Una conversazione con Matteo Lancini / Adolescenti senza parole: l'età tradita
Incontro Matteo Lancini a Milano, nella sede della Fondazione Minotauro – di cui è Presidente – che si occupa di adolescenti da più di trent’anni: Giovanna, Pierfrancesco, Arianna, Telemaco, Fabrizio.
È uscito da qualche settimana il suo ultimo libro, L’età tradita (Cortina Editore), un libro che, come mi ripeterà durante la nostra conversazione, suggerisce delle ipotesi per provare a cogliere il faticoso attraversamento della pandemia come un’opportunità, così da ripensare gli adolescenti, e il nostro rapporto con loro, imparando a stare in ascolto della loro parola, smettendo semplificazioni del tutto inopportune, sorde a quello che, con i loro sintomi e la loro sofferenza, provano a dirci.
Gli confesso, non appena mi riceve, che leggere le sue parole mi ha aiutato in un momento in cui, a scuola, sento di attraversare una duplice difficoltà. Da un lato è complicato il rapporto con i ragazzi, che ritrovo in terza, dopo due anni di dad, con evidenti fatiche non solo, non tanto, da un punto di vista didattico o di preparazione, quanto di vissuti emotivi poco simbolizzati – rabbia e apatia soprattutto –, di relazioni sfilacciate, di scarso desiderio e carente capacità di immaginare il proprio futuro. Dall’altro lato il corpo docente si trova diviso tra chi interroga quanto accaduto, e le trasformazioni attraversate, e chi prosegue il tentativo di ripristinare un modello che la pandemia ha reso più che mai anacronistico, un modello incapace di riconoscere fino in fondo quanto l’ansia generalizzata con cui ci troviamo ad avere a che fare abbia delle ricadute sulle prestazioni cognitive.
Incontro Matteo Lancini sapendo che non riceverò soluzioni e che non esistono tecniche efficaci: con grande chiarezza, nel suo volume, ribadisce più volte che non ci sono regole d’oro, formule magiche, pratiche risolutive. Ci è richiesta una radicale assunzione di responsabilità rispetto a messaggi contraddittori che noi, come adulti, abbiamo dato a una generazione che, come recita il titolo, stiamo tradendo. Gli adolescenti sono alla ricerca di adulti di riferimento, e è nostro compito – mi pare che di questo non si parli mai abbastanza – “raggiungere l’adolescente là dove è”, provando ad aiutarlo a mettere in parola la propria sofferenza e a fare i conti con quella inevitabile caduta narcisistica che l’impatto con la pubertà porta con sé.
A.S. Partirei dal fatto che questo libro si apre e si chiude con due lettere. La prima la scrive l’11 marzo 2020, è una lettera dai toni duri al cui centro è l’invito a considerare la campagna di sensibilizzazione messa in atto nei riguardi degli adolescenti nella primavera del 2020: le istituzioni, e gli adulti in generale, si sono rivolti agli adolescenti tacciandoli di irresponsabilità, attribuendo loro colpe e indifferenza. In chiusura, diciotto mesi dopo, scrive invece parole che sono un invito agli adulti – la politica, la scuola, le famiglie – perché facciano qualcosa subito. Mi pare che queste due lettere si presentino come una cornice, un richiamo a un’assunzione di responsabilità rispetto ai messaggi contraddittori che, come adulti, veicoliamo.
