della Sicilia, “finisce il regno diurno, luminoso e munifico di Demetra e comincia quello notturno, sotterraneo e pauroso di Plutone”.
Plutone, tuttavia, non è unicamente il signore della tenebra, i giacimenti di zolfo custoditi nel ventre della terra suscitano speranza. Le solfatare, attivate con criteri industriali, appaiono nel Settecento e si sviluppano nell’arco di due secoli, sino a sparire negli anni Cinquanta, “lasciando tutto come prima, peggio di prima”.
Se Enna è l’ombelico del mondo, il punto che mette in equilibrio Eros e Thanatos e i mondi di sopra e di sotto, i passi successivi conducono alla coppia realtà/finzione. Agrigento è la città di Empedocle, ma per Consolo è soprattutto di Pirandello, con il suo teatro “fatto di verità enunciate e subito distrutte, sostituite da altre; fatto d’ironia, d’umorismo, di drammatico conflitto tra la fissità, la cristallizzazione della forma e la guizzante, mobile verità della vita, tra la maschera e la nudità del volto”.
La Grecia inseguita del mito viene trovata qui, nella Valle dei Templi, ma le maestose presenze continuano con Selinunte, l’avamposto più occidentale verso Cartagine, con la greca Trapani e la fenicia Mozia e, finalmente, con Segesta fondata da Enea, come Erice. Dalle cime brumose del santuario di Venere Erycina l’occhio dello scrittore si abbassa all’orizzonte, alle Egadi, a Favignana, alla mattanza del tonno. Ma la tonnara non è solo una tecnica di pesca affinatasi lungo i millenni, è un rito collettivo che assume linguaggi e simboli religiosi. Il raìs è, lo era fino alla trasformazione industriale di questo tipo di pesca, uno sciamano, l’unica persona legittimata a interpretare i segni della natura e a tradurli in decisioni fondamentali per l’esito dell’impresa, che coinvolgeva centinaia di persone e ingenti capitali. Al segnale del raìs la “camera della morte” si solleva e i tonni prigionieri intuiscono la fine, si dibattono, “sferzando l’acqua con le code, facendola ribollire e schiumare, arpionati e feriti, arrossano col sangue quella liquida arena”.
Il mito molto facilmente si fa rito. Ecco allora, al termine del viaggio, a Palermo, Consolo racconta della “corona di rose carnose che cinge la virginea fronte” di Santa Rosalia. La Santa estatica che è tutte le Sante vergini di Sicilia ma anche la Kore, la “fanciulla assopita nell’inverno della grotta, negli ascosi meandri”, in attesa che “esca dal suo torpore di pupa, salga sopra il carro d’oro, torni alla superficie, risorga alla luce”. Il cerchio si chiude: dalla iniziale citazione dell’inno omerico a Demetra, lo scrittore evoca la rinascita con S. Rosalia-Kore (il titolo originario dello scritto era proprio Kore risorgente).
Il merito principale di questo libro di Consolo, specialmente per chi non è siciliano, sta nello svelare punti di contatto, parentele, associazioni tra fatti apparentemente distanti, mostrare l’attualità del mito e la persistenza delle strutture antropologiche che lo creano e lo sostengono. Il mito non è confinato nel tempo della classicità, della letteratura o dell’iconografia, ma può diventare parte della nostra storia.
Il pieno/vuoto e la luce/ombra delle necropoli e delle latomie possono così arieggiare temi caratteristici del Barocco, specie se vi si associano le suggestioni della morte e della resurrezione e quelle della colpa e dell’espiazione. Le feste religiose che Consolo passa in rassegna sono facilmente decifrabili secondo l’antico calendario di Madre Terra, mentre le forme in cui vengono espresse sono un tributo ai popoli che l’hanno attraversata e alla loro capacità creativa. Senza escludere, naturalmente, una sapiente regia, che nel caso siciliano e meridionale in genere, può farsi risalire alla profonda teatralità barocca e alla sua ispirazione gesuita. Non si dimentichi che il primo Collegio nasce a Messina nel 1548, seguito l’anno successivo da quello di Palermo.
Tuttavia, una topografia consoliana della Sicilia, costruita su questa Sicilia passeggiata, darebbe come esito una Sicilia dimezzata. I passi di Consolo sono tutti interni a una linea che, partendo da Siracusa, conduce a Enna e si ferma a Palermo. Rimane quindi esclusa proprio la sua matrìa, i Nebrodi, le Madonie, il litorale tirrenico, Messina, Taormina, il litorale ionico fino a Siracusa, l’Etna, il corso dell’Aci, la riviera dei Ciclopi e Catania. Se il motivo ispiratore è il nostos, risalire alle radici, al mito, non si può certo dire che i motivi di esclusione stiano in una mancanza di interesse.
