Amore intransigente. La tradizione di Jericho Brown

29 Gennaio 2023

La tradizione, raccolta che nel 2020 ha fruttato al suo autore, il poeta afroamericano Jericho Brown, il Premio Pulitzer (traduzione e cura di Antonella Francini, Donzelli 2022, pp. 168), è un libro a tema e insieme libero. A tema perché tratta della violenza americana, per la precisione del terrore al quale gli americani si sono abituati: il terrore di essere uccisi mentre si dorme in casa propria, il terrore di essere uccisi a scuola, al cinema, al lavoro. Uccisi da un omicida di massa, uccisi per cause futili, uccisi da un maniaco, uccisi – ciò che soprattutto importa, a un afroamericano – dalla polizia, che sempre, come si sa, dice di aver agito per legittima difesa. Ma è anche un libro libero, perché Jericho Brown non scrive per condannare e nemmeno per capire il perché di questa indifferenza americana verso la morte (molti ci hanno provato, dicendo cose più o meno intelligenti; Brown non le ripete e non si ripete), ma per colpire dove fa male. Dove anche lui può farsi male.

La poesia di Brown è forte e scandita come il rap, ma non è un’imitazione di altre forme. È terribilmente solida, e non lascia al lirismo nessuna possibilità di corrompere la durezza della sua scorza. Questo fin dall’inizio, dalla prima sorprendente poesia intitolata a Ganimede, proprio lui, il ragazzo sequestrato da Zeus, al quale viene assegnato il compito di fare da coppiere degli dèi. Il mito viene abbassato di livello con una buona dose di triste ironia: Ganimede non è stato rapito; è stato venduto, anzi barattato: “Un uomo baratta il figlio coi cavalli. / Questa la mia versione preferita. / Mi piace perché sicura, nessuno / Colpevole, tutti risarciti. Dio prende / Il ragazzo. Il ragazzo diventa / Immortale. Suo padre cavalca…”.

Se lo consideriamo un baratto, fa capire Brown, nessuno può dire che sia uno stupro. Ma quella di Brown non è una polemica contro la mitologia classica (troppi “stupri divini” per la delicata sensibilità degli studenti americani, ai quali va spiegato che si tratta di metafore di eventi legati al ciclo delle stagioni o trasposizioni di rituali di fertilità, ma non sempre li convinci, sono troppo abituati a prendere i testi alla lettera). La sua è una lettura brutalmente allegorica. Venivano questi uomini divini a prendersi i nostri figli, laggiù in Africa, e come potevi dubitare che non li portassero in qualche paradiso? “E quando il padrone viene / A prendersi i nostri figli, puzza / Come gli uomini che hanno stalle / In Paradiso, quella terra lontana / Fra Promessa e Apologia. / Non ci deve convincere nessuno. / La gente del mio paese crede che / Non ci faranno del male se ci possono comprare”.

Brown individua così, in un unico verso, la promessa del capitalismo: uno scambio perfetto, non contaminato da nessuna passione umana. Che male vuoi che ti faccia, se sono disposto a comprarti, se d’ora in poi sei mia proprietà? La proprietà è preziosa, non va danneggiata. E poi, guarda, non compro solo la tua forza lavoro; compro il colore della tua pelle e la tua anima che in quel colore si nasconde.

Ma, se le cose fossero andate davvero così, come spiegare la violenza inimmaginabile, infinita della schiavitù, i cui ultimi rivoli sono oggi nelle mani degli agenti di polizia feroci e spaventati? “Lo giuro,” dice Brown, “se sentite / Che sono morto da qualche parte accanto / A uno sbirro, lo sbirro m’ha ucciso”. Lo fa sapere in una poesia dal titolo intraducibile, Bullet Points. Che sono i punti di una discussione o di una presentazione. Ma sono anche, in questo caso, i punti che una pallottola raggiunge.

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E la traduttrice, peraltro bravissima, traduce Elenchi impallinati, che non è trasparente come l’inglese ma non credo si potesse fare di meglio. Il testo allude a tre presunti suicidi di due afroamericani e un ispanico, avvenuti nel 2014, 2015 e 2013, che secondo i resoconti della polizia si sarebbero uccisi come veri e propri acrobati, con le mani legate dietro la schiena, impiccati con un sacco dell’immondizia, o con un colpo alla nuca sparato con le mani ammanettate (George Floyd non era ancora stato soffocato quando è uscito il libro).