M.L. Chiunque scriva in questa fase della nostra storia è condizionato dal tema della pandemia, ma il mio mestiere è trasformare le situazioni di crisi in un’occasione di sviluppo e di crescita. Cosa possiamo fare? Ho una certa insofferenza verso le soluzioni semplificate: è colpa di internet, è colpa del virus. Abbiamo una responsabilità educativa, formativa, politica. L’insofferenza è anche per la frase che a volte sento, il desiderio di “ritornare velocemente come prima”. È una frase grave: quale è stato il senso della nostra sofferenza? Abbiamo necessità – ognuno nel proprio mestiere – di comprendere cosa ci ha insegnato tutto questo in termini educativi, in relazione al nostro rapporto con i figli o con gli studenti. La pandemia ci ha messo davanti alla morte, possiamo utilizzarla? Possiamo parlare della morte come parte integrante della vita? La morte è rimossa, lo è stata durante tutta la comunicazione del Covid: l’aspetto affettivo, relazionale, del senso, non è mai stato messo a tema. Ho messo la lettera iniziale, e questa semi-lettera in conclusione – mentre scrivevo mi sono accorto che era l’11 settembre 2021 e che erano dunque passati esattamente diciotto mesi –, perché mi è sembrato di dover inserire queste riflessioni in una cornice che fosse un invito a considerare quanto accaduto come un’occasione per guardare in modo diverso l’appello dei ragazzi che riempiono le neuropsichiatrie, che sono attraversati da un’ansia senza precedenti, che si tolgono la vita, che utilizzano il corpo come megafono per un dolore muto che non sanno dire: incremento di atti autolesivi, disturbi alimentari, ritiri sociali.
Dice due cose che mi sembrano centrali e che ritornano nel suo libro. Da un lato questa rimozione della morte si annoda alla rimozione di tutto quello che è sofferenza, fallimento, dolore. Dall’altro lato il tema della assenza di parole. Mi è parso interessante questo suo sottolineare come il tradimento dell’adolescenza sia relato all’iperinvestimento infantile: li cresciamo in un’illusione di onnipotenza e li lasciamo soli, senza parole, davanti all’incontro con l’esperienza del fallimento che è l’adolescenza, un’età in cui si prende coscienza dei propri limiti. Mi capita spesso di provare a interrogare il dolore e sentire l’assenza del campo semantico di riferimento necessario per la comprensione di alcune esperienze.
Credo che questo sia il problema e credo sia un problema destinato a aggravarsi in futuro. Perché? È come se, davanti a una fragilità dei nostri ruoli, gli chiedessimo di crescere in una sorta di iperadattamento a una società molto confusa. Perché dico confusa? Consideriamo l’onnipotenza: la società si crede onnipotente e uno dei rimproveri che più si sentono rivolgere agli adolescenti è proprio quello di credersi tali: irresponsabili perché immortali. Ma l’adolescenza è esattamente l’incontro – doloroso – con il dato di realtà: lo sviluppo cognitivo, l’accesso al pensiero ipotetico deduttivo, le trasformazioni del corpo innescate dalla pubertà. L’adolescente scopre che non è immortale, che è solo: ha paura e rischia la vita per provare a domare la morte, ma questo accade proprio perché ha scoperto che c’è, che è ineludibile.
Pensiamo a un altro tema: la competizione. Valutiamo a scuola, sin da che sono piccoli, con bollini rossi, bollini verdi e bollini con corona. Gli adulti mettono in parola la solidarietà e l’attenzione all’altro e poi gli studenti con difficoltà sono tacciati di ostacolare la strada di quelli che potrebbero procedere più rapidamente. Lo sport? Le società di calcio si strutturano in chiave competitiva, con squadra a, b, e c, e poi rimproveriamo Stefano se non passa la palla a Bruno. O internet. Tutti usiamo internet, non c’è ambito in cui si possa lavorare senza sapersi destreggiare con abilità nella rete, e i ragazzi di meno di diciotto anni – e solo loro – sono additati di dipendenza patologica dai computer o dai telefonini.
