1º agosto 1947 – 9 aprile 2022 / Francesco Radino: il pugno e il sacro
Un percorso artistico e professionale che si snoda per oltre mezzo secolo non può condensarsi in un solo nodo tematico, e neppure può assumere caratteri di uniformità stilistica, se non altro per il naturale dispiegarsi delle vicende anagrafiche. Francesco Radino, scomparso lo scorso 9 aprile a 75 anni, ha coltivato interessi fotografici nell’industria, nella committenza pubblica, nella promozione turistica, nel reportage e nel paesaggio nella sua più ampia accezione. Chi oggi, nel tentativo di esprimere un sommario giudizio critico, cerchi di avvicinarsi alla sua corposa produzione, è costretto nei fatti non solo a concentrarsi su alcuni temi e a trascurarne altri, ma soprattutto a privilegiare solo qualcuna delle tante possibili chiavi di lettura.
Radino stesso è consapevole del complesso intrico che forma il suo universo quando scrive: “sperimento la cancellazione dei generi nel tentativo di ridefinire una visione primitiva dove gli oggetti possano vivere armoniosamente, gli uni accanto agli altri, in un unico mondo senza gerarchie. Vi si scorgono, come in un film oscuro e senza regia, alberi e arbusti, acque e rocce, ombre e muri, uomini e pesci, silenziosamente vicini, come per tenersi compagnia, in attesa che gli eventi trasformino gli uni negli altri e si compia il mito dell’eterno ritorno”, scrive a proposito di Inside (2002).
Molti dei suoi lavori, soprattutto quelli sul mondo dell’industria, come L’anima della ferriera (1992), Alenia Calendari (1994-1995), Milano fra luce e calore (1995), o altri come Grattacielo Pirelli (2004) e Neolite (1991), tutti visibili sul suo sito, possono difficilmente riconoscersi in questa dichiarazione di poetica, ma è altrove che, facilmente e semplicemente, emerge il suo segno particolare, la sua impronta.
Francesco Radino è stato definito come il fotografo del paesaggio, espressione che rischia di essere fuorviante se si pensa questo termine come equivalente a scenario, sfondo, background. È, invece, pieno di senso, se lo si riferisce alla ovvia radice di paese che, per definizione, è popolato.
In Irlanda (1979), in Palestina, diario di viaggio (2006) e ancor più in Italia di Lucania (1968-1980), ci troviamo di fronte al paesaggio umano, a persone colte nel loro naturale e storico contesto. In queste fotografie c’è qualcosa di essenziale, lineare, semplice, una solenne compostezza. Scattare, per Radino, è un esercizio di concisione, di economia della visione, di pregnanza. A volerlo cercare, non c’è un orpello, un di più, ma la cosa che più stupisce è che non manca nulla. A lui bastano pochi elementi per rendere esattamente non solo un’atmosfera visiva, ma anche delineare una storia e mettere a nudo radici. Cos’è Italia di Lucania? Un’Italia “che è presepe, è omerica, è ruvido paradiso, è distanza, è aria lontana, è ritmo lentissimo scandito da sole e stelle e non da orologi”, scrive Giovanni Arpino.
Radino, con un’infanzia trascorsa a Rapolla, di cui il padre era originario, fotografa il quotidiano del lavoro dei campi e della casa, lo spazio della campagna e del borgo, il ciclo delle feste, il tempo libero, la socialità. Chi viene ripreso non si mette in posa, si può dire che sta in quel modo da quando la narrazione ha avuto inizio. La postura del corpo, lo sguardo, le mani, recitano da un tempo immemorabile uno stesso copione che si impara senza saperlo, avendolo letto da sempre nei gesti degli anziani, nei solchi del selciato, sui muri bianchi di calce, sulle povere suppellettili di fusti intrecciati e di legno scavato, sui vasi di creta che sono la memoria di antichi crateri e di simposi senza tempo. Il gesto qui non è più espressione culturale, è natura, sconfina nell’identità biologica. Chi guarda queste foto vede un microcosmo evocativo di una tipologia universale. August Sander lo chiamerebbe “materiale originario”, Radino invece usa l’espressione di “haiku visivi”. L’haiku non descrive, fissa un’apparizione, è la sorpresa, lo stupore, la leggerezza, la contemplazione dell’istante.
