Sesto S. Giovanni / Paesi e città

9 Novembre 2011

L’Italia è piena di Sesti: Calende, Ulteriano, Fiorentino, al Reghena, Campano. E di Dis-sesti. Parlerò di Sesto S. Giovanni.

Tutti i comuni dell’interland milanese hanno una caratteristica comune: non hanno nessuna caratteristica, che so la presenza di un obelisco, di una cattedrale, di un grattacielo; così l’uno non si distingue dall’altro. Le varie amministrazioni però si danno da fare per il proprio centro, che finisce per assomigliare a quello dei comuni limitrofi: il modello è sempre lo stesso: la Svizzera borghese. Alla periferia di ciascuno si legge: qui Sesto, poco oltre Cinisello, a destra Cologno ecc, ma non c’è soluzione di continuità e niente ti fa capire che sei altrove: in macchina (solo in macchina puoi viaggiare per la Ruhr italiana) ti perdi: per la mancanza di punti di riferimento. D’inverno una volta davi la colpa alla nebbia, oggi anche quella se ne è andata per far posto alle polveri sottili dei riscaldamenti e della tua stessa auto. La mancanza di un disegno urbano, di un progetto urbanistico si diceva una volta, ti aggredisce ovunque; i cartelli pubblicitari, grandi e piccoli in fila serrata, rendono l’ambiente edilizio già di per sé caotico, identico ovunque: piatto e cartaceo, colorato di cosce, carrozzerie e, sotto le eternamente ricorrenti elezioni, di facce ridanciane dei politici d’ambo i sessi (ma soprattutto di destra: hanno la grana, forse per questo ridono con più gusto).

 

 

Sesto S. Giovanni è solo una realtà amministrativa, di sinistra, da sempre, ma ci sono da rilevare due fatti importanti e antitetici:

1. Alle scorse elezioni amministrative la città medaglia d’oro della Resistenza al Nazifascismo, definita la Stalingrado d’Italia per i suoi morti, ha rischiato di consegnarsi alla destra. Negli ultimi vent’anni è stata abbandonata dalle sue famose industrie: l’Ercole Marelli, la Magneti, la Breda e la più grande di tutte, l’Acciaierie Falk , che occupava una buona metà del territorio comunale: tutte chiuse per fallimento, trasferimento, cessazione d’attività. Una rivoluzione.

2. Reagendo all’inevitabile, per le aree dismesse l’Amministrazione ha chiamato un famoso architetto, Renzo Piano. All’orizzonte si profila l’ala protettiva dell’Unesco.

 

 

Quando 26 anni fa da Milano portai armi e bagagli colà per lavorare (in un capannone in Viale Rimembranze, angolo via Pace, Viale Edison e Via Carlo Marx; non faccio per dire: la pace eterna, quella sociale, l’energia e l’ideologia: meglio di così!) ero contento: le bettole locali, oggi trasformate in bar più o meno alla moda per happy hours o in outlets, con diecimila lire ti davano pasta scotta, bistecchina e vino al metanolo, ma stavo in buona compagnia: gente col gomito sul tavolo e stuzzicadenti postprandiale; peregrinando per Vulcano o per i capannoni dell’Ercole Marelli, potevo assistere a spettacoli straordinari: ne racconto uno per tutti: un’elettrocalamita solleva una sfera d’acciaio, più di un metro di diametro, a venti d’altezza e poi la fa cadere su una lingottiera di ghisa fratturata: la terra trema e mille schegge di schrapnell volano attorno.

 

 

Oggi, con la bicicletta di turno (una all’anno, pagata al vandalismo o ai ladri di tutte le razze) non mi do per vinto e come l’ape sul fiore giro e rigiro per le strade che delimitano le famose aree industriali abbandonate, cercando pertugi per poter entrare di straforo: mi attirano le strane costruzioni che si intravedono oltre le recinzioni e soprattutto il silenzio che sembra circondarle.

Ci riesco, ci sono riuscito: a dispetto dei miei settanta, raspo come le talpe sotto le recinzioni o mi arrampico come i babbuini oltre il filo spinato e compio l’effrazione. Non so se sia per la violazione appena compiuta o per lo spettacolo che mi si para davanti, fatto sta che il cuore mi batte fortissimo e un senso di grande liberazione si impadronisce di me.

 

 

“So ist hier die Stille”, caro Malte: enormi scheletri d’acciaio vuoti filtrano la luce del cielo attraverso le loro altissime capriate; il vento fa risuonare le poche lamiere rimaste attaccate: sbattendole una contro l’altra mi regala il fascino di un concerto di Lachenmann; grandi bacini tondi e profondissimi riflettono la mia testolina che si sporge dal parapetto: infide scale di ferro arrugginito agguantano la vittima che si azzarda a scenderle per trovarsi a livello dell’acqua: laggiù il silenzio è totale e il piccolo cielo sopra è attraversato da strani uccelli; tombe scoperchiate di cemento armato, irte di ferri sradicati e contorti conficcati sulle loro superfici, si snodano sotto i miei piedi in labirinti incomprensibili con scale e scalette che mi ricordano, rovesciate, le Carceri d’invenzione del Piranesi: il suolo è nero di morchia e di muschio, rospi e rane saltano fra i tuoi piedi; ho visto serpenti grossi come il mio pugno allontanarsi lentamente nel folto dei rovi; ho colto conigli selvatici sfrecciare lontano e strani uccelli volare raso terra; i fuochi dei bivacchi degli ultimi abitanti di razza umana, qualche rumeno accampato e sospettoso, hanno lasciato alle piogge le loro lontane tracce; aleggia nell’aria un odore indefinibile, un misto di ruggine, morchia, diossina e fiori di buddleia.

 

 

Oltre a quest’arbusto bellissimo e pervicace rare robinie e frequentissimi ailanti (le uniche essenze che hanno qualche probabilità di sopravvivere all’imminente disastro atomico) hanno stabilito il loro dominio sulle aree scoperte. Un paio di vecchi cedri altissimi testimoniano delle zone un tempo privilegiate delle palazzine per uffici; qualcuna è rimasta: all’interno vernice alle pareti tutta arricciata, cassettiere sventrate, faldoni aperti e pietrificati dall’umidità; in un cesso per operai ho visto attaccati alle pareti una sfilza di resti di orinoirs (un tempo rigorosamente diritti, a dispetto di Duchamp), mentre a terra il pavimento era cosparso dei frammenti lasciati dalla furia distruttrice: un gigante maligno era sicuramente passato da quelle parti seminando il terrore: la terra all’aperto e sotto i capannoni era tappezzata da guanti da lavoro abbandonati dagli uomini in fuga.

 

Buon lavoro, Renzo.

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