Bolle, bachi e pesci rossi
Era il 1999, stavo terminando la stesura di Chi non legge questo libro è un imbecille. L'intelligenza artificiale si sviluppava e diffondeva con crescente rapidità.
Non era difficile prevedere due effetti collaterali. In primo luogo, poiché sappiamo che il computer è un cretino molto specializzato, il rapido incremento della stupidità artificiale. In secondo luogo, un parallelo incremento di tutte le forme di idiozia generate dalla fallace interazione tra esseri umani e macchine pensanti.
In quella fine millennio, stava per esplodere la “Dot-com Bubble”, la grande bolla di internet. Gli indici di borsa di tutto il mondo salivano da tempo, impennandosi, a partire dal NASDAQ, l'indice delle aziende tecnologiche, anche se le start-up attive in rete fatturavano pochi dollari e registravano a bilancio perdite colossali ogni anno. Ma c'era qualcosa nell'aria, lo sapevamo: i computer e la rete rappresentavano il futuro, sfondavano una nuova frontiera che si apriva su un Far West infinito e virtuale da colonizzare. Scommettere sul settore appariva dunque una scelta perfettamente razionale, come investire nelle ferrovie nell'Ottocento, o nelle aziende automobilistiche nel Novecento. Infatti oggi alcune aziende quotate al Nasdaq (Google, Facebook Yahoo, Amazon...) sono tra le maggiori imprese del pianeta.
Purtroppo l'entusiasmo degli investitori era eccessivo, prematuro, sconsiderato. Il 10 marzo 2000 l'indice NASDAQ raggiunse il massimo: 5132,52 punti. Nei tre giorni successivi il NASDAQ perse il 9% e continuò a calare: nell'ottobre 2002 era attestato intorno a 1200 punti. Decine e decine di società fallirono, spesso senza aver fatto un solo dollaro di profitto: nel 2004 erano attive solo il 50% delle aziende quotate quattro anni prima. Tra il 2000 e il 2001, le azioni Cisco Systems persero l'86% del loro valore, quelle di Amazon passarono da 107 a 7 dollari (dieci anni dopo sarebbero risalite fino a 200 dollari). Accade spesso quando si scatenano le frenesie speculative, fin dai tempi della bolla dei tulipani in Olanda, scoppiata nel 1673: quasi nessuno si preoccupa del crollo incombente. Anzi, gli esperti assicurano che non c'è nessuna bolla, che un radioso futuro attende chi ha fiducia nel futuro.
Secondo gli esperti la vera minaccia di fine secolo, quella che ossessionava i media e toglieva il sonno all'umanità, era un'altra. Sovrapponeva nuove inquietudini e antichissime paure, l'ombra dell'apocalisse annebbiava le luminose prospettive del digitale. Questo subdolo nemico era il millennium bug, il baco del millennio, che – si diceva – avrebbe messo fuori uso i computer di tutto il mondo, paralizzando i sistemi che regolavano energia, trasporti, industrie, ospedali, servizi...
Il baco stava in due byte, due cifre che non c'erano.
Molti programmi informatici, quando l'operatore inseriva una data in memoria, registravano l'anno solo con le due cifre finali, tralasciando secolo e millennio: 1999 diventava 99, il fatidico 2000 un irrilevante 00, una nullità. Nei primi computer, la memoria – e soprattutto quella di lavoro della CPU – era scarsa e costosa. Perciò risparmiare due cifre pareva una scelta astuta, visto che le date figurano in migliaia di linee di codice. Uno degli artefici di quell'ingegnosa soluzione fu Alan Greenspan, dal 1987 al 2006 presidente della Federal Reserve, e dunque tra i massimi artefici dei destini (e dei disastri) economico-finanziari del pianeta:
“Negli anni Sessanta e Settanta quei programmi li creavo io, ed ero molto orgoglioso di riuscire a ridurre lo spazio necessario omettendo il 19. Non ci ha mai sfiorato il pensiero che quei programmi potessero durare più di qualche anno”.
