Subhankar Banerjee verso Nord / Il Complesso Artico
Il futuro del Nord
Fine aprile 2017, sala Roosevelt della White House. Trump firma un provvedimento legislativo che, in rottura con la precedente amministrazione, riapre di fatto la possibilità di compiere trivellazioni petrolifere nelle acque dell’Artico e dell’Atlantico. È un regalo all’industria delle energie fossili e alle compagnie petrolifere come Conoco e Shell, i cui interessi sono ben rappresentati nell’attuale governo. Un gesto retorico per produrre “energia americana”. Per l’occasione Lisa Murkowski, senatrice repubblicana dell’Alaska e presidente del comitato del Senato per l’energia e le risorse naturali, esorta Trump a condividere il motto del suo stato: “North to the future”. Che il mito dell’Alaska come ultima frontiera americana o, meglio, come “ultima roccaforte terrestre della grande fauna nordamericana del Pleistocene” (Paul Matthiessen) sia ormai infranto?
L’Alaska è una risorsa naturale: lo è nel senso della sua biodiversità ecologica ma anche nel senso della più grande riserva di petrolio del mondo che resta da sfruttare. A causa di questi interessi economici, l’Artico è già segnato dalla concentrazione di diossido di carbonio nell’atmosfera, dallo scioglimento dei ghiacci nella zona polare, dalla combustione del carbone fossile, dall’aumento delle temperature, dalla perdita di permafrost, dalla scomparsa della neve sostituita da piogge glaciali, dall’aumento del livello del mare nelle zone costiere (come riassume T.J. Demos, Decolonizing nature. Contemporary Art and the Politics of Ecology, Sternberg Press, 2016). Il suo ecosistema, le risorse naturali e la catena alimentare, che in questa zona si sono mantenute stabili per millenni, sono ormai turbati, al punto che le popolazioni autoctone sono obbligate a trasferirsi altrove.
Le acque dell’Oceano Artico e la costa nordest dell’Alaska sono troppo fragili per diventare una zona industriale. Nell’eventualità di una perdita di petrolio, ad esempio, la situazione andrebbe fuori controllo, a causa della mancanza d’infrastrutture: la guardia costiera più vicina è a 1000 miglia, come ricorda Kristen Miller, direttore esecutivo ad interim dell’Alaska Wilderness League. In quest’area remota ogni emergenza rischia di trasformarsi in una catastrofe. Senza contare le condizioni estreme di lavoro, l’incertezza sulle questioni di sicurezza, l’impatto ambientale sulla vita costiera e sul cambiamento climatico.
Del resto già nel 2015 la compagnia anglo-olandese Shell ha fallito clamorosamente, dopo sette anni di trivellazioni e un investimento colossale di sette miliardi di dollari per installare pozzi petroliferi. Quel potenziale di idrocarburi vagheggiato dalla compagnia non si è mai materializzato, in compenso sono falliti i test sull’inquinamento atmosferico e si sono moltiplicati i problemi con l’impianto di trivellazione, gli incendi e le violazioni degli impianti. Se la politica ambientale di Obama non è stata esemplare, è perlomeno riuscita a proteggere questa riserva naturale, preziosa per gli Stati Uniti e per la Terra. In fondo già due presidenti, Jimmy Carter e Dwight D. Eisenhower, si erano battuti in questo senso. Pochi, tuttavia, conoscono questa zona meglio del fotografo Subhankar Banerjee.
Dai Tropici all’Artico
Cosa spinge Subhankar Banerjee, nato nel 1967 a Calcutta (Kolkata), a spingersi nel nordest dell’Alaska? E a trascorrerci quattordici mesi nell’arco di due anni, sette mesi nel 2001, sette nel 2002? Ufficialmente il fatto che esistono poche immagini dell’Arctic National Wildlife Refuge, per lo più stereotipate, fatte solo di ghiaccio e neve. Studiata da biologi e botanici, la riserva resta tuttavia invisibile agli occhi del mondo. L’impulso documentario spinge l’artista indiano a documentare il trascorrere delle stagioni e i suoi abitanti, la sfera ecologica e quella antropologica, l’eco-sistema, le tribù autoctone, gli animali e la struttura geologica. Non si tratta di un mero reportage: è lì in quanto esploratore, “un po’ allo stesso modo in cui Henry David Thoreau ha studiato il ciclo delle stagioni nel Walden Pond, in un’immersione e una contemplazione totali”.