Esiste in questo momento una crisi che non è solo una crisi di assenza di valori, di autorità, ma è anche una crisi portata da questo tema dell’iperadattamento: è richiesto di essere bravi, di adattarsi, ma con criteri confusivi. Se tu da bambino non puoi esprimere la perplessità, la rabbia, il fallimento, ti adatti, ma quando arriva l’adolescenza, che ti chiede conto di chi sei, non hai parole per dire i sentimenti, non sai nemmeno comprenderli. La rabbia è vista immediatamente come aggressività, non viene interrogata, diventa segno di una ribellione: è sufficiente una spinta, che fa parte delle dinamiche adolescenziali, perché i genitori siano convocati. Non si tratta di opposizione: gli adolescenti oggi non contestano e spesso tacciono, il loro timore principale è quello di disilludere gli adulti che hanno caricato su di loro ideali grandiosi. La vergogna.
Il tema è l’angoscia degli adulti: lei parla di una percezione paranoicizzata del mondo esterno.
Pensiamo ai corpi. Consegniamo il corpo dei figli agli asili nidi a sei mesi e poi non siamo capaci di lasciare che un bambino raggiunga la scuola elementare in autonomia, a un isolato di distanza da dove abita. Sono modelli che costringono i ragazzi ad adattarsi, e con l’adolescenza? Perché i ragazzi virtualizzano tutte le esperienze? Il videogioco è fantastico per questo, capisco che nessuno tolleri il tema del videogioco ma è l’industria futura, in massima espansione, è l’ambiente dove crescono e quasi il solo dove possano fare delle attività fuori dal controllo degli adulti senza fare danni a nessuno. Hanno spostato lì gli spazi di gioco e di socializzazione, al riparo dalla duplice angoscia: quello che potrebbe succedere a loro e quello che potrebbero fare agli altri.
Rispetto a questa angoscia, dal lato della scuola, mi sembra che sia anche esito di una assenza di formazione: non ci si è posti il problema di pensare un modello alternativo a quello del voto e della prestazione. Io credo che persistano alcuni modelli perché c’è una difficoltà nel provare a immaginare un’alternativa per la quale non si è stati educati, alternativa che costringe a una messa in campo più radicale dell’insegnante nel suo rapporto con gli studenti, con la parola al di là delle nozioni.
Dobbiamo metterci d’accordo. O il problema è la scuola progressista, e dunque abbiamo sbagliato la riforma, oppure il problema è che la scuola è un meccanismo che nei fatti non si riesce a riformare: il problema non è stata la riforma Berlinguer, è l’assenza totale di cambiamento. Le ragioni sono molte e il discorso è politico, ma si lavora sapendo che la scuola è immutabile.
Cosa vogliamo fare? Io provo a suggerire una visione differente. Hanno senso le discipline? Le materie sono un prodotto storico: ha ancora senso una scuola dove i docenti fanno ore e ore di riunioni per materia? Oggi i lavori esecutivi sono il 10%, non sono più il 90%, il sistema scolastico può essere lo stesso? Il merito, la scuola, l’italiano: sono discorsi molto belli, anche a me dispiace che si perda la scrittura, ma mi dispiace anche che non si introducano nuovi sistemi di sapere al di là delle discipline, nuovi temi: la morte, la sostenibilità del pianeta, il futuro.
Quello con cui mi capita di lottare più spesso è il “questo ragazzo, questa ragazza, non deve fare il liceo: non è la sua scuola, non sa argomentare”. Affermazioni legate a episodi nei quali la paralisi della parola è così evidente, le forme di disagio e di ansia così pervasive, che viene da domandarsi come mai potrebbe argomentare qualcuno in preda a una angoscia così diffusa. Il tema è sempre e solo quello della prestazione. Ma è anche vero che – penso alla visione che lei propone nel libro di una scuola sempre aperta, che si fa luogo di confronto e cultura – io stessa non investo nel lavoro di équipe con i colleghi come investo nel lavoro di équipe nella mia professione di psicologa. Non vi è questo tipo di abitudine, cultura, l’idea che servano altre figure professionali con le quali dialogare, alle quali aprirsi. Perché?
