Giacomo Sartori. Sacrificio

7 Dicembre 2013

Diluvia. In mezzo al guado, con la 4x4, Katia, euforica e ubriaca, strilla divertita che bisogna proseguire e che non si può mica avere paura. Poi la tragedia.

Si comincia così: messi davanti alla morte di Andrea, partecipi della stessa concitazione in cui si consuma, gettati sotto una pioggia scrosciante, nell’angoscia, descritte con tale precisione e lentezza, quasi in tempo reale, da farcene sentire il peso, il rumore che rende faticoso proseguire la lettura.
Sacrificio (Pequod) di Giacomo Sartori è il ritratto impietoso di una realtà di provincia: la scrittura è asciutta, serrata, non cede, dà corpo gli ambienti, rende palpabile lo squallore, la decadenza; come una telecamera che registra ciò che trova senza che servano artifici retorici per suggerire più di quello che è sufficiente guardare.

 

 

Un paese chiuso tra le valli; un gruppo di ragazzi il cui orizzonte sembra ineluttabilmente ridotto; un pub dove consumare alcool e il freddo e il grigio sempre, anche quando arriva la primavera.
I dialoghi tra i personaggi, le modalità e le tipologie delle relazioni, le posture, i gesti, i silenzi, delineano un microuniverso asfittico che nessuna caratterizzazione psicologica saprebbe restituire con altrettanta evidenza.

 

Nessuna via di fuga: si è costretti, imprigionati come nella 4x4, senza che sia concessa nemmeno la speranza in una redenzione finale, in una luce prima o poi, da qualche parte, almeno un po’. Le parole crude concedono solo di stare a guardare fino a dove si scenderà, fino a che livello di solitudine e insensatezza saremo fatti precipitare.

 

Giacomo Sartori rende il lettore testimone di un contagio che infetta: il vuoto culturale e cerebrale è spiattellato senza commenti, una tragedia di idioti raccontata senza indulgenza né compiacenza.
Le relazioni familiari sono all’insegna della menzogna, animali al punto da non onorare nemmeno i tabù di sangue; il sesso è violenza più o meno accettata; il presunto amore – come quello devoto ancorché non ricambiato che lega Marta, la protagonista, al cugino Diego, o quello altrettanto ossessivo che lega lui a Katia – diventa, in questa cornice, il più ottuso e malato di tutti i sentimenti. Claustrofobico, cieco: una dipendenza, una droga, come l’alcool e le pasticche che i ragazzi protagonisti trangugiano ogni sera, perché andare al pub è la sola possibilità di incontrarsi e stordirsi l’unica salvezza.

 

Nemmeno il pensiero si alza al di sopra della gola entro cui si muovono i protagonisti, prigionieri dello spazio e dei deliri delle loro menti, costrette a affidarsi a fedeltà perverse e distruttive pur di fingere un senso, un desiderio, di cui non vi è in realtà traccia in alcuna pagina del libro.
La morte torna e ritorna: morti violente, annunciate, suicidi, sacrifici.  

 

La morte apre e anche chiude, come un sipario. Ma sono sufficienti poche pagine per capire che la tragedia che colpisce in apertura questo gruppo di adolescenti non è un incantesimo calato da cui potranno cercare di liberarsi, non è una condanna che necessita di un’espiazione. Il senso di colpa di Diego per la propria responsabilità nella fine insensata dell’amico è descritto come una prigione insopportabile: come fosse questo a chiudere l’orizzonte e rendere impossibile ricominciare. Ma non è così. Non vi è nulla di contingente, destinato a passare: non è possibile, con il tempo, guarire dimenticando.

 

Per questi ragazzi è impossibile cominciare, lo sarebbe stato sempre e comunque. Nessun Eden perduto: la morte non è causa della desolazione, ma ne è piuttosto un effetto, una conseguenza, come tutte quelle a seguire.

 

Non si salva niente, non si salvano le vittime né i presunti carnefici.
E non ci salviamo nemmeno noi, messi davanti a questa assenza di desiderio, a questi germi di follia esasperati ed evidenti nella chiusa realtà descritta, ma di cui avvertiamo l’eco, di cui riconosciamo i tratti, la presenza, in racconti e cronache di questo tempo e di uno spazio mai troppo lontano.

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