Italia e lavoro precario / Nel limbo dello “stage”

18 Gennaio 2021

Grandi aziende del panorama nazionale propongono “contratti” fittizi o addirittura sprovvisti di retribuzione. La convinzione è che un giovane oggi lavori per aggiungere qualifiche al proprio curriculum e non necessiti di uno stipendio per mantenersi. Viaggio nelle testimonianze reali degli stagisti 2020…

Modalità di lavoro full-time, cercasi candidato con esperienza, retribuzione mensile: 300 euro.   

Questo è solo uno dei tanti annunci lavorativi in cui capita di imbattersi ogni giorno. E non è neppure il peggiore; anzi, è già una fortuna che la retribuzione sia specificata e non lasciata all’immaginazione del candidato, oppure espressa tramite una perifrasi poco incoraggiante quale retribuzione commisurata al livello di esperienza.

La maggior parte delle volte, difatti, al termine di una job description pubblicata sul web si trova la dicitura: «Livello di retribuzione non disponibile: al momento non sono disponibili informazioni sulle retribuzioni». Se sei fortunato riesci a svelare l’arcano dopo uno o due colloqui, quando finalmente viene il momento di parlare di un ipotetico contratto ed è allora che la realtà si rivela in tutta la sua triste evidenza: 300 euro mensili, se già te ne propongono 500 puoi fare i salti di gioia.

Perché se hai tra i venti e i trent’anni, in Italia, sei considerato uno stagista e non puoi ambire a cifre maggiori: il solito ritornello del «devi formarti, hai bisogno di esperienza».

 

I neolaureati sono trattati da molte aziende come carne da macello: sfruttati fino all’osso con orari massacranti e paghe minime; ma d’altronde sono giovani, volenterosi, hanno ancora gli occhi che brillano e smaniano dalla voglia di intraprendere un percorso professionale. È statisticamente provato che le aziende più importanti tendono a pagare meno i propri stagisti, spesso dietro la sinistra affermazione del «Avere un brand del genere sul curriculum ti aprirà molte porte in futuro».

Si tratta di aziende internazionali, marchi ben noti nel nostro Paese, che propongono contratti di stage curricolare senza rimborso spese, cui in futuro si potrebbe ipoteticamente aggiungere un contratto di stage extracurricolare.

Triste realtà: a un contratto di stage segue un altro contratto di stage, e la maggior parte dei candidati accetta nella speranza di poter stringere tra le mani – in un giorno lontano – un contratto di lavoro a tempo indeterminato, cosa che raramente accade: le percentuali si riducono di anno in anno.

Nel frattempo i requisiti richiesti per accedere a una posizione di stage diventano sempre più competitivi: una laurea (preferibilmente a ciclo unico o triennale + magistrale), un master specialistico e un’ottima conoscenza della lingua inglese (ma gradita anche la conoscenza di una seconda lingua). Costituiscono un plus: la capacità di lavorare in team, responsabilità e attenzione per le scadenze, e la sempre più citata «flessibilità», parola dal significato oscuro che si traduce in «disponibilità a lavorare in ogni momento in ogni luogo e condizione».

Dietro la definizione di «stage» si cela un intero mondo dedito allo sfruttamento.

È un fatto ormai noto, certo; tuttavia non sono altrettanto note le singole storie implicate in questa rete diabolica denominata tirocinio. Perché la maggior parte delle persone non denuncia per timore di compromettere il proprio futuro professionale; tanti, tantissimi ragazzi tacciono o si lamentano solo in privato tra amici familiari e, dinnanzi al suggerimento di fare causa o citare la tale azienda, ribattono: «Ma tanto chi sono io? Non sarò né il primo né l’ultimo, mi lascerebbero a casa e troverebbero subito qualcun altro».

 

Certe situazioni poi sfiorano il comico: un noto brand di cosmesi gestito da una influencer propone un contratto di stage di 12 mesi a 200 euro mensili nell’ambito marketing e comunicazione. Purtroppo non si tratta di un’eccezione: questa sottospecie di contratti sono all’ordine del giorno e nel periodo critico dovuto all’emergenza sanitaria si sono persino triplicati. È la crisi economica, si dice, come a giustificare simili proposte aberranti. 

Ancor più indisponenti sono alcune domande a trabocchetto poste nel corso dei colloqui, quale: «Attualmente dove vivi?» e quando fornisci informazioni più specifiche sul tuo domicilio scopri che in realtà la richiesta era volta a capire se «sei fuorisede o vivi con i genitori». Un’arma a doppio taglio che ti si può ritorcere abilmente contro non appena chiedi timidamente una legittima specifica sulla retribuzione, al che ti senti rispondere: «È necessario specificarla? Tanto non hai l’affitto da pagare».

 

Il grande paradosso è questo: siamo i primi a gridare all’ingiustizia per ciò che potremmo definire una forma di “schiavitù legittimata”, ma siamo anche pronti ad aderire tacitamente alla sua logica, poiché non abbiamo alternative. Due lauree, vari corsi di specializzazione, un’esperienza di lavoro all’estero e un master ed ancora ci troviamo a fare i conti con lo scoglio insormontabile degli stage “curricolari”: di fatto hai bisogno d’esperienza, il tirocinio conclude l’iter formativo del master universitario quindi – per legge – le aziende non sono obbligate a offrire una retribuzione.

E questa non è neppure la punta dell’iceberg: agli stagisti in ambito giornalistico vengono proposti dei compensi a cifre vergognose, quali 1 euro e 50 centesimi per riviste cartacee e 10 centesimi per l’online. Nel frattempo, mentre schiere di aspiranti insegnanti attendono ancora di partecipare al concorso di abilitazione, a metà ottobre spuntano come funghi annunci indecenti che mirano ad assumere supplenti — anche non laureati, è sufficiente che i candidati siano “in conclusione del proprio percorso di studi” — come professori liceali di italiano e latino. 