Dal tropico all’artico, dal tepore della terra nativa (35 gradi a maggio) al gelo di una terra ignota dove la temperatura può scendere sotto i 50 gradi, da una zona densamente popolata a una delle più desertiche sulla terra. Un’attrazione eccessiva per gli opposti quella di Banerjee. Cresciuto nel Bengala Occidentale, esposto alla pittura sin da giovane, così come al cinema, alla poesia e alla letteratura, Banerjee studia ingegneria elettronica prima di trasferirsi a Las Cruces in Nuovo Messico per laurearsi in fisica teorica e computer science – una formazione che gli tornerà utile nelle sue esplorazioni fotografiche. Nel frattempo frequenta associazioni ambientaliste come il Sierra Club, club amatoriali di foto e di alpinisti, e compie escursioni nel sudovest del Pacifico quando si trasferisce a Seattle.
Ottobre 2000, Churchill, Manitoba, Canada. Armato della sua attrezzatura fotografica, Banerjee si trova in un luogo conosciuto dai turisti per immortalare gli orsi polari: “Vedevo un orso e poi improvvisamente otto veicoli di grandi dimensioni che convergevano sull’animale”. In quel momento gli fu chiara una cosa: che voleva andare là dove gli orsi vivevano in santa pace, in un ambiente trasformato il meno possibile dalla mano e dagli interessi umani. La sua attenzione cadde presto sul nordest dell’Alaska.
19 marzo 2001, Banerjee arriva nel villaggio di Kaktovik. Malgrado i preparativi e l’esperienza alpina, e malgrado sia il primo giorno di primavera, l’impatto è brutale: il termometro segna 40 gradi sotto zero, il vento soffia a 80 km all’ora. Come correre in moto dentro un congelatore senza confini. Banerjee lo ricorda come un incubo, persino come un inferno, se l’immagine delle fiamme sotterranee non fosse qui così inappropriata se non celestiale. In preda alla disperazione, si chiede cosa sia venuto a fare in un luogo così alieno rispetto alla sua terra nativa, dove l’inverno dura fino a maggio, così remoto che molte cime, valli e laghi non hanno nome. Si chiede perché ha abbandonato un lavoro sicuro alla Boeing di Seattle per imbarcarsi in quest’esperienza folle. Folle anche per la mancanza di fondi, perché il progetto, estremamente costoso, è per ora autofinanziato.
Malgrado il freddo, Robert Thompson, un attivista e cacciatore Inuit che lo guida nella sua spedizione, suggerisce: “Andiamo a fare un giro”. Quando la temperatura diventa insopportabile, a incoraggiarlo ci pensa Thompson, che se ne esce con una di quelle frasi che getterebbero nello sconforto l’animo più ottimista: “Non ti preoccupare. Le cose andranno di male in peggio ma tu sopravviverai”. Entrambi i pronostici si avverarono. La temperatura scese, il vento aumentò, e Banerjee, a colpi di caffè caldo e altri accorgimenti locali, sopravvisse, percorrendo lunghe distanze con ogni mezzo disponibile: a piedi, in zattera, in kayak, in motoslitta, in aereo.
Il freddo artico ha un impatto anche sull’attrezzatura tecnica di Banerjee, limitata a fotocamere medio formato o 35mm, senza batterie o altro materiale, inutilizzabile a temperature così rigide: “Dovevo usare vecchie macchine fotografiche meccaniche con poche o nessuna parte elettronica”. La pellicola diventa così fragile che si spezza facilmente e bisogna prestare attenzione a caricarla e avvolgerla. “Le mie macchine fotografiche sono del tutto meccaniche; non c’è nemmeno un esposimetro”, che tiene nella giacca a vento. In fase di sviluppo, infine, la stampa digitale gli permetterà di aggiustare i contrasti, i punti luce e le ombre.