Illuminanti, a tale proposito, possono essere le parole di Consolo che Enzo Papa riporta in un saggio apparso sul volume 58 di Belfagor: “Dalla mia Finisterre potevo muovere verso il centro del caos, verso il Vulcano, o verso lo iato dello Stretto, verso le fate morgane e i terremoti; o muovere verso l'occidente dei segni della storia profondi e affollati. I due mondi avevano generato due letterature differenti: mitica, affabulante, lirica, fortemente segnata dalla forma l'una; l'altra, storicistica, civile, logica, dialettica, fino al sofisma pirandelliano e alla requisitoria sciasciana. Sì, Piccolo e Sciascia erano per me gli archetipi di quei due mondi. Capii che quella mia rischiosa marginalità, quella mia incerta posizione poteva diventare punto di partenza nella costruzione di una identità. La quale poteva consistere nel far da ponte di passaggio fra quei due mondi, di composizione di quei due opposti. Poteva, quella identità, consistere in un movimento continuo dalla natura alla cultura, dal mito alla storia, dalla fantasia alla ragione, dalla poesia alla prosa. E mi sembrò poi questo movimento, questo partire ogni volta da lontano, dal profondo, e approdare al presente, alla superficie, l'essenza della narrativa: un ibrido, un incrocio di comunicazione ed espressione, di logico e di magico”.
Data questa lucida consapevolezza di due Sicilie, e due letterature, deve essere esclusa ogni ipotesi di casualità. La questione di una Sicilia ignorata non può essere elusa, e anche se non è questa la sede per essere affrontata, è difficile resistere alla tentazione di una riflessione. A questo proposito la biografia dello scrittore può essere davvero molto utile per comprendere le ragioni delle omissioni, i luoghi deliberatamente esclusi dalla sua “passeggiata”.
Consolo nasce nel 1933 in provincia di Messina, a Sant’Agata di Militello; consegue la maturità classica a Barcellona Pozzo di Gotto, si iscrive alla Cattolica di Milano e si laurea a Messina, in Giurisprudenza. Fa pratica notarile a Lipari, dal 1958 insegna nelle scuole agrarie dei Nebrodi e poi, dopo aver vinto un concorso alla RAI, nel 1968 si trasferisce definitivamente nella città lombarda.
C’erano due modi per andare a Milano, dice lo scrittore: da studenti o da emigranti. Consolo si distacca dalla Sicilia terra madre per volontà e non per necessità, con la cartella dell’intellettuale e non con la valigia di cartone. In un’intervista di Lucio Zinna del 1988 racconta: “Ecco, io sono andato a Milano perché ho obbedito a una sorta di mitologia letteraria, perché era stata la città di Verga, perché a Milano c’era Vittorini. Poi, dopo finiti gli studi, sono tornato in Sicilia per fare lo scrittore, perché mi interessava naturalmente il mio ambiente storico, il mio ambiente sociale. Sono stato fino al ’68 ma poi ho visto che quest’isola si desertificava, il mondo che mi interessava non c’era più e anch’io ho fatto le valige e sono tornato a Milano perché era l’unica città possibile per me, perché a Milano mi sembrava che allora – proprio ancora sulla spinta della mitologia vittoriniana dell’industria a misura d’uomo, delle sperimentazioni che allora si facevano di industria e letteratura –, mi sembrava, appunto, che a Milano ricominciasse una nuova storia, volevo conoscere questo mondo industriale”.
Cos’è dunque la Sicilia? La madre terra abbandonata dall’ambizione, la propria storia tradita per conoscerne da vicino un’altra, nuova, industriale. Rimpianto, malinconia, amarezza, senso di colpa? Resta il fatto che quando può, Consolo ritorna in Sicilia, come a cercare benedizione e perdono da una vecchia madre lasciata sola al proprio destino. Che però non ha il coraggio di incontrare direttamente, di guardarla in viso. È meno doloroso cercarla altrove, più lontano, dove gli accenti tradiscono affinità ma non parentela. Forse è per questo che non cita affatto Messina, e innalza Enna a centro ideale della Sicilia, il baricentro del Triscele, incurante che, così facendo la Trinakrìa, puntellata sui capi di Passero e Lilibeo, ma priva di Peloro, rischia di inabissarsi. A meno che un Cola Pesce non intervenga prontamente a reggere la colonna di appoggio.
