Veleni scientifici / L’affaire Spallanzani
Per tutti noi, oggi e da almeno un anno o anche più, Spallanzani è il nome di un ospedale di Roma; anzi, per essere precisi, è il nome dell'Istituto Nazionale di Malattie Infettive, assurto ai fasti della cronaca quotidiana a causa della ben nota, o tristemente nota, pandemia che tanto ci affligge.
Ma chi era questo Lazzaro Spallanzani che dà il nome al nosocomio romano così spesso citato da giornali e telegiornali?
Un'ottima ed esauriente riposta al quesito è fornita da un avvincente volume appena uscito per i tipi di Bollati Boringhieri, L'intrigo Spallanzani, di cui è autore Paolo Mazzarello, professore di Storia della Medicina all'Università di Pavia.
Si tratta di un “saggio narrativo” o “romanzo con citazioni” secondo la definizione dell'autore stesso (nel Post scriptum).
La narrazione, documentatissima e puntellata da un corposo apparato di note, inizia in medias res.
Spallanzani, professore di Storia Naturale dell'Università di Pavia, sta per raggiungere Costantinopoli, al seguito del bailo (ambasciatore) veneziano Zulian. È il 31 ottobre del 1785.
Il professore, a differenza di certi suoi colleghi, non è un uomo sedentario, un topo di laboratorio; appena può studia la natura in vivo. Questo, per quanto importante, è solo uno dei suoi svariati viaggi di studio, non certo l'unico.
Lo vediamo, nel corso del viaggio, lanciare reti nel mare per portar a galla animali sconosciuti che vivono sul fondo; osservare le particolari formazioni delle nuvole nel cielo; studiare attentamente, durante le soste, la natura dei terreni, delle rocce, degli uccelli e dei pesci; individuare il tipo dei marmi dei monumenti visitati (in particolare lo attrae quello detto “lumachella”, derivato dall'agglomerazione di gusci di telline pietrificate); ma non basta: spesso si produce anche in penetranti osservazioni di carattere antropologico sulle varie popolazioni in cui via via si imbatte.
La spedizione a Costantinopoli non serve solo a procacciare nuovi pezzi per il Museo di Storia Naturale di cui è Prefetto a Pavia (uno dei migliori d'Europa), ma anche a soddisfare, benché parzialmente, la sua sete di conoscenza.
“Lussuria della conoscenza”, così la chiama Mazzarello. Ma anche, e più volte, autentico “fanatismo” (p.46 e 282, per esempio).
Si tratta dunque di un desiderio illimitato, che non può, a rigore, venir mai placato del tutto.
È questa inesausta passione per il sapere che l'ha portato a diventare uno dei naturalisti più famosi del continente. Vanto dell'Università di Pavia, a cui è giunto a quarant'anni, nel 1769, proprio quando le riforme dell'Imperatrice Maria Teresa hanno risollevato quell'Università dalla decadenza in cui era precipitata, fino a farne la migliore d'Italia.
Nato a Scandiano in una famiglia numerosa, Spallanzani, portato sia alla cultura umanistica che a quella scientifica, si era risolto per quest'ultima grazie a una sua parente bolognese, Laura Bassi, prima donna laureata della città emiliana, fisica sperimentale di netta impronta newtoniana.
Quali sono i risultati principali della ricerca di Spallanzani?
Vediamone qualcuno.
Nel 1765 pubblica un saggio che demolisce la teoria della “generazione spontanea”, secondo la quale la vita, per autopoiesi, si può produrre dalla materia inanimata, per effetto di una non meglio identificata “forza vegetatrice”: idea sostenuta sia dal sacerdote cattolico Needham, sia dall'assai più celebre Buffon.
Spallanzani asserisce che la vita non si genera mai ex nihilo, ma sempre e solo da altra vita. E lo dimostra.
Allo stesso modo, quando, più o meno negli stessi anni, studia la riproduzione degli anfibi, scarta decisamente l'intervento di un'altrettanto misteriosa “aura spermatica”, che presiederebbe coi suoi effluvi alla fecondazione, anche quella dei rospi. Questi generano invece quando lo sperma dei maschi viene a contatto con le uova di cui si è sgravata la femmina. Quando viceversa la copula è ostacolata da certi stravaganti pantaloncini fatti da lui indossare ai rospi maschi, la fecondazione non si verifica.