Attenzione, però. Brown non scrive poesie di denuncia buone per un poetry slam in qualche campus universitario, anche se è professore di creative writing alla Emory University di Atlanta. Non sta predicando al coro, come si dice, e nemmeno al coro gay (un desiderio freddo e tenero, teneramente freddo, è il soggetto di molte poesie) perché al coro ha da dire altre cose. Ad esempio, il ritratto di una madre afroamericana inflessibile, che non teme di bastonare i propri figli per il loro bene: “Piangeva ai funerali, piangeva quando mi frustava. Mi frustava / Ogni giorno. M’interessa di più la gente che si dice grata / Alle bastonate prese nell’infanzia. Ma non ne hanno prese quante / ne dava mia madre, / Svegliandoci per la scuola con sberle secche sulle cosce nude. / Quel lato della famiglia è più scuro. Dovrei essere grato. Perciò / lo sarò – / Nessuno sulla Terra sa quanti aborti ci sono voluti / Prima che una donna rischiasse la libertà dando a quel rischio / un nome, / Portandoselo al seno. Non so perché sono vivo ora / Che ancora non riesco a far colpo sulla donna che mi ha cresciuto / A bastonate (…) Grazie Dio. Più scuro di così non può diventare”.

Non so fino a che punto la poesia sia autobiografica. Non serve saperlo. Ho la sensazione, quando vedo i ragazzi afroamericani nella mia università, quando li sento parlare tra loro, o quelle volte che qualcuno parla con me, che nella loro vita abbiano conosciuto solo questa forma di tough love – che si potrebbe rendere in molti modi, ma qui lo chiamerei amore intransigente. Non deve prendere per forza la strada delle percosse, no, ma la madre afroamericana sa che non può permettersi nessuna debolezza con i suoi figli. Il suo amore consiste nel tenerli lontani dai guai. Questo è il suo dovere e non ha tempo per nient’altro. È qui dove Brown non ha paura di fare del male al lettore e di farsi del male come autore. Perché non vuole né accusare né scusare. E la traduttrice ha un’intuizione preziosa quando rende il “Thank God” dell’ultimo verso non come un “Grazie a Dio” ma come “Grazie Dio”. Grazie per mia madre e per le bastonate, e non solo perché così mi ha tenuto sulla retta via. Il “Grazie Dio” fa diventare la confessione un salmo, una devozione che starà al lettore accettare in tutte le sue conseguenze.

A una prima lettura non appare, ma Jericho Brown è un poeta molto attento alla forma. La “tradizione” che dà il titolo al libro è la violenza dell’America e le bastonate della madre che, in dose omeopatica, servono precisamente a imparare come difendersi da quella violenza. Ma è anche la tradizione della poesia afroamericana, alla quale Brown fa puntuali riferimenti (Antonella Francini ne parla con competenza nelle note e nella postfazione). È una tradizione che comprende la poesia scritta, il rap e il blues. E lavorando appunto sul blues Jericho Brown crea una forma nuova, che potrebbe avere interessanti sviluppi sia nella sua poesia sia in quella di altri, se la volessero sviluppare. Sono cinque strutture di quattordici versi, la misura del sonetto (abbastanza comune nella poesia afroamericana), tutte intitolate Duplex, che è il termine che indica le villette bifamiliari. I primi due versi danno il tema; il terzo verso riprende il secondo, il quarto riprende il terzo, e così via, fino all’ultimo che riprende il primo. È così che Brown si inserisce nella tradizione, e la continua:

Il mio ultimo amore guidava un’auto bordeaux,
Colore d’uno sfogo cutaneo, sintomo di malattia.

I sintomi eravamo noi, la strada la nostra malattia:
Nessuna delle nostre liti finiva dov’era iniziata.

Nessun bastonato finisce dove ha iniziato.
L’uomo innamorato può generare un cadavere malandato,

Ma non volevo lasciare un cadavere malandato
Cancellato in un campo di gigli,

Fetore che cancella i gigli del campo,
L’assassino, giovane e irragionevole.

Era così giovane, così irragionevole,
Deciso e terribile, alto quanto mio padre.

Deciso e terribile, il mio alto padre