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San Lorenzo / Le navi dei re magi

29 Settembre 2020

Ogni parola, ogni frase dei vangeli è stata sottoposta nei secoli a un’indagine stratificata, un’interpretazione resa più complessa dalle diverse lingue implicate e dalle necessarie traduzioni: occorreva coglierne prima di tutto il significato letterale, poi i rimandi simbolici e allegorici, i riferimenti storici, i richiami all’Antico Testamento. Ma non di rado tutto lo sforzo interpretativo veniva (e viene) deluso dalla concisione del testo; è quello che accade per una frase del vangelo di Matteo (2.12): “per un’altra strada fecero ritorno al loro paese” (per aliam viam reversi sunt in regionem suam). L’evangelista sta parlando dei Magi, protagonisti di un breve racconto che nei vangeli apocrifi e negli interpreti dal medioevo in poi si allarga e si arricchisce di vicende, luoghi e atmosfere lontane; uno straordinario condensarsi di leggende riassunto pochi anni fa da Franco Cardini (I re Magi, leggenda cristiana e mito pagano tra Oriente e Occidente). Matteo – l’unico degli evangelisti a parlarne – lascia inevase diverse domande: chi erano questi “alcuni Magi”, e come si chiamavano? quanti erano, e da quale parte dell’“Oriente” provenivano? Che cosa era la “stella” che li aveva guidati? 

 

Tra i tanti interrogativi, c’era quello del viaggio. Scrittori e pittori fecero del loro meglio per integrare le laconiche righe di Matteo: immaginarono cortei con lussuosi abiti orientali, cavalli e dromedari, un ricco séguito di servi come si addiceva ai re. Ben presto, infatti, gli esegeti del testo evangelico avevano chiamato in causa uno dei Salmi (71[72],10) che veniva letto come annuncio dell’arrivo e dell’omaggio dei Magi a Gesù: “Il re di Tarsis e delle isole porteranno offerte, i re degli Arabi e di Saba offriranno tributi”. 

Anche se restavano diverse incertezze – ad esempio, l’esatta ubicazione di Tarsis –, furono probabilmente questi versi a suggerire una risposta alle evasive parole di Matteo e ad aprire un inatteso scenario a proposito del viaggio di ritorno. Dopo che ebbero venerato il Bambino, scrive Matteo, un angelo avvertì i Magi delle pericolose intenzioni di Erode, consigliando loro di cambiare l’itinerario del ritorno. Ma attraverso quale strada? Se i Magi provenivano dall’Arabia, da Saba e dalle “isole” (le Indie?), per forza il viaggio doveva avvenire per nave. 

Alla fine del XII secolo, Pietro Mangiatore (Petrus Comestor), forse chiamato così per il suo straordinario appetito di libri, ne è convinto, e lo scrive nella sua Historia Scholastica (In Evangelia, 8): “Et venientes Tharsum Ciliciae, conducto navigio, redierunt in regionem suam”; l’erudito medioevale, dunque,  non aveva dubbi né sui bastimenti usati dai Magi, né sulla meta di Tarso in Cilicia, la città in cui nacque san Paolo.

 

 

Per rendere la narrazione più vivace gli artisti non si lasciarono sfuggire una occasione come questa: ecco la nave dei Magi sulla pagina di un evangeliario miniato verso il 1220 (Speyerer Evangelistar-Bruchsal 1, Karlsruhe, Badische Landesbibliothek, 2013, f. 13r). Il timoniere a poppa indica la strada e i Magi (che già da secoli vengono raffigurati come re e in numero di tre) guardano con un po’ di apprensione il mare davanti a loro. La nave è tutta multicolore: è colorata la vela e persino le tavole che compongono lo scafo; una testa di leone fa da polena a prua. Si scorgono tra le onde dei pesci, alcuni bizzarri.

Circa settant’anni dopo, sulla volta del Battistero di San Giovanni a Firenze, un mosaicista riprende il motivo; si ripete in forme più sobrie lo schema della miniatura di Karlsruhe, ma qui la resa dei pesci è più minuziosa, e compare pure una medusa.

 

 

Nessuna descrizione medioevale del ritorno per mare dei Magi può competere con l’affresco eseguito da Giovanni da Modena nella cappella Bolognini in San Petronio a Bologna, verso il 1410. 

 

 

Pochi decenni prima, Giovanni di Hildesheim aveva parlato del viaggio dei Magi nella sua Historia trium regum, testo che ebbe al tempo una notevole diffusione; lo scrittore tedesco insisteva sul fatto che il viaggio di andata era durato miracolosamente solo dodici giorni e quello di ritorno addirittura due anni, e per di più non faceva nessun cenno alle navi. Ma Giovanni da Modena non la pensa così, e anzi amplifica il più possibile la narrazione dell’itinerario marittimo; del resto, Bartolomeo Bolognini – un ricco mercante di seta che aveva avuto peso importante nella vita politica della città emiliana – nel suo testamento del 1408 era stato chiaro: tutta la parete destra della capella di cui aveva il patronato doveva essere dipinta con la storia dei Magi (“pingi debeat historia Trium Magum quae comprehendat totam dictam spondam”). Scelta sorprendente, se si pensa che la parete di fronte ospita nientemeno che il Paradiso e l’Inferno. Chissa perché Bartolomeo era così devoto ai Magi. Li avrà invocati durante i viaggi impostigli dall’attività mercantile?