 

 

In Italia esiste la burocrazia e poi esistono mille modi per aggirarla. Poco importa che uno studente abbia svolto un percorso lodevole entro i tempi definiti: triennale in tre anni, magistrale in due, magari perfino un master specialistico, perché lo attendono anni di immobilismo nelle paludi del precariato e dei contratti a termine.

L’idea di un contratto vero oggi appare come pura utopia, perché molte aziende propongono i famigerati “contratti a prestazione” o il mezzuccio ancor più losco del “pagamento tramite ritenuta d’acconto”, che non sai neanche se definire un lavoro o un modo per truffarti.

Ormai i nostri nonni sono rimasti gli unici ad indignarsi – d’altronde loro appartengono ad un’altra epoca, quella in cui il lavoro era lavoro, e il concetto moderno di “tirocinio” nemmeno esisteva.

Mentre loro tuonano indispettiti ai pranzi di famiglia, i nostri genitori replicano pacati che «Sono altri tempi ormai», il che ci lascia intuire che siano arresi quanto noi alla nuova Repubblica italiana dello Stage.   

 

Quando si parla di monitoraggio dei tirocini né le Regioni né gli enti statali sono in grado di dare risposte dettagliate: non esiste alcun archivio nazionale, non ci sono dati. Si conosce a malapena il numero degli stagisti – quelli dichiarati dalle aziende, ovviamente – ma il più delle volte le cifre dei loro compensi rimangono oscure. Il celebre sito di informazione La Repubblica degli Stagisti, che da anni raccoglie testimonianze di giovani tirocinanti frustrati, di recente ha denunciato: «Il numero esatto delle persone che fanno stage ogni anno in Italia è ancora ignoto», l’unico dato reperibile riguarda i tirocini curricolari – quelli svolti tramite università o master – e si aggira attorno ai 200mila all’anno. La regione in cui viene attivato il maggior numero di stage si conferma la Lombardia con la cifra record di 74.137, in pratica 1 su 5. Inutile aggiungere che il numero dei tirocini extracurricolari è due volte tanto, dovrebbe aggirarsi attorno ai 400 mila.

Ma i numeri non contano, sono già riportati sulle pagine dei principali quotidiani nazionali che ormai dal 2010 strillano a vuoto denunciando la situazione.

 

È un problema cui nessuno vuole più prestare attenzione; perché una soluzione sembra non esserci o, quantomeno, non conviene a nessuno. Di recente è stato riscontrato che a causa della pandemia in corso i tirocini attivati nel secondo trimestre del 2020 sono stati circa 27mila, il 73% in meno rispetto allo scorso anno. Meno stage non equivale a meno sfruttamento: significa meno lavoro, milioni di giovani disoccupati e privi di prospettive.

L’ormai nota affermazione provocatoria del giornalista Beppe Severgnini «L’Italia è una repubblica fondata sugli stage» è più attuale che mai, eppure risale al 2009.  In oltre un decennio le cose non sono cambiate: anzi, una pratica giusta, persino logica, quale lo stage – che in origine mirava a creare un ponte d’unione tra la scuola e il mondo del lavoro – si è trasformata in un mezzo atroce di sfruttamento, in una forma di schiavitù legittimata. 

 

Non dobbiamo mirare ad abolire la pratica dello stage, tuttavia è più che legittimo denunciare il suo abuso: poiché le aziende si servono di questi contratti per avere personale a basso costo o, ancora peggio, per ottenere gratis dei jolly tuttofare.

Perché lavorare gratuitamente – o con l’altrettanto penosa consolazione di un rimborso spese – full-time non è la norma; basta guardare oltre i confini italiani per rendersene conto o andare nella vicina Svizzera dove il concetto di “tirocinio non pagato” non è neppure contemplato.

Se negli altri Paesi europei i giovani raggiungono prima l’agognata indipendenza non è certo a causa dell’incidenza di un fattore culturale, ma di un fattore economico: non siamo noi italiani ad essere «choosy» o «bamboccioni», piuttosto siamo privati di opportunità che in teoria dovrebbero spettarci di diritto. 

Ma se rifiuti un “contratto” da fame ti senti rispondere prosaicamente: «Ah, i giovani d’oggi! Sono solo capaci d’avanzare pretese, non hanno voglia di lavorare…»

 

Non è questione di “pretendere” un posto di lavoro fisso o un contratto danaroso; tutto ciò che le nuove generazioni si aspettano è la possibilità di costruirsi un futuro, di formarsi passo passo all’interno di un ambiente stimolante che non si serva di loro come dei pezzi di ricambio da buttare subito dopo l’utilizzo. Si dovrebbe sviluppare una concezione moderna di “lavoro” più legata alla crescita, anziché allo sfruttamento.

In origine la parola «stage» designava, secondo l’Oxford Languages, «un periodo di studio o di addestramento destinato alla pratica professionale». Il termine contiene in sé la radice latina di «stare», «staticum», ma di per sé non definisce una stasi, tutt’altro: una fase di iniziazione pratica ed intensiva alla professione. L’attività dello stage, intesa nel proprio senso originario di «periodo formativo», è più che legittima; peccato che nel tempo sia stata stralunata e travisata fino ad arrivare a intendere tutt’altro. 

La domanda che rimane da porci è: quand’è che siamo diventati tutti stagisti a tempo indeterminato? Si è assistito ad una specie di cambio di paradigma nel modo di concepire il lavoro nella società contemporanea.

Il cosiddetto «stage» oggi è un limbo in cui si sta perdendo un’intera generazione.

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