In questo libro ci pensa la fotografia a far la parte di Cola Pesce. Le foto di Giuseppe Leone sono la malta cementizia che tiene salde le basole sconnesse e traballanti di Vincenzo Consolo.
Alle faglie di un tempo imploso e alle lacune di uno spazio navigato a capriccio, Leone offre la solidità del conosciuto, la sicurezza del conoscibile e l’esperienza del deja vu. Il suo archivio è costituito da più di 500.000 fotografie, un bacino di memorie, come scrigni di memorie sono i libri realizzati con molti scrittori siciliani: Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, lo stesso Consolo (fotografati insieme in una delle sue immagini più famose), Corrado Sofia, Maria Attanasio, ma anche con Diego Mormorio, storico della fotografia, e con il critico Salvatore Silvano Nigro. L’apparato iconografico presente nel libro, solo una piccola emergenza dello sterminato archivio personale, è la zavorra che tiene ancorata al suolo la voce dello scrittore, è la risposta all’universale e ancestrale paura di ogni uomo che un giorno tutto scompaia, come dopo un terremoto. In apertura di un capitolo di Le pietre di Pantàlica: “Io non so che voglia sia questa, ogni volta che torno in Sicilia, di volerla girare e girare, di percorrere ogni lato, ogni capo della costa, inoltrarmi all'interno, sostare in città e paesi, in villaggi e luoghi sperduti, rivedere vecchie persone, conoscerne nuove. Una voglia, una smania che non mi lascia star fermo in un posto. Non so. Ma sospetto sia questo una sorta d'addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca”.
Una coincidenza, certo, ma il 1968, l’anno del trapianto definitivo al Nord, è anche quello del terribile terremoto del Belìce. Morte e dolore, e trauma anche per un toponimo che, da allora, televisivamente famoso, subirà la beffa di diventare nordisticamente Bèlice.
Il terremoto del Val di Noto-1693, quello di Messina-1908 e di Gibellina-1968, è "la fine del mondo", apocalisse culturale nel senso finemente analizzato da Augusto Placanica nel libro Il filosofo e la catastrofe: “esso non solo uccide l'esistenza biologica, ma rompe i cardini della natura, spezza l'asse della terra, risospinge la società e la storia all'indietro". Da qui la necessità di segni, visibili, di intelligenza dell’accaduto e di rinascita, di rielaborazione letteraria e artistica, di inglobare il passato in un atto poetico, una scommessa per il futuro, come le macerie di Gibellina nel Cretto di Burri.
Le foto di Giuseppe Leone si oppongono alle macerie della memoria, sono necessarie per andare al di là delle parole. Con la loro “terrosità” fanno da cretto alla memoria che si sfalda, sono “concrete”, proprio nel senso di concrezione, di massa. E soprattutto di colore. L’occhio fotografico di Leone non privilegia particolari inquadrature, angoli, prospettive; la sua tecnica non prevede vezzi o accorgimenti. Ciò che accomuna le foto di questo libro è il colore, che è materico, fatto di elementi naturali come i pigmenti dei pittori di un tempo. Le immagini si legano tra loro con il colore.
Sono didascalie visive al testo. Il Paesaggio ibleo e quello delle Madonie è giallo; la ragazzina che tiene in mano un enorme cuore trafitto da una spada in Venerdì santo a Trapani indossa un abito nero; azzurra è La foce del Simeto, come le Secche di Tindari; marrone color terra sono le pendici dell’altipiano della Valle dei Templi ad Agrigento; bianca è la luce che passa attraverso le colonne del tempio di Selinunte, come la salina a Mozia; rossa è la carne del tonno alla Vucciria di Palermo, come le cupole di S. Giovanni agli Eremiti. La fotografia si comporta come il coro in una tragedia greca. L’immagine riprende, amplifica e sottolinea la parola dello scrittore; cerca di strapparla dallo stato onirico e farla atterrare.
La corposa appendice di immagini riafferma la connessione etimologica tra mater e materia: la presenza della materia (fotografica) e l’assenza della madre (mater) terra, con cui si realizza il passaggio dall’invisibile al visibile. Come si tiene amorevolmente in tasca la foto di un amato, e si guarda per ripercorrere i tratti di un volto che rischia di scomparire. La Sicilia è vera, esiste, le fotografie stanno lì a dimostrarlo.
Ma la Sicilia è terra di mito, e la parola a terra ci sta poco, giusto il tempo di mescolarvisi e di trasformarsi in altro.