Nel 1768 il nostro naturalista si occupa delle rigenerazioni animali, e specialmente della ricrescita delle teste di lumaca dopo la decapitazione. Tutta Europa lo legge e si mette indefessamente a troncar capi di limacidi, per poi vederli ricrescere. Anche Voltaire in persona si dedica all'esercizio.
Ne nascono quesiti filosofici di non poco momento: dove va a finire l'anima della lumaca nel tempo in cui la testa è separata dal corpo? Evidentemente non è nella testa tagliata che marcisce in poco tempo. Risiede forse nel corpo senza testa?
Interrogativi altrettanto pressanti, e anch'essi con implicazioni teologiche non indifferenti, pongono gli esperimenti di Spallanzani con i “rotiferi” e i “tardigradi”. Questi strani animaletti minuscoli, lasciati essiccare, si deformano e rattrappiscono, riducendosi ad informi atomi di materia, apparentemente senza vita. Ma poi, anche dopo lunghi periodi, se opportunamente reidratati, essi ripristinano il loro stato vitale primigenio. Il sagace abate, perché questo era, dopo tutto, il nostro scienziato, non si perita di usare per il singolare fenomeno il termine di “risurrezione”.
Però la sua condizione di religioso non lo porta mai a smentire il dato sperimentale, che è quello che conta più di tutto.
Proprio per questo, così come accaduto per la “forza vegetatrice” e l'“aura spermatica”, anche le altrettanto vaghe “forze vitali”, responsabili della digestione umana secondo lo scienziato scozzese Hunter, vengono smontate senza pietà: sono i succhi gastrici che fanno digerire, agente chimico, non solo la triturazione degli alimenti, elemento meccanico. Allo scopo il nostro sperimentatore sottopone se stesso, il proprio corpo, ad ardue prove, ingerendo vuoi borsette di tela contenenti pane o carne masticata, vuoi tubetti perforati incomprimibili ripieni di sostanze alimentari, per evidenziare al meglio per l'appunto solo il processo chimico della digestione.
Le università, è noto, sono luoghi meravigliosi deputati alla ricerca, agli slanci della mente, alla costruzione e verifica di ardite ipotesi - ma sono anche, purtroppo, ed è altrettanto noto, soffocanti nidi di vipere, dove le invidie, le gelosie, i rancori, le ripicche, gli odii inestinguibili divampano e dilagano senza rimedio.
L'ateneo pavese, nel suo splendore regio imperiale settecentesco, non fa eccezione.
La notorietà europea di Lazzaro Spallanzani, il suo successo presso gli studenti, la sua fama crescente non solo tra gli addetti ai lavori, non può, fatalmente, che procurargli dei nemici. Tra i colleghi, s'intende.
Alle ragioni di bassa psicologia o mera antipatia personale si sommano poi quelle metodologiche. Non si capisce quanto queste alimentino quelle, e viceversa. Ossia: è difficile dire quanto le divergenze di visione scientifica siano responsabili delle avversioni sul piano umano, e quanto le avversioni umane determinino quelle di natura teoretica e le rinfocolino.
All'interno dell'Università di Pavia si profila dunque una netta distinzione di campo: da una parte Spallanzani (con i suoi amici e sostenitori), dall'altra quattro perfidi avversari, tre docenti, Scopoli, Fontana, Scarpa e un aspirante tale, Volta (solo omonimo del celebre fisico, peraltro rettore di quella stessa università).
La differenza metodologica è soprattutto tra il trentino Giovanni Antonio Scopoli e il nostro scienziato scandianese (sì, Spallanzani era nato a Scandiano, come il conte Boiardo, autore dell'Orlando innamorato, come si diceva una volta o de L'inamoramento de Orlando, come si preferisce dire oggi). L'origine trentina del primo veniva sbeffeggiata dal secondo (o da chi per lui) in quanto causa di malcerto italiano: “dialetto Germanico-italico”.
Scopoli e Spallanzani divergono nettamente, e non solo per la proprietà del loro italiano: il primo è un sistematico, uno che classifica, inquadra, incasella in un ordine statico, e dà i nomi alle cose (come a suo tempo Adamo, e ora Linneo); l'altro è attento soprattutto alle funzioni, alla dinamica, alla fisiologia; a Spallanzani descrivere non basta; gli preme sapere per esempio come un animale si muove nel suo ambiente, come il suo “interno” reagisce a contatto con l' “esterno”, prefigurando in certo senso ecologia ed etologia.
