Peter Flamm: Io? Io, chi? chi altri?

16 Agosto 2024

Erich Mosse scrisse Io? (traduzione di Margherita Belardetti, Adelphi 2024) usando uno pseudonimo, Peter Flamm, se vogliamo interpretare questa scelta come un segnale che aggiunge mistero in un romanzo incentrato sulla storia di un "io" che si sdoppia, mentre occulta l'identità dell'autore sotto un falso nome. Nato a Berlino nel 1891, famiglia appartenente all'alta borghesia ebraica, fu costretto all'esilio prima a Parigi poi a New York, dove esercitò la professione di psichiatra. Io? fu pubblicato la prima volta nel 1926: il nuovo pathos espressionista contagia il linguaggio letterario, che aspira a diventare categoria psicologica, conoscitiva, morale.

In Flamm si salda con i suoi studi di medicina, come in Gottfried Benn (1886-1956) suo contemporaneo: Morgue, 1912, sembra ispirare alcune descrizioni di Io?. "E' già legato al tavolo bianco, i polsi con le corde, le gambe con una larga cinghia, già dorme, il corpo si dibatte ancora, i muscoli si irrigidiscono nello spasmo, la faccia sotto la maschera è rossa e gonfia, l'infermiera gli alza la palpebra sinistra e picchietta con il polpastrello sull'occhio, lui trasalisce appena, è ancora un uomo questo?", scrive Flamm, e sembra di leggere una delle poesie del ciclo espressionista di Benn, tra dissacrazione del corpo e "squallida verità della scienza". Amico di Thomas Mann, l'autore di Io? pubblica questo suo primo romanzo due anni dopo La montagna incantata, senza essere debitore in niente nei confronti dell'amico, con il quale, sappiamo dalla sua biografia, passava interi pomeriggi a parlare.

Sono piuttosto il grottesco, il continuo sovrapporsi dei piani narrativi e un uso caratteristico della punteggiatura, con interruzioni nei dialoghi, che ne fanno un romanzo quasi sperimentale. L'ultimo giorno della prima guerra mondiale, Hans Stern, un rispettabile medico borghese, torna a casa, ma forse non è lui, l'identità rubatagli da un poveraccio, Wilhelm Bettuch, un fornaio, che gli ha sottratto il passaporto ("il suo passaporto, il suo nome – e il suo destino") dopo aver inciampato nel suo corpo morto, in trincea: "Non io, signori giudici, un morto che parla per bocca mia. Non sono io qui, non è mio questo braccio che si alza, non sono miei questi capelli ora bianchi, non è mio il crimine, non è mio il crimine". L'incipit è già la dichiarazione di un impostore, con quel riferimento a un morto che parla. E poi: "non ero io, non sono io", "Io? Io, chi? chi altri?", "io non sono io, che c'entro io?".

Quando arriva a casa, a Berlino, viene festeggiato; la moglie e gli amici lo riconoscono, è lui, Hans Stern (ma Bettuch, il fornaio che ne ha preso le sembianze, in un soprassalto di lucidità: "come ho potuto dimenticare di avere madre e sorella a Francoforte, come?"). Solo il cane Nerone sembra non riconoscerlo, gli ringhia contro sospettoso e lo morde. "Forse io non lo sono, anche se il mio cagnolino mi conosce" scriveva Gertrude Stein (1874-1946) in Autobiografia di tutti (1937), chissà se aveva letto questa pagina di Flamm. Inizia un lungo soliloquio pieno di dubbi sulla sua identità, Stern/Bettuch trascina il lettore in un enigma, dove il borghese e il proletario si scambiano i ruoli nell'ambigua condiscendenza di coloro che circondano quell'uomo e non si sa se riconoscono davvero il loro familiare, trascinati a loro volta in un mondo di apparenze, ingigantite agli occhi di un sopravvissuto agli orrori della guerra, piombato nel caos della Berlino della Repubblica di Weimar.

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Forse la guerra lo ha cambiato così tanto da fargli credere di essere una persona diversa? A un certo punto Hans Stern si troverà a testimoniare in un processo per omicidio, in veste di perito medico. La donna accusata di aver assassinato un uomo è una certa Emma Bettuch, sorella di un Wilhelm morto in guerra. Stern, accusato in seguito lui stesso di assassinio, negherà di essere lui e dirà di aver rubato l'identità a un morto, la stessa cosa che dice Bettuch, fin dall'inizio. Ma è inutile cercare di venire a capo del groviglio, il romanzo imbocca false piste ad ogni pagina. L'esistenza come eterno fluire, tra i cadaveri che la guerra ha lasciato "sotto le macerie, sulla terra abbandonata": il narratore è un morto che piange, chiunque esso sia, "forse sono morto laggiù e chiamo me stesso attraverso lo spazio gelido, e ora mi sento e mi vedo eppure forse non sono affatto qui".

Trovare il modo di dissolversi, nella confusione: "Ho sempre voluto, sempre voluto uscire da me stesso, non è andata così, è ingiusto, vorrei gridare, perché quello è un ufficiale e quell'altro è ricco e io sono un proletario, no, io sono entrambi, sono un uomo istruito, sono un medico, pretendo il mio destino, pretendo la mia felicità". "Mi chiamo Erik Satie, come tutti", scrisse il grande musicista (1866-1925), poi parafrasato da altri scrittori, come se nei romanzi nessuno potesse mai essere unicamente sé stesso e le questioni di stile si risolvessero nell'assumere identità diverse, nel desiderio – o nella speranza – di essere nessuno. E Pirandello (1867-1936), un altro contemporaneo di Flamm: uno, nessuno, centomila e "io sono colei che mi si crede". Intorno alla figura dell'impostore – scrive Manfred Posani Lowenstein nella indispensabile e chiarificatrice postfazione a Io? – nel periodo di Weimar, sorgeva una vasta letteratura. Sono gli anni di Fraulein unbekannt, un'infelice che affermava di essere Anastasia Romanov, dello Smemorato di Collegno, un imbroglione che aveva davvero rubato l'identità a un morto in guerra, al quale si ispirò Pirandello per Come tu mi vuoi, 1930, e di Harry Domela, che per alcuni mesi visse nel lusso più sfrenato fingendosi il nipote del Kaiser Guglielmo II. "E' all'interno di questa tradizione, ai cui estremi si pongono il diabolico dottor Mabuse e l'affascinante Felix Krull, che maturò l'equivoca – ed effimera – fortuna di Io?" scrive Posani Lowenstein.

La genialità della trama sta nell'abilità di Peter Flamm di creare in chi legge una suspense, come se il lettore fosse chiamato a dipanare un giallo senza soluzione: "(...) Troverete me. Si, ossa e teschio e polvere e il mio nome, che non è il mio nome eppure lo è, il mio destino, che non appartiene a me, ma a un altro e ora mi è piombato addosso, soffocante come fosse il mio". Si può azzardare una lettura contemporanea del continuo "parlare di sé", di cosa distingue "io dall'altro", che infetta questo romanzo come una malattia, e che ammorba anche lo scorcio che ci troviamo ad attraversare di questi primi anni '20 del nostro secolo, dove riusciamo ad avere conferma della nostra identità, o almeno lo crediamo, solo attraverso lo sguardo degli altri. L'unica vita reale per lo scrittore è quella consacrata al servizio della letteratura, mentre noi lettori preferiamo perderci oggi nella finzione e nella frivola menzogna delle nostre second life: in Io?qualcuno doveva vivere per forza al posto di un altro, il nostro destino sembra invece quello di essere prigionieri di vite "autentiche" surrettiziamente false, simmetriche a quelle di milioni di altri come noi.   

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