(Alan Greenspan, testimonianza al Senate Banking Commitee, 25 febbraio 1988)
Madame Peripetie
I geni dell'informatica avevano dimenticato un dettaglio. Se chiedi a un computer se 2000 è maggiore di 1999, la risposta sarà “Vero”. Se gli chiedi se 00 è maggiore di 99, ti risponderà “Falso”. Con il passaggio al nuovo millennio, molti programmi rischiavano di produrre errori a catena, mandando in tilt tutti i meccanismi che controllavano.
Negli ultimi decenni del Novecento, i programmatori, gli eroi nascosti che stavano cambiando il mondo e inventando il nostro futuro, non avevano previsto che il mondo avrebbero continuato a funzionare dopo il 31 dicembre 1999. La genialità li spingeva a creare programmi che consentivano di mandare l'uomo sulla luna, ma la loro immaginazione del futuro era limitata a qualche anno.
La notte tra il 31 dicembre 1999 e il 1° gennaio 2000 furono in molti a passare una notte insonne. Non per brindare al nuovo anno, ma per controllare, prevenire e limitare i danni del baco del millennio. Per fortuna non successe (quasi) nulla. I computer continuarono a funzionare bene (in effetti, continuarono a funzionare come al solito) e il mondo non si fermò.
Queste due vicende parallele, la bolla di internet e il baco del millennio, sembrano confermare che la stupidità umana è un problema insolubile, un angelo custode di cui l'umanità non riesce a liberarsi. L'imbecillità, come insegnano le leggi fondamentali di Carlo Maria Cipolla, non risparmia nemmeno le élite che stanno plasmando il nostro avvenire.
Questa pessimistica conclusione pare contraddetta da quello che è stato definito “effetto Flynn”, dal nome dello studioso neozelandese che l'ha scoperto. Negli anni Ottanta del Novecento, James Flynn iniziò a studiare i dati sul QI (il quoziente di intelligenza), raccolti dalla fine del secolo precedente, quando era stato escogitato il test. Quando Flynn esaminò i dati relativi ai test WISC e Raven in 35 paesi raccolti nell'arco di diversi decenni a decine di milioni di soldati e studenti, scoprì che il QI medio aumentava in media di 3 punti ogni 10 anni. Nei paesi del Nord Europa era cresciuto addirittura di 8 punti ogni 10 anni. In parole povere, da almeno un secolo i figli erano più intelligenti dei genitori. Per spiegare l'incremento del QI sono state avanzate diverse ipotesi: migliore alimentazione, nuclei famigliari più piccoli che dunque consentono di prestare maggiore attenzione ai bambini, ambiente più complesso e stimolante, metodi educativi e sistemi scolastici più efficaci... Più probabilmente, è il frutto dell'insieme di questi fattori.
Tuttavia negli ultimi decenni questo incremento si sarebbe arrestato. Dagli anni Settanta (secondo alcuni studiosi dagli anni Ottanta) ci sarebbe stata addirittura un'inversione di tendenza: i nipoti sarebbero meno intelligenti dei figli. La svolta avrebbe dunque preceduto l'avvento dell'era digitale. Tuttavia secondo molti osservatori la diffusione dei computer, l'overload informativo, la connessione permanente, hanno accentuato l'istupidimento collettivo.
Un forte grido d'allarme l'ha lanciato Nicholas Carr, prima su “The Atlantic” (1 luglio 2008) , poi sul “Wall Street Journal” (5 giugno 2010) e infine in un best seller mondiale, Internet ci rende stupidi? (Raffaello Cortina, Milano, 2010). Secondo Carr, la rete “ci trasforma in pensatori dispersivi e superficiali”. Coloro che privilegiano la profondità rispetto alla velocità del pensiero hanno validi motivi di preoccupazione:
“Le persone che leggono un testo costellato di link, comprendono meno di quelli che leggono un tradizionale testo lineare. Le persone che guardano presentazioni multimediali ricordano meno di quelli che acquisiscono informazioni in un modo più calmo e focalizzato. Le persone che sono continuamente distratte da e-mail, avvisi e altri messaggi capiscono meno di quelli che sono in grado di concentrarsi. E le persone che si destreggiano tra molte attività sono meno creative e meno produttive rispetto a chi fa una cosa alla volta.”