Io faccio lo psicologo e credo che questa sia una tragedia, che si gioca su un terreno politico. Io raccolgo la sofferenza dei ragazzi bocciati, della dispersione scolastica. Il problema è che sono cose che si sanno, ma non si riesce a produrre una trasformazione. Per questo credo che la pandemia sia una occasione, una di quelle che non capitano spesso. Cosa vogliamo fare? Io provo a suggerire una visione differente. Discipline, come ho detto. La valutazione? Certo che deve essere fatta, ma la società ora è troppo competitiva, il ritiro sociale in diffusione, che abbiamo preso dal Giappone, ci dice qualcosa in questo senso. Si possono dare le valutazioni, sì, ma individualizzate. Internet? Sempre connessi. Prove di valutazione, a partire dalle scuole medie, dove internet è uno strumento; la valutazione non deve essere un momento di verifica ma di approfondimento degli apprendimenti: sei ore in internet per svolgere una prova multidisciplinare in cui devi destreggiarti reperendo le fonti corrette, creando collegamenti, verificando il contenuto. Le prove di maturità in Finlandia sono così. Produrre un videogioco a scuola. Trovo significativo che tutte le ricerche di mercato oggi dicano che se c’è un lavoro sicuro oggi è legato alla produzione di videogiochi e che non si potrà lavorare senza saper utilizzare internet: sono i due nemici della scuola italiana. I ragazzi cosa possono capire in queste contraddizioni? Rimproveriamo una non serietà, ma noi siamo seri?
Lei nel libro sottolinea questo tema della serietà: i ragazzi non vengono presi seriamente e non viene preso seriamente il dolore che attraversano – con anche una significativa rimozione di quanto l’adolescenza sia stata uno dei momenti faticosi della vita per molti di noi. Un paragrafo è dedicato all’“imparare a lasciarsi”: mettere a tema vissuti emotivi cui, come adulti, tendiamo a rispondere in modo frettoloso. Vediamo gli effetti dell’assenza di una cultura emotiva, eppure...
La vera questione io credo sia che, per come li cresciamo, i ragazzi sono molto psicologizzati: creiamo famiglie affettive e poi lasciamo cadere tutto questo quando sono adolescenti. Non credo che la questione sia soltanto la psicologia come promozione del benessere o prevenzione del disagio, quanto il fatto che oggi bisognerebbe puntare molto sulla relazione, sulla responsabilizzazione: convocarli, valorizzarli. Oggi non c’è etica normativa ma affettiva: la famiglia tradizionale usava la relazione come mezzo per far transitare dei valori, oggi la famiglia punta sul mantenimento della relazione, il fine dell’intervento educativo è arrivare a capirsi. Questo modello funziona con l’infanzia e poi, con l’arrivo dell’adolescenza, fatichiamo a adattarlo. Questo succede anche a scuola: i primi anni di vita si è attenti all’espressività, all’emotività, alla dimensione collettiva, alla creatività, poi, progressivamente, invece di proseguire in questa direzione, prevale l’idea del controllo, della selezione, della competizione.
Questa è un po’ la ragione per la quale l’adolescente fatica nei processi di soggettivazione e separazione.
Certo, perché con l’adolescenza i figli non sono più riconoscibili, cambiano, si vogliono indipendenti. L’adolescente è altro, per fortuna. Ma l’adolescenza come seconda nascita solleva delle angosce nei genitori. Noi adulti vorremmo che i ragazzi fossero affettivi e relazionali durante l’infanzia e poi etici, come se fossero cresciuti con la legge del no. La crescita avviene poi nella società del marketing, di internet e del consumo: il desiderio di possedere un paio di scarpe di marca – che è desiderio del ragazzo e non del genitore – non è trasgressione, né opposizione, fa parte di una modalità di espressione che è stata coltivata durante l’infanzia. Non si può introdurre un piano di obbedienza se non sono cresciuti secondo questo modello.
