Complex tv e complex life / Una risata seppellirà il ridicolo

10 Ottobre 2017

Una risata sì, il ridicolo no. Il ridicolo richiede uno schieramento: uno è ridicolo, un altro lo de-ride.  Pirandello, che era crudele, esemplificò con la vecchia mantecata che cerca di esorcizzare il degradarsi della sua bellezza con un trucco pesante e insensato: tu la vedi passare, e ridi, perché è ridicola, perché hai diritto di de-riderla.

 

Ma la vecchia come sta? Non se ne rende conto, non coglie il contesto, non vede se stessa, non pratica insomma il distacco dal suo ego, non vede lo specchio come un luogo di verità, e non giunge all’ironia, che è il distacco dalle cose e da stessi, e la capacità di renderci a noi stessi prospettici, ovvero auto-ironici. Potrebbe essere comodo mettere nello stesso recinto i dittatori, i torturatori, gli sterminatori, i potenti, i prepotenti, i supponenti, circondandoli di una staccionata che li imprigioni nel loro moralismo, nel loro autoritarismo, nella loro supponenza, nella loro avidità, nel loro maligno narcisismo, i padroni, gli amministratori delegati, i capiufficio, i funzionari statali, i poliziotti con manganelli e idranti… Se ne starebbero tutti lì, a darsi di gomito e a sbraitare, e a minacciare noi che stiamo fuori nel prato liberi, intelligenti, arguti, disinteressati, con le mani aperte, distaccati, illuminati, a rotolarci dalle risate; in questo caso de-ridere sarebbe un atto politico, una contro-cultura, un contro-potere, la più limpida spiritualità, perché il monaco che nulla ha nulla teme e tutto comprende, dell’ordine cosmico e degli umani.

 

Dicono che Bakunin, teorico dell’anarchia, una volta mentre lo arrestavano abbia gridato, ridendo: «La fantasia distruggerà il potere e una risata vi seppellirà!», e così fecero tanti anarchici quando venivano arrestati fino alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento. Nel Sessantotto qualcuno cominciò a scrivere dire e urlare «La fantasia al potere!» e nel Settantasette (che per chi lo ha fatto è stato il suo Sessantotto) qualcuno cominciò a scrivere dire e urlare e graffitare sui muri delle Università «Una risata vi seppellirà!».

 

 

 

Chi è ridicolo non si sente ridicolo, ed è ossessionato dal “senso del ridicolo”: se non è il potere è il perbenismo, l’amor proprio, il decoro.

Il ridicolo non è empatico, è crudele come erano crudeli i burloni di corte alla mensa dei cortigiani crudeli; e se sbagliavano una battuta finivano alla gogna (de-risi dal popolo) o impiccati, smembrati. Il ridicolo è pericoloso perché quando ridi in faccia a un potente il potente te la fa pagare.

Fantozzi è ridicolo, lui che teme i prepotenti, ma Paolo Villaggio era infine empatico, nei confronti del suo personaggio, e senza una parola di compassione per lui, facendoci ridere ci ha educato a provare empatia per i poveri cristi, oppure a non farci più mettere i piedi in testa, oppure a ridere a crepapelle della Contessa Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare.

 

Perché Breaking Bad è la serie televisiva più “complessa” e al momento magistrale nella storia della “tv di qualità narrativa e produttiva” di cui scrive nel suo saggio Jason Mittell (Complex tv. Teoria e tecnica dello storytelling delle serie tv, minimum fax 2017)? Walter White è un geniale chimico un po’ coglione, così riesce da giovane a farsi rubare il brevetto dall’amico e la fidanzata dall’amico, che si sposano e diventano milionari della chimica; Walter White finisce a fare l’insegnante di chimica in un liceo, e si sente sfigato e fregato come ci sentiamo noi insegnanti statali in Italia: ma negli Usa essere un insegnante statale è molto più sfigato ancora che da noi (siamo vicini all’equipollenza, comunque), e ai party d’élite gli chiedono se è un imprenditore o un brillante professore universitario, dileguandosi al cospetto della sfigata sincerità di Walt. Walt non è forse ridicolo?

 

Quando scopre di avere un cancro aggressivo ai polmoni la geniale concatenazione di eventi “di male in peggio” che è il fulcro di infinita narrazione della serie AMC firmata dallo showrunner Vince Gilligan (62 episodi, 10 diversi sceneggiatori, 25 diversi registi) lo porta a divenire un cuoco di metanfetamina straordinariamente pura che lo proietta nel mondo criminale e nelle guerre di strada e di confine tra spacciatori e cartelli narcos. Walter White è interpretato dall’attore e producer Bryan Cranston, che dalla sua maschera di sfigato-che-sta-per-esplodere non consente mai fino in fondo di de-riderlo, socchiudendo i due terrificanti occhi dell’oppresso incazzato.