(“The Wall Street Journal”, 5 giugno 2010)
Madame Peripetie
A sostegno di questa pessimistica visione, Carr cita un Premio Nobel, il neuroscienziato Eric Kandel, e la psicologa dello sviluppo Patricia Greenfield. Riferisce di una ricerca effettuata alla Columbia University: gli studenti che seguivano le lezioni con il laptop acceso avevano risultati nettamente peggiori dei chi lo teneva spento. Viene da pensare che riempire le aule di computer ed ereaders non sia poi una grande idea...
Secondo Patricia Greenfield, ogni nuovo media sviluppa alcune abilità cognitive rispetto ad altre. Lo stesso accade anche con internet: per certi aspetti diventiamo più intelligenti, per altri più stupidi. La diffidenza di Carr ricorda la risposta del sovrano d'Egitto al saggio Theuth, l'inventore della scrittura:
“Questa scienza, o re – disse Theuth – renderà gli Egiziani piú sapienti e arricchirà la loro memoria perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria”.
E il re rispose: “O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno. E così ora tu, per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti”.
(Platone, Fedro, 274 e-275b)
Sulla scia di Carr, diversi studiosi hanno iniziato a studiare gli effetti della costante interazione digitale sulle nostre intelligenze, provocando drammatici gridi d'allarme, come quello lanciato il 19 agosto 2014 sul prestigioso quotidiano britannico “The Guardian” da Arwa Mahdawi, dall'impressionante titolo“Satire is dying because the internet is killing it”, ripreso poco dopo in Italia da Vittorio Sabadin. La faccenda pare seria: Facebook sta studiando di inserire degli indicatori (come parentesi quadre, o magari una apposita faccina) per “avvisare gli utenti del social network quando stanno leggendo qualcosa di satirico, che non corrisponde quindi alla realtà” (Vittorio Sabadin, “La Stampa”, 21 agosto 2014). Il buon senso – ma anche la responsabilità individuale di fronte alla comunicazione – appartengono al passato.
Per Arwa Mahdawi, che si presenta come “strategy director for Contagious Communications”, il problema per la satira, in un'epoca di attenzione finita e contenuti infiniti, è che ti obbliga a fermarti e pensare. Ma gli utenti di internet, bombardati da un flusso incessante di informazioni, non lo fanno più: la loro è una reazione d'impulso, una raffica di “Mi Piace”, di condivisioni spensierate e virali, che prescindono spesso dai reali contenuti dell'informazione. È una risposta immediata, anche perché, argomenta Mahdawi, è diminuito il nostro “attention span”, ovvero il nostro “intervallo di attenzione” o “tempo di attenzione”, il lasso di tempo in cui riusciamo a concentrarci su uno specifico progetto, contenuto, informazione:
“L'intervallo di attenzione di un americano nel 2000 era in media di 12 secondi, nel 2013 era sceso a meno di otto secondi. Meno dell'intervallo di attenzione di un pesce rosso”.
Il problema è che quella diffusa da Mahdawi è una colossale stupidaggine. Persino chi ci spiega che internet ci rende stupidi può rivelarsi un imbecille.
Infatti nessuno ha mai misurato il famigerato “attention span” dei pesci rossi, e nemmeno quello degli esseri umani. Al massimo, gli etologi hanno scoperto che i pesci rossi hanno poca memoria, ma questa è un'altra faccenda (anche se il rapporto tra memoria è intelligenza è ovviamente strettissimo).