Se le immagini che associamo istintivamente all’Artico sono in bianco e nero, Banerjee usa il colore: “Mi sembrava che molti considerassero l’Artico come un luogo incolore di neve e ghiaccio, ma quello che mi ha sorpreso è scoprire la ricchezza del colore e della vita in questa terra, anche quando era completamente coperta di neve. Il colore era l’unico mezzo attraverso cui potevo esprimere i miei sentimenti su questo paesaggio nordico, fragile ma ricco”. E le foto, prese da terra o dall’alto con un gusto pittorico per il paesaggio e un penchant per il sublime, mostrano bene lo spettro cromatico dell’Artico.
Non sorprende che il lavoro di Banerjee si nutra della pittura di Jean-François Millet, Brueghel, John Constable, oltre che della tradizione della fotografia di paesaggio. Al riguardo, vengono spesso evocati i paesaggi scultorei in bianco e nero di Anselm Adams, o quelli a colori di Eliot Porter, con le sue scene intime e spesso nuvolose, adatte a cogliere i dettagli più minuti. Banerjee ricorda anche Robert Adams e persino Nan Goldin, la cui comunità LGBT di New York, colpita dall’arrivo dell’AIDS, non potrebbe essere più lontana dall’estetica rarefatta dell’artista indiano. Ma entrambi i fotografi condividono il coinvolgimento totale col soggetto ritratto, lontano da ogni forma di oggettività documentaria o neutralità dell’osservazione.
Il complesso artico
Col passare del tempo, Banerjee si ambienta, grazie anche all’aiuto e all’ospitalità delle famiglie autoctone Inuit o Gwich’in. Scopre “un luogo in cui l’esistenza della vita, inclusa la flora e la fauna e le culture native, è modesta e fragile. Utilizzando delle composizioni semplici, in gran parte la luce smorzata dei giorni nuvolosi e un processo meditativo di osservazione, volevo ritrarre la dualità della grandezza e della semplicità”. L’esperienza artica lo convince che non si trova ai margini del mondo ma, al contrario, nel “luogo più connesso sulla terra. Ho cominciato a definire questa connettività globale e la connettività locale e regionale in rapporto alle specie che migrano qui da tutto il mondo”, ovvero caribù, balene, balenottere, oltre 160 specie di uccelli e così via.
Più radicalmente, l’Artico si rivela essere il luogo stesso che gli insegna a vedere. E quello che vede assume un ruolo politico inatteso: “In seguito ho realizzato una connessione tossica: come gli uccelli migrano, così migrano le tossine che finiscono nell’ecologia artica. In questo modo i popoli e gli animali artici sono diventati estremamente inquinati, soprattutto in Groenlandia e a nord dell’Artico canadese, sebbene il fenomeno si stia diffondendo ovunque. È una connessione tragica”. Mercurio, PCB, DDT: la liste di sostanze tossiche che hanno un impatto su uomini, animali e piante è lungo. Le fotografie e le didascalie raccolte nel libro Arctic National Wildlife Refuge: Seasons of Life and Land, pubblicato dalla casa editrice no profit Mountaineers Books, sono una testimonianza preziosa del complesso artico. Ma la storia non finisce qui.
L’affaire dello Smithsonian
Seattle, 19 marzo 2003. Banerjee è in giro quando riceve una telefonata: “Accendi la TV”, dice in preda alla smania la direttrice esecutiva dell’Alaska Wilderness League, l’associazione con base a Washington con cui ha già collaborato. La senatrice democratica Barbara Boxer sta mostrando una delle sue foto al Congresso degli Stati Uniti che discute del futuro dell’Arctic National Wildlife Refuge. G.W. Bush infatti vuole aprire circa 6.000 km2 della costa alle trivellazioni petrolifere, con l’appoggio dei Repubblicani dell’Alaska, pronti a speculare sul loro territorio. Lo descrivono come una distesa brulla, gelida e inanimata per dieci mesi all’anno, “a flat white nothingness” e un “frozen wasteland of snow and ice”, secondo l’allora Segretaria degli Interni Gale Norton. Il senatore dell’Alaska Frank Murkowski, brandendo un cartoncino bianco, esclama che si tratta di un’immagine accurata dell’estremo nord. Al di là dell’inconsapevole rimando all’arte astratta, l’intento è chiaro: dimostrare che non è in gioco alcun rischio ambientale.