Per Spallanzani l'ordine gerarchico delle cose è solo un aspetto, non esaurisce certo la sua sete di conoscenza. Anche perché quest'ordine non è immutabile. Proprio quando è a Costantinopoli, durante un'escursione, gli accade di pensare che l'Isola dei Principi e Khalki, un'altra isoletta, in passato probabilmente erano fuse, costituivano un insieme, poi separato. Il tempo geologico è anch'esso dinamico, non statico o lineare. Il pianeta doveva aver subito immani cataclismi e profonde trasformazioni dall'epoca della Creazione.
Se con Scopoli i motivi di dissenso sono di natura scientifica (ma non esclusivamente), con gli altri c'è dell'altro.
A proposito del chirurgo Scarpa (veneto), ad esempio, il nostro non risparmia i suoi sarcasmi. Dice di lui che, da quando è a Pavia “ha fatto nell'ospitale cinque operazioni... e tutte le persone da lui cimentate sono ite felicemente alla gloria del Paradiso. Seguiti così che, se sono anime elette, coll'operare crescerà il numero de' Santi in Cielo”.
Del matematico Fontana (altro trentino), uomo afflitto da cupa ipocondria, svariati malanni nervosi e pessimo carattere, Spallanzani mal sopporta la continua celebrazione del fratello, Felice, che secondo il parente sarebbe l'unico Uomo di Scienza in Europa, mentre lui stesso, il Fontana (Gregorio) sarebbe il Primo Matematico del Secolo.
Poi c'è Volta (Serafino, di Mantova, non Alessandro, abbiamo detto), che non è un professore, ma il custode del Museo di Storia Naturale, un dipendente diretto quindi di Lazzaro Spallanzani, che, come sappiamo, di quel prestigioso Museo era il Prefetto. Ma l'ambiziosissimo e intrigante Volta non era per nulla soddisfatto del titolo di Custos e tendeva ad autonominarsi Praeses o Administrator Musei o addirittura Praefectus. Spallanzani non può tollerare questo tentativo di usurpazione e protesta con i superiori.
Questi quattro personaggi si coalizzano contro il nostro naturalista, approfittando proprio della sua lontananza durante il viaggio a Costantinopoli e lo colpiscono in ciò che ha di più caro, il Museo di Storia Naturale.
Bisogna sapere che Scopoli, poco dopo il suo arrivo a Pavia (1777) aveva venduto al Museo una sua ricca collezione naturalistica. Spallanzani aveva controllato il catalogo di questa e aveva rilevato diverse mancanze. Ne aveva fatto cenno a un alto funzionario governativo di Milano e poi anche al Dipartimento d'Italia a Vienna.
Scopoli era venuto a saperlo e se n'era terribilmente adontato. Non tollerava di passare per ladro. Ulteriore elemento di rancore, come se non bastassero gli altri.
Quindi, mentre Spallanzani è in viaggio e studia i diaspri gialli e rossi, i sassolini d'oro fluitato, i legni agatizzati della Transilvania o la soffice terra marganacea, calcarea e argillosa del Banato; oppure descrive con dovizia di particolari tortore, cornacchie, cormorani, coccali, capponi di Maometto, nibbi e altri strani palmipedi denominati “anime dannate” e ancora ulteriori volatili tra Bosforo e Mar Nero; mentre registra le varie fasi del ricevimento a corte del bailo Zulian o definisce i rapporti tra le etnie della Valacchia, tedeschi, ungheresi, greci (oltre che naturalmente valacchi); mentre insomma fa quello che ha sempre fatto e sempre farà: studiare il mondo nei suoi disparati aspetti, la congiura ai suoi danni precisa i contorni e matura i suoi frutti avvelenati.
Il 2 settembre uno sconosciuto si presenta alla porta dell'abitazione di Spallanzani a Scandiano. Si qualifica come “cavaliere fiorentino”. Chiede di poter visitare il gabinetto-museo privato del celebre naturalista. Il fratello e la sorella lo accolgono in casa. La visita ha luogo. I parenti di Spallanzani sono lontanissimi dal sospettare che quel forestiero non è affatto il fiorentino che dice di essere. Egli è l'infido Serafino Volta, custode del Museo di Pavia e ora, finalmente, sostituto di Spallanzani medesimo, anche in cattedra, per quanto solo supplente. Perché è andato a Scandiano? Molto semplice: vuole accertarsi de visu di un suo antico sospetto: molti pezzi che mancano al Museo di Pavia sono finiti nella raccolta privata di Scandiano, nella sua abitazione personale.