Madame Peripetie
In effetti ci sarebbe un dato che può giustificare il grido d'allarme del duo Mahdawi-Sabadin, e di tutti coloro che si guadagnano da vivere come esperti di comunicazione sul web. Il tempo che passiamo in media su una pagina web sta rapidamente diminuendo. Ma è davvero diminuito anche il nostro attention span? Forse questa riduzione non dipende dal declino delle nostre facoltà mentali. Sarebbe piuttosto un effetto della Legge di Sturgeon (dal nome dello scrittore di fantascienza che l'ha inventata): “Il 90% di qualunque cosa sono stronzate”, ovvero stupidaggini. Se ne deduce che il 90% di quello che troviamo su internet sono stronzate. A crescere, insomma, sarebbe la nostra velocità nell'individuare le cretinate presenti in rete, che sono sempre più numerose. Secondo questa visione, non stiamo diventando più idioti, solo più saggi.
In questa ottica, internet, le mail, i social network si confermano tuttavia terribili “armi di distrazione di massa”. È vero che perdiamo sempre meno tempo a individuare una “pagina-spazzatura”, o un “post-spazzatura”; tuttavia passiamo sempre più tempo in rete e dunque questa attività di “raccolta differenziata di informazioni” sta occupando una porzione sempre più ampia della nostra attenzione e intelligenza.
L'overload informativo (e disinformativo) generato dalla proliferazione della memoria digitale e dalla connessione permanente ha altri effetti collaterali, come spiega Nassim Taleb, autore di un altro best seller mondiale, Il cigno nero:
“In passato pensavo che il problema dell’informazione fosse il fatto che trasforma l’homo sapiens in un idiota: lo rende troppo sicuro di sé, soprattutto in quei settori in cui l’informazione è avvolta da una gran quantità di rumore (come l’epidemiologia, la genetica, l’economia). Così ci convinciamo di sapere più cose di quante ne sappiamo realmente. In economia questo atteggiamento ci fa prendere dei rischi inutili. Quando ho cominciato a giocare in borsa, per cercare di vedere le cose con maggior chiarezza ho evitato di leggere troppe notizie. (…) Penso anche che la diffusione incontrollata di informazioni trasformi il mondo in un Estremistan (dove le variabili casuali sono dominate dagli estremi, e i cigni neri assumono una grande importanza). Diffondendo le informazioni, internet fa aumentare l’interdipendenza, esaspera le mode (bestseller come i libri di Harry Potter e il panico tra i clienti di una banca hanno una risonanza planetaria).”
(Nassim N. Taleb, “Internazionale 831”, 29 gennaio 2010)
L'impatto delle nuove tecnologie è articolato e complesso, e può portare a conseguenze inattese e inquietanti. Se le capacità intellettive dei singoli individui iniziano (forse) a declinare (a causa dell'inversione dell'effetto Flynn e delle “armi di distrazione di massa”), lo sviluppo dell'informatica, di internet e della robotica sta facendo emergere due forme alternative di super-intelligenza, che secondo alcuni supereranno (o stanno già superando) l'intelligenza umana.
La prima è la super-intelligenza collettiva della rete, nelle sua varie sfaccettature. Un primo dato è che gli esseri umani stanno diventando sempre più numerosi: siamo oltre sette miliardi. E se si somma il QI di tutti gli abitanti della terra, è indubbio che non si è mai vista una tale capacità di calcolo. Insomma, una prima ragione di essere ottimisti. Ce ne potrebbe essere anche un'altra, che i cantori del nuovo mondo amano sottolineare. Immettiamo in rete un'enorme quantità di informazioni, che possono essere usate per misure e previsioni. Ciascuno di noi può sbagliare una misura o una previsione, ma ciascuno di noi sbaglia a modo suo, in maniera diversa. Se dunque non prendiamo in considerazione l'errore dei singoli, ma accorpiamo le risposte di un numero sufficientemente ampio di individui, la speranza è che la media di quelle valutazioni converga verso il valore esatto.