Tuttavia mi sembra che per essere un modello in competizione con i modelli del marketing, si debba poi giocare – come insegnanti e come educatori – su un piano seduttivo individuale più che collettivo: sono io singolo insegnante che mi faccio tramite del libro.
Non credo sia un problema di seduzione ma di relazione: è proprio perché sono cresciuti nella relazione che si fidano dell’adulto che fa una proposta cooptativa. Lo studente a quel punto ti segue non per sottomissione, perché detieni il sapere, ma per desiderio. Tanto è vero che difficilmente sono in opposizione all’insegnante, al massimo i loro vissuti sono di delusione. Certo, uno dei problemi della scuola italiana è che non tiene conto della dimensione di gruppo: la scuola è un’esperienza individuale o tra gruppi? Per come è strutturata la scuola italiana è tra gruppi, ma non è nella cultura dei docenti, che chiudono l’aula, lavorano in modo autonomo. Gli insegnanti chiedono agli studenti di essere un gruppo ma non hanno un rapporto di scambio e cooperazione con il consiglio di classe. Il consiglio di classe credo sia uno dei gruppi più sotto utilizzati in Italia: sarebbe importantissimo fare del consiglio di classe una realtà non burocratica, credo che si potrebbero addirittura sacrificare ore in classe a favore di ore d’équipe, di scambio, di confronto.
Sia mai, c’è il programma.
Altro grande tema, il programma. È stato significativo in questo senso il dibattito relativo agli Invalsi: sono rimasti indietro durante la pandemia? Certo, ma non possiamo non valutare le competenze che una tale esperienza ha consentito loro di sviluppare, competenze essenziali nella vita. Oggi si può accedere al sapere per canali differenti, la scuola è ancora il luogo di formazione più alto, ma i suoi compiti sono cambiati: dare senso all’esperienza. Certo, crescendo in un sistema che ti chiede di adattarti quello che si crea è un falso sé adattato, e dunque quando si tratta di mettere in parola cosa pensi non hai gli strumenti per farlo. Del resto l’attacco di panico è questo: la tavola bianca, il non saper dare un nome alle emozioni.
“Luca che cosa hai? Io non lo so cosa ho”: il grande tema cui l’ascolto degli adolescenti mette davanti mi pare essere un po’ questo, questo silenzio, questa non verbalizzazione, questa non ribellione e il corpo che parla e non si apre all’altro.
Dare senso al dolore, a quello che accade loro, dare parola agli stati mentali e affettivi. Ma il dolore, la sofferenza, non hanno un sé cui appoggiarsi: le richieste contraddittorie non hanno permesso che questo sé si costruisse. Iperadattamento a richieste di ogni tipo: “sii competitivo ma non esserlo”, “vai all’asilo nido ma non alle elementari a piedi”, “non essere aggressivo, controlla il tuo corpo ma non giocare con i videogiochi”: la fragilità è adulta, l’iperinvestimento sul figlio – che ovviamente ha molti lati positivi – porta a un diverso rapporto con l’esperienza della genitorialità, con le preoccupazioni anche rispetto al corpo dei ragazzi. Corpi che non sono più corpi sessuali – anche questo è un grande tema – ma corpi estetici: pensavamo che la sessualità non sarebbe tramontata mai, ora chi ascolta i ragazzi sa che il sesso è un argomento marginale. Del resto nessuno si è posto il problema della sessualità nei giovani durante la pandemia, né gli adulti e nemmeno loro. Il tema oggi è il farsi oggetto di sguardo, la seduzione, l’essere visto, essere nella mente dell’altro. Seduttività e virilità, del resto è la prima generazione che cresce sapendo di non dover necessariamente ricorrere all’atto sessuale per poter accedere all’esperienza della maternità e della paternità: sarebbe un tema importante da discutere. La sovraesposizione è dappertutto, l’abbiamo costruita noi proponendo modelli di identificazione caratterizzati dalla sovraesposizione. Pornografizzazione del tutto: sentimenti, corpi, vita privata.
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