Volta, appena tornato a Pavia, si affretta a scrivere al consigliere Lambertenghi della Cancelleria di Vienna: “Non posso esprimere a V.S Illma quanto sia grande il turbamento dell'animo mio nell'atto che le spedisco la qui inclusa causa...” . L'accusa di furto a Spallanzani è formulata come più nettamente non si potrebbe: “Finalmente tutto è chiaro, poiché tutto ciò che manca nel Gabinetto di Pavia si trova essere stato trasportato in quello di Scandiano”.
Gli altri tre congiurati, orditori della nera cabala, si scatenano.
Scarpa informa i suoi corrispondenti che i furti del “Bassà” (cioè il Pascià, ossia Spallanzani in Oriente) ammontano almeno a 2000 zecchini.
Fontana informa il fratello che i reperti trafugati valgono 3000 zecchini. Al suo amico Amaduzzi invece racconta che il valore delle ladrerie di Spallanzani è dell'importo di “più migliaia di scudi”, anzi si tratta, a rigore, di perdite inestimabili :“se pure si può fissare un valore a cose, che non si ponno avere per qualunque prezzo”.
Scopoli fa scrivere addirittura una “lettera circolare” in parecchi esemplari che spedisce ovunque, in Italia e all'estero, dove vede agire in tutta la vicenda niente meno che “la mano di Dio”: proprio colui che l'aveva ingiustamente accusato di furto si rivela ora, provvidenzialmente, macchiato della stessa colpa infamante.
Questa circolare minatoria che gira per il mondo sta distruggendo la reputazione di Spallanzani, e proprio nel momento in cui lui, gennaio 1787, fa rientro a Pavia, dopo un viaggio così proficuo di studi e di acquisizioni di materiali per il Museo: è una situazione paradossale.
È profondamente abbattuto. Ma reagisce e si difende.
Due ispettori, nominati dalle autorità milanesi, i barnabiti Pini e Racagni fanno un sopralluogo peritale sia nel Museo pavese che in quello personale di Spallanzani a Scandiano. Le mancanze vengono effettivamente constatate, ma si tratta di poca cosa rispetto alla denuncia di Volta: 112 zecchini.
Spallanzani, nella sua memoria difensiva, fornisce adeguate giustificazioni: campioni della raccolta del principe Carlo di Lorena erano già rovinati al momento dell'ingresso nel Museo o per difetto di imbalsamazione o perché divorati dai vermi; e c'erano i testimoni. Certe pietre saline provenienti dall'Austria superiore si erano sciolte nei mesi invernali per via dell'umidità. Anche gli animali della collezione van Hay, comprata all'Aia, erano giunti a Pavia già con sensibili lacune rispetto a quanto dichiarato dal catalogo: il bidello Guarnaschelli sapeva com'erano andate le cose. Conchiglie assenti erano state utilizzate per farne scambi con altri naturalisti, e segnatamente con il ginevrino De Saussure. E così via.
Il procedimento giudiziario informativo che si tiene a partire dal marzo 1787, a Milano, nel Regio Palazzo di Governo, alla presenza della Commissione ecclesiastica e degli studi al gran completo, e dove vengono auditi tutti i protagonisti della vicenda, Scopoli in testa (il quale accusa lacune nei reperti per un importo di circa 400 zecchini, questa volta), si conclude il 26 maggio con un lungo rapporto riservato firmato dal presidente, conte Wilzeck, funzionario della corte viennese e ministro plenipotenziario per la Lombardia austriaca.
Il verdetto finale spetta all'imperatore, Giuseppe II d'Austria.
Il 14 luglio il Decreto Imperiale viene promulgato, firmato dal barone Sperges e controfirmato dal principe Kaunitz.