Già, se non fosse che le fotografie di Banerjee dimostrano che il cartoncino bianco è una fake news: nell’Artico la vita pullula lungo l’arco delle quattro stagioni. Le sue immagini diventano così un documento probatorio impugnato dalla senatrice: come lasciare che un habitat con una biodiversità così ricca si trasformi in una terra industriale? La proposta repubblicana viene rigettata. Una vittoria per la difesa dell’ambiente e per il potere delle immagini.
Un nuovo colpo di scena doveva turbare i sonni di Banerjee. La senatrice Barbara Boxer invita gli eco-scettici a visitare l’imminente mostra di Banerjee al Museo di storia naturale dello Smithsonian a Washington. Un’istituzione federale, in quanto tale, non dimentichiamolo, soggetta alle pressioni politiche del governo in carica. A quel punto lo Smithsonian comincia a smarcarsi dalla mostra: prevista nei pressi della grande rotonda, viene spostata in una sala defilata dietro la caffetteria; all’ingresso del museo viene bandita qualsiasi informazione; le didascalie delle foto, veri e propri testi che le distinguono da un’estetica da National Geographic, spariscono, malgrado fossero state già approvate. Spariscono anche le citazioni dello scrittore e naturalista americano Peter Matthiessen, quelle del poeta e saggista Terry Tempest Williams e persino una dichiarazione del presidente Jimmy Carter: “Sarà un grande trionfo per l’America se possiamo conservare il Rifugio Artico nel suo stato puro e incondizionato”. Ciliegina sulla torta, poco dopo lo Smithsonian contatta la casa editrice del libro chiedendo che il logo del museo sia rimosso.
Insomma, quello dello Smithsonian non fu un semplice gesto curatoriale come si tentò di farlo passare, ma un vero e proprio atto di censura che rispondeva a una precisa agenda politica. E sembra che le cose siano andate dopotutto a buon fine, perché il primo ordine era stato di cancellare la mostra.
Fortuna che la stampa reagì. Che delle foto di paesaggi naturali per quanto esotici facciano così paura non è un pessimo segno della salute della democrazia e della perversità degli interessi economici che la sostengono? Il 20 maggio 2003, in un’interrogazione parlamentare, il senatore democratico Richard Durbin chiede ragione del comportamento dello Smithsonian, che si trincera dietro la neutralità dell’istituzione scientifica e l’equidistanza verso le controversie politiche. A quel punto non si contano più le istituzioni artistiche americane che vogliono esporre le foto di Banerjee, il cui intrinseco valore politico è ormai palese. Seasons of Life and Land, ancora sconosciuto in Italia, è insomma un “resoconto post-antropocentrico della biodiversità” quanto uno “sguardo critico degli effetti sempre più distruttivi delle attività societarie e industriali sulle forme di vita non umana e le loro vicinanze” (T.J. Demos, Decolonizing nature).
Costruire il reale
Banerjee torna in Alaska tre mesi nel 2006 e un mese nel 2007, in parte in compagnia di Peter Matthiessen che, lo stesso anno, lo accompagna anche a Bruxelles, dove intervengono a una conferenza dell’UNEP (United Nations Environment Programme) sul cambiamento climatico nell’Artico. Poi parte un mese in Siberia con l’ormai amico Thompson – la sua guida artica –, a stretto contatto con due comunità indigene (Yukaghir e Even), la cui vita quotidiana è documentata in un articolo uscito su “Vanity Fair”. Pare sia il primo articolo in occidente sul cambiamento climatico in Russia. Nel 2010 fonda il sito ClimateStoryTellers.org sul global warming, impegnato a far conoscere una zona sperduta ma non per questo, come ci vogliono far credere, desolata e disponibile – come un cartoncino bianco – a qualsiasi intervento umano. Quel cartoncino bianco è stato già scarabocchiato da troppe mani. Il lavoro di Banerjee dimostra che l’arte ha ancora il potere di nominare, pensare e immaginare il reale.