Se con Italia di Lucania Radino va alla radice della sua poetica, con Guardando a Oriente (1971), nella Cina della rivoluzione culturale, Radino si misura con lo Zeitgeist e il suo impegno civile. “Avevo poco più di vent’anni e sapevo che in un lontano paese d’Oriente degli uomini dal viso giallo e lunare combattevano il grande drago dell’oppressione e del potere. Ero ossessionato dal dover prendere posizione, problema cruciale per un fotografo, coniugando il bello con il vero, la forma con il contenuto per dirla con gli antichi Greci, kalòs kai agathòs, il bello e il buono… e così anch’io, come molti altri, cercai di documentare quegli anni meravigliosi e terribili. Quello che all’inizio era un impegno etico e civile divenne in seguito la mia professione”. Le tre muse che Francesco Radino sostiene di avere, l’etica, l’estetica e la poetica, sono la declinazione matura del giovanile amore per il mito della sintesi del bello e del buono.
La sua foto dei funerali di Giannino Zibecchi, dell’aprile del 1975, in piazza Duomo a Milano, può essere considerata un po’ come il suo marchio di fabbrica, differenziandosi in modo abbastanza netto dalla produzione contemporanea di molti altri grandi fotoreporter. Il fotogramma è diviso a metà in orizzontale. La parte superiore è occupata interamente dal corpo architettonico del Duomo. Nella metà inferiore è un brulicare di corpi indistinguibili: li accomuna il gesto del pugno chiuso verso la bara di Zibecchi, militante antifascista ucciso da un camion dei carabinieri, che a malapena si distingue, e che faticosamente avanza verso il centro della piazza. Qui, un servizio d’ordine ha approntato un’area libera, di forma circolare. Non sfugge, nella bipartizione della foto, la contrapposizione tra struttura materiale ed elemento umano, che corrisponde anche alla contrapposizione tra il polo religioso e quello laico, se non proprio anticlericale, della massa di persone. Alla rigidità dell’edificio fa da contraltare la plasticità della presenza dei militanti, che in modo capillare occupa tutta la piazza, imprimendo il segno della rabbia e della lotta, lì dove deve esservi pace e trascendenza.
L’elemento che più caratterizza la foto è, però, un braccio proteso a pugno che, in diagonale, ripercorre la sagoma del Duomo. La sovrapposizione del gesto umano all’edificio divino agisce in modo potente come sollecitazione visiva e come provocazione intellettuale. Anche perché quel pugno chiuso, levandosi verso il cielo, confondendosi con le guglie, assume un che di sacro, è un gesto ieratico. Se religione deriva dal verbo legare, nulla di più religioso può esserci che questa piazza affollata di donne e uomini accomunati dal dolore ma, non bisogna dimenticarlo anche a distanza di tanti decenni, dalla speranza di un mondo più giusto. Quel cerchio vuoto che aspetta la bara sta al centro della piazza, e la piazza è il centro della città. Zibecchi lo va ad occupare, diventa l’ombelico della città, il suo cordone reciso acquisterà il senso della promessa e della speranza di un’altra vita. La foto di Radino è memoria militante, ma non comunica odio o contrapposizione, riesce a trasmettere un sentimento di appartenenza sociale e di pietas umana.
La fiumana di persone che converge verso un punto, il flusso verso il bacino centrale della piazza, evocano un altro elemento caratteristico della poetica di Radino, la sua personale ricerca di un’archè, di un elemento primo generativo. In Elementa alchemica il fotografo lascia sprigionare la potenza selvaggia, distruttrice e creatrice dai quattro elementi, ma è l’acqua l’elemento che predilige, la sua capacità di assumere ogni forma, di essere costitutiva della vita stessa.
Nel 1999 Radino realizza un progetto su commissione, Le vie d’acqua. Qui può dare spazio alle sue intime pulsioni e alle infinite possibilità di raccontare l’acqua. Le foto mostrano non solo il lato lirico, i canali tra i campi, la vegetazione, i riflessi del sole, le foglie di ninfea, ma anche quello economico: ponti in metallo e argini in cemento. Le presenze umane sono avvertite ma non esplicitate: ectoplasmi più che figure.
In Quattro a Verbania, probabilmente il momento più alto della poetica di Radino, la figura non parla di sé e del luogo in cui si trova, diventa testimone muto di una realtà di cui forse non sa di essere parte, un elemento accidentale non diverso da un lampione o da un elemento di arredo urbano. In queste foto colpisce l’insistenza sulla simmetria, quasi un volere evidenziare la doppiezza e forse la falsità o addirittura l’inesistenza della rappresentazione. I pochi fremiti vitali, ancora una volta, provengono dall’acqua, un tranquillo alvo materno, più che furore torrenziale. Siamo al di là del tempo e dello spazio, qui spira una divina indifferenza. Una coppietta fissa l’orizzonte, un uomo fa lo stesso seduto su una panchina. Ma all’orizzonte non ci sta niente, neanche una barca per poterlo evadere. Alcuni uomini si muovono lentamente. Ma sono veramente uomini? Non saranno anche loro una sagoma di cartone?