Spallanzani è assolto; l'imputazione mossagli contro risulta del tutto insussistente; Volta dev'esser allontanato dal Museo e da ogni incarico a Pavia. Ai professori Scopoli e Scarpa dovrà essere comminato un severo monitum; sull'operato del matematico Fontana cade la “seria disapprovazione” di Sua Maestà. Comunque dell'intera vicenda non si deve parlare più; lo scandalo che rischia di deturpare l'immagine di una delle migliori Università d'Europa va sopito definitivamente.
La lunga pendenza giudiziaria, ad alta densità pretesca, dato che preti sono Spallanzani, Fontana, Volta e Pini e Racagni, autentica “ieromachia”, si è conclusa.
Dopodiché tutti felici e contenti? Neanche per sogno.
Giovanni Antonio Scopoli, di lì a poco, sta allestendo il suo opus magnum, una descrizione sistematica (naturalmente) della flora e fauna insubrica, con un ricco apparato di tavole illustrate.
Gli capita, nel 1785, di metter le mani su un animale straordinario: “un Verme singolarissimo vomitato da una Donna piemontese” poche ore prima del parto.
Nel 1786 il Verme, con la sua bocca aperta e i suoi due singolari tubi divergenti, esemplare sconosciuto e mai visto prima, da Scopoli prontamente battezzato (nomenclatura!) Phisis intestinalis, troneggia nel primo fascicolo dell'opera Deliciae florae et faunae insubricae. La tavola illustrata è dedicata, come usa, a uno scienziato di fama: il botanico inglese Joseph Banks, presidente della Royal Society di Londra.
Per Scopoli un indubbio successo di valore planetario.
Sottile è però il confine tra grandezza e ridicolo.
La nuova specie, mai vista prima, il singolarissimo verme è in realtà una trachea, tratta dal corpo di una gallina insieme con l'esofago e il gozzo, di cui era stata cucita la parte inferiore.
La scoperta mondiale, per cui è stato scomodato il nome della natura in greco Physis, è solo una frattaglia di pollo, nota ad ogni massaia.
Scopoli era stato vittima di un banale impostore.
Il madornale svarione scientifico del naturalista trentino offre il destro a un non meglio identificato dottor Francesco Lombardini, bolognese, per la composizione di Due Lettere al signor Dottore Scopoli, uscite nel 1788 e datate da Zoopoli.
La “storia del verme” vi ha larga parte. Persino gli Agelasti (cioè coloro che non ridono mai, secondo Rabelais, coloro che per natura odiano il riso), persino loro si sono sbellicati e smascellati. Anche perché non solo Scopoli confonde il gozzo e altre parti di gallina con un verme, peraltro inesistente, ma ha l'ardire di mettergli il pomposissimo nome di Physis, e invece il nome giusto doveva, semmai, essere physe, ossia “vescica”.
Viene poi massacrata la tassonomia ittica dello Scopoli, fondata sul “foro dell'ano”. “A norma del foro dell'ano io divido i pesci in tre ordini” asserisce il trentino; “il vostro sistema durerà, finché durerà l'ano nei pesci”, commenta il misterioso Lombardini.
Ma, aldilà delle trafitture satiriche, ciò che in queste Due Lettere viene duramente contestata è l'imperizia sperimentale di Scopoli, le sue mani più da “Ourang-Outang che da Sperimentatore”.
La natura non va semplicemente catalogata o studiata dentro i musei, ma colta “in azione”, osservata direttamente, non copiata morta e sfigurata.
È evidente che, dietro l'enigmatico Lombardini, si cela Spallanzani. Benché egli, dopo il clamore suscitato dal pamphlet, disapprovato dalle autorità accademiche e non solo, abbia preso le debite distanze dall'operina.
Taluni sospettano addirittura che ci sia Spallanzani anche dietro il brutto tiro giocato a Scopoli con il verme stesso.
Ma ciò non è sicuro.
Così come non è sicuro che sia di Goldoni una commedia uscita postuma (1796), Il falso originale, dove l'intera vicenda è riconoscibile nonostante la trasposizione letteraria.
Sicuro è che Scopoli, colpito da apoplessia, morì l'8 maggio del 1788. Il 4 febbraio anche Spallanzani fu colpito da apoplessia. Morì l'11; quello fu l'ultimo esperimento cui assistette. Per un curioso paradosso fu curato dal medico Scarpa. Per un paradosso ancor più singolare, e finale, la sua commemorazione fu letta a Milano dal padre Gregorio Fontana.