Siamo in un porto – il pittore ha cercato di mostrarne alcune infrastrutture (una torretta in pietra, un’altra in legno a capo di un breve molo) – e i Magi sono appena partiti. Le loro imbarcazioni sono addirittura tre (sono o non sono dei re?), ma la nave più imponente, a sinistra, è quella su cui sono saliti. 

 

 

Li riconosciamo, tra il séguito, per le barbe fluenti e le corone in testa, impegnati in un colloquio piuttosto serio per concordare i dettagli del viaggio. Intanto, a poppa, se ne sta seduto un timoniere vestito con una sorta di pelliccia scura; un marinaio sale a piedi nudi sull’albero maestro per sistemare i cordami: il vento che sta gonfiando la vela gli agita anche la tunica bianca (un vento bizzarro perché le bandierine bianche del porto vanno in tutt’altra direzione).

Il movimento delle forme, non importa se coerente o meno, è infatti uno degli aspetti più riusciti dell’affresco. Scriveva, molti anni fa, Carlo Volpe (1958): “Alcune idee ritmiche bellissime, immaginate per esporre le sagome rotonde e oscillanti delle navi e delle vele su per l’impennata cerulea dello spazio marino, si gonfiano virando stupendamente all’interno della composizione, in una giostra movimentata ed esatta di schiocchi violenti; conclusione quasi araldica, veramente lontanante, della lunga e mirabolante favola dei tre Re Magi”.

Dalla parte opposta della nave dei Magi, un’imbarcazione più piccola non ha ancora spiegato la vela; il suo comandante si sporge preoccupato a indicare la nave principale e lo stesso fa un marinaio in cima all’albero. 

 

 

A bordo, una donna bionda ci dà le spalle e sembra porgere qualcosa (del denaro?) a un signore in tunica rossastra. Che cosa sta accadendo? Si tratta di un episodio laterale alla storia dei Magi (e di cui non conosciamo la fonte), o il pittore si è immaginato da capo questa scena per rendere il più possibile avvincente il racconto? D’altra parte, servono proprio a questo scopo le scialuppe là in fondo all’orizzonte e, su un isolotto, quella sorta di chiesa coronata da una mezzaluna (una moschea ante litteram?).

 

Alla fine dell’Ottocento, Paul Gauguin provava a rintuzzare le critiche di chi gli rimproverava un uso scorretto della prospettiva e il mancato rispetto per la tradizione, e scherzava sulla forma della nave che Giotto e la sua bottega avevano dipinto ad Assisi per raccontare il viaggio per mare della Maddalena: la santa “con il suo seguito arriva a Marsiglia su un vascello che ricorda un pezzo di formaggio olandese. (...) Le figure sulla barca, come tagliate nel legno, sono di enormi proporzioni, mentre in primo piano una figura drappeggiata, molto più piccola, rimane appoggiata su uno scoglio non si sa per quale strana legge di equilibrio”. 

 

 

Nelle immagini del medioevo, è infatti difficile trovare descrizioni credibili delle navi, per non parlare del rapporto tra imbarcazione e passeggeri. Anche le navi dipinte da Giovanni da Modena sono un po’ a “formaggio olandese”, ma bisogna ammettere che il pittore si è sforzato di inserire nuovi dettagli realistici: il cassero a poppa, la coffa per gli avvistamenti sull’albero maestro, il timone, le vele ben disegnate.

Lungo la riva, sono ancora affaccendati due facchini che prendono ordini da un tipo con un berrettone rosso in testa; uno si china verso dei recipienti in terracotta e in vimini posati a terra (saranno le derrate necessarie per il lungo itinerario), l’altro ha in spalla un grosso sacco nerastro. 

Gesti della fatica per nulla scontati nella pittura del primo ‘400; nella parete a fianco, incentrata sulle storie di san Petronio, Giovanni da Modena descrive le operazioni di imbarco delle reliquie di un santo (san Floriano?); sulla nave, un marinaio tira con entrambe le mani, e contemporaneamente stringe tra i denti la fune a cui è assicurato il corpo del santo.

 

 

Il tizio col cappello rosso indica ai due operai una lunga passerella lignea con pioli che serve a caricare la terza nave. Giovanni da Modena ha dedicato un’attenzione speciale a questo singolare, lungo vascello: a poppa stanno seduti quattro personaggi in abiti eleganti, ma davanti a loro i seggi rettangolari in legno e in doppia fila non possono essere altro che i posti destinati ai rematori; il pittore voleva forse ricostruire la forma di una bireme antica, oppure vuole descrivere una galea dei suoi tempi? A complicare le cose c’è quella leggera struttura chiara che sembra connessa alla nave per mezzo di una serie di travi lignee. 

Un’imbarcazione senza confronti, e non solo nel tardo medioevo: non a caso, quasi un secolo dopo, suscitò l’interesse di un originalissimo pittore del Rinascimento bolognese, Amico Aspertini. Fu Roberto Longhi, nel 1961, il primo ad accorgersi che Aspertini aveva preso nota della strana imbarcazione disegnandola accuratamente su un foglio oggi a Milano (Castello Sforzesco), già parte di un suo taccuino di lavoro. 

 

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