Madame Peripetie
Le stupidità individuali – per chi riesce a raccogliere una quantità sufficiente di dati – diventano intelligenza collettiva. Su questo sistema sono peraltro fondate la nostra fiducia nella democrazia, nel libero mercato e nel valore delle azioni quotate in Borsa. Ma come dimostrano i periodici crolli di Wall Street (e molti altri fenomeni politico-economici), questa fede poggia su basi fragili. Per inciso, anche un motore di ricerca “democratico” come Google (un clic un voto, da parte di miliardi di utenti su tutto lo scibile umano) funziona su questi presupposti: più ampia è la base degli utenti, più frequenti le loro interazioni, più attendibili saranno i risultati.
La rete permette lo sviluppo di quella che Pierre Lévy, nel titolo del suo saggio, ha definito “l'intelligenza collettiva” e “connettiva”. Dennis de Kerckhove, nel suo intervento al convegno internazionale Professione giornalista. Nuovi media, nuova informazione (2001), aveva anticipato il fenomeno:
“Raggruppando i nostri neuroni “stupidi” in una mente cosciente, il nostro cervello sfrutta il loro potere, allo stesso modo internet si appoggia su stupide macchine, stupidi personal computer, un pc è come un singolo neurone; quando sono collegati a migliaia tra di loro in una rete, questi semplici stupidi nodi generano un valore aggiunto”.
E poi ci sono i supercomputer, sempre più potenti e veloci. Già oggi molte attività umane vengono svolte più rapidamente (e meglio) da macchine intelligenti. Gli esperti ci assicurano che tra poco avremo computer in grado di superare la capacità di calcolo dei 100 miliardi di neuroni che compongono il nostro cervello.
Che sia un singolo computer, o una rete diffusa, la minaccia è chiara. Tra poco potrà emergere un'intelligenza superiore a quella umana, per memoria, rapidità e potenza di calcolo. I computer sono frutto della nostra intelligenza, ma superandola ci ridurranno a idioti. La nostra specie, l'homo sapiens ridotto homo stupidus, diventerà obsoleta.
“Lo sviluppo di un'intelligenza così superiore alla nostra implicherebbe un enorme rischio esistenziale. Perché l'uomo domina il mondo? Non siamo né i più forti, né i più veloci. Ma il nostro cervello è leggermente diverso da quello dei nostri antenati. E questo piccolo cambiamento ci ha permesso di inventare e innovare la tecnologia, di creare organizzazioni sociali complesse. Al punto che oggi il destino delle scimmie, da cui deriviamo, dipende più da noi che da loro stesse.”
(Nick Bostrom, da un'intervista di Beatrice Borromeo, “Il Fatto Quotidiano”, 15 settembre 2014)
Prospettive inquietanti. Nel frattempo possiamo consolarci con uno degli uomini più ricchi del mondo, che ha come modello uno degli eroi più stupidi della storia del cinema. È Jack Ma, il fondatore di Alibaba, il più grande sito di e-commerce del mondo, valore stimato 240 miliardi (più di Facebook e Amazon). Il 10 settembre 2014, dopo la quotazione record alla borsa di New York, ha spiegato:
“Mi ispiro a Forrest Gump, il personaggio interpretato da Tom Hanks, ogni volta che mi sento frustrato lo guardo. La lezione che ho tratto dal film è che qualunque cosa cambi si resta sempre noi stessi”.
Insomma, ricchi si diventa, coglioni si rimane.
Prefazione a Chi non legge questo libro è un imbecille (ebook Libreria degli scrittori) presentata al convegno "Cretinismo e spettacolo", a cura di Roberto Cuppone, Accademia Olimpica, Vicenza Odeo del Teatro Olipico, 24-25 ottobre 2014.