 

Breaking Bad è una macchina narrativa che dal 2008 al 2013 ha incatenato in una sterminata vicenda infiniti accadimenti vero-simili, ridicoli e insieme drammatici, orrendi e buffi. Il partner casuale di Walter White, il ragazzotto drogato che spaccia in piccolo, Jesse Pinkman, è pure lui ridicolo, ma il suo soffrire per le conseguenze delle sue cazzate è così intenso che personalmente non sono riuscito a ridere una sola volta in 62 ore. Il Signor Bianchi e l’Uomo-Rosa attraversano una epopea di sventure non molto dissimile dalle odissee di Fantozzi, ma la loro ribellione al peso soverchio della sfiga li porta a sporcarsi di sangue e di crimine, raddrizzando la schiena e arrivando a farsi sempre più spesso cinici e crudeli come coloro che de-ridono. Fantozzi non ce l’ha mai fatta, a ridere per ultimo. In molti episodi Walter e Jesse ci riescono.

 

Se l’ironia nel quotidiano ci permette di staccarci dalla visione egocentrica e di sorridere di noi stessi, schivandoci il dolore morale o la depressione, la nostra posizione di spettatori terzi ma totalmente coinvolti in Breaking Bad ci sottrae sia il senso del ridicolo, sia la de-risione.

Breaking Bad, in quanto serie tv, deve doparci di ansia, di attesa, di identificazione, non vuole e non può “liberarci”, perché l’ideazione geniale pone una domanda senza risposta: «Un povero cristo onesto che di fronte alla morte produce crimine per garantire un futuro alla sua famiglia, è un criminale o no?» Per la legge lo è, ma per la nostra empatia non lo è. Non c’è niente da ridere, insomma.

 

 

 

Se Breaking Bad parlava di cancro e di morte, Atypical, una delle nuove serie “complex tv” di Netflix, in onda da poche settimane, pone una nuova riflessione, a noi spettatori della vita degli altri: atteso dalla comunità mondiale di medici, educatori, genitori di ragazzi di spettro autistico, Atypical sceneggia la vita quotidiana del diciottenne Sam Gardner, autistico ad alto funzionamento (“Asperger”) a un punto di svolta della sua vita di “neurodiverso”, di “atipico” in una famiglia e in un ambiente scolastico che lo hanno sostenuto fino alla soglia della vita adulta: vuole un amore, e vuole fare l’amore con una ragazza. Questa delicata, a volte dolorosa svolta di vita fa saltare gli amorevoli e pietosi supporti di protezione dei suoi genitori e della sua straordinaria “sibling” Carey, sorella neurotipica e eccentrica di Sam.

 

Il coraggio di portare in comedy l’autismo è merito della autrice Robia Rashid, classe 1977 e già co-autrice di Will & Grace e showrunner di How I Met Your Mother.  La comunità autistica italiana si sta spaccando nella ricezione: una parte si indigna perché – appunto – ritiene che non si debba de-ridere una cosa seria come l’autismo, perché la de-risione dell’handicap è la radice crudele, e realissima, di tanto bullismo anti-inclusivo; un’altra parte, quella che vede apertamente favorevoli a Atypical molti dei migliori ricercatori e coach sull’autismo Asperger in Italia dicono il contrario, ovvero che l’unico modo per estinguere la crudele de-risione del diverso (in questo caso un debole, non un tiranno) è assumere con sorridente serenità che anche un “diversamente tipico” può essere buffo in alcune sue azioni sociali, esattamente come un “neurotipico”, e che proprio l’alto funzionamento cerebrale di un Asperger può, con molto mentoring e molto affetto, arrivare a comprendere una tipica non-abilità autistica, ovvero l’astrazione ironica e autoironica.

 

 

La complex tv – come dimostra il saggio serio ma per niente ridicolo di Jason Mittell – è oggi una delle sfere creative in cui noi possiamo specchiare il nostro senso della vita. Come lo abbiamo potuto fare con i romanzi, il cinema, il teatro e ogni altro storytelling prima del compiacimento storytellante. 

Due spiritualità – molto diverse tra loro – hanno sempre fondato sul saper ridere di se stessi (senza de-risione alcuna) la loro essenza: l’ebraica, con il suo sterminato filone di barzellette e ironie spassose e intelligentissime; la buddhista, con il suo sorridere distaccato e sollevato, e la sua capacità di accettare l’impermanenza del tutto, osservando dal silenzio seduto la vanità buffa di chi si impunta sul proprio ego o sulla propria illusione di “raddrizzar le gambe ai cani”. La risata zen (che io ho davvero praticato soltanto nel mezzo di sesshin lunghe giorni o settimane, scandite da ore e ore di meditazione seduta) è simile alla risata “omerica” – Ἄσβεστος γέλος (ásbestos gélos) – nell’esplosione, ma radicalmente diversa da quella che Omero attribuì agli Dei radunati a schernire, a de-ridere Afrodite e Ares pescati da Efesto con una rete mentre fanno l’amore più focoso e sensuale possibile.

Non si de-ride chi ama! Non si de-ride chi soffre! Non si de-ride il diverso! vorrei infine sentenziare, ma sarei troppo serio, e potreste trovarmi ridicolo. Mi sforzerò quindi di farmi una bella, semplice, non-omerica risata anarco-zen.

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