Gli insopportabili newyorkesi di Noah Baumbach / Mistress America

13 Aprile 2016

Parla la nostra lingua, Mistress America, e c’è qualcosa nei suoi personaggi, nella loro goffa vacuità, che è un totale fallimento, e forse una mezza speranza.
Noah Baumbach lo sa di essere terribilmente, insopportabilmente newyorchese, di girare film con personaggi insopportabili e newyorchesi, o forse insopportabili proprio perché newyorchesi. Lo sa perché li racconta e li mette in scena come figure ridicole, meccaniche, che più che discutere parlano con se stesse, che più che vivere assumono modelli di comportamento e provano a metterli in pratica, fallendo.

Parla la nostra lingua, Mistress America, perché parla una lingua universale e contemporanea: la parola diretta e piatta della comunicazione tutto intorno a noi; la parola superficiale che insegue senza posa la profondità e l’autenticità del racconto, rispondendo al desiderio di trasformare ogni evento, anche il più banale, nel tassello di un mosaico, nella figura di una storia.

 

Non parla della realtà, Mistress America, ma di come la parola, oggi, agisca sulla realtà. I suoi personaggi si incontrano, conoscono e frequentano per diventare semplice materia da romanzo, tasselli di una continua, onnipresente operazione di storytelling che cannibalizza il quotidiano.

Se c’era una maniera moderna di riprendere e adattare la screwball comedy, Mistress America l’ha trovata: annientando il peso delle parole; replicando lo svilimento o, al contrario, l’eccessiva simbolizzazione a cui sono sottoposte. Trasformando, ancora, le parole nell’unica discriminante di relazioni in cui si parla e si scrive di continuo, ma non si mai vai a fondo, si resta alla lettera, incapaci di leggere fra righe ingombre di testo.

La New York di Baumbach è un gigantesco eufemismo: sta per qualcos’altro, ma sa sempre e solo essere se stessa. Realtà e racconto sono appaiati, immediati, senza più scarto temporale fra l’una e l’altro, in un tutt’uno indiscriminato e indistinguibile. La realtà ha senso solo se trasformata in materiale di seconda mano: in racconto, per l’appunto, o commento, post, battuta. Come se vivere servisse a raccontare.

 

Tracy, la protagonista ventenne di Mistress America, non vive, osserva le vite degli altri. E se trova nella trentenne Brooke un’amica, un attimo dopo aver intuito la simpatia, la trasforma nella protagonista del proprio racconto. Senza mediazione tra il vissuto e la sua elaborazione. E la stessa Brooke, già vecchia alla sua età, ossessionata da modelli a cui si appiccica, si comporta come una Gatsby al millesimo, nemmeno in minore, regina di un sottobosco indie che inizia e finisce nel bar di riferimento, intellettuale e poser che alterna progetti creativi a lezione in palestra, che flirta con il disastro ma non sa fare altro. All’inseguimento del tempo come i personaggi di Giovani si diventa, Brooke (che come la sua interprete Greta Gerwig appartiene a una generazione ancora successiva rispetto a quella del quasi cinquantenne Baumbach, così avulso dal mondo dei suoi ultimi film da raccontarlo come un elefante, come un convitato di pietra che ha sfasciato ogni cosa) è convinta di vivere nell’attimo della propria giovinezza, capace sì di gettare la maschera ma bene al sicuro dietro le proprie convinzioni.
“Doing something depressing, but young”, dice a un certo punto al padre, sintetizzando come meglio non potrebbe la condizione stupida e ridicola, eppure così comune, di prigioniera del proprio mondo. Prigioniera di un parola, di una messinscena perenne, di un pubblico che la guardi, la giudichi, la assolva e la protegga. Forse per questo, in Mistress America, tutti parlano come se leggessero un gobbo, al centro del palcoscenico, come in quei programmi americani molto cool in cui le star leggono i tweet ingiuriosi che li riguardano: il tono della voce impostata e la rigidità delle figure sono le stesse.

 

La mezza speranza che però Baumbach intravede in questa prigione del corpo, della mente e anche dei sentimenti, è che la realtà, per quanto costantemente raccontata e quindi, almeno in prospettiva, compresa, resta pur sempre cangiante, e dunque inafferrabile. Se Baumbach parla di giovani che non conosce e non capisce, è perché vede proprio in un reale cangiante il segno di una vitalità e mutevolezza che sfugge a ogni narrazione o incasellamento. Mistress America certifica la perdita di fiducia nella parola come base di ogni discorso contemporaneo: e di fronte a una sensazione di soffocamento evidente nel ritmo inutilmente concitato, si chiede se non stia proprio nel vuoto, nel fallimento dell’eterna rincorsa al tempo, la mezza speranza.

La stessa New York, in fondo, si arrende di fronte alla tirannia del tempo sullo spazio, con schiere di generazioni sempre nuove e imprevedibili (e Tracy è più giovane ancora della coppia di hipster di Giovani si diventa) che sconvolgono di continuo l’orizzonte degli atteggiamenti e delle mode – o semplicemente delle parole d’ordine da usare, dei bar da frequentare, delle forme mentis da assumere – e condannano la città a restare se stessa, mutando continuamente faccia.

 

Mistress America parla una lingua che conosciamo così bene da non riconoscerla quando lo usiamo e la vediamo. La lingua dell’emozione trasformata in azione, del presente che riduce il passato ad archivio, del pensiero immediato che non prevede conseguenze. Una forma arbitraria di narrazione del realtà che, paradossalmente, attraverso voci molteplici ha finito per dare vita non al pensiero, ma al racconto unico.

Parafrasando ancora Underworld – ché anche l’attacco viene da lì – tenti di immaginarla, la parola, e non vedi la luce ardente di un oggetto, o di un sentimento, ma solo l’effetto che fa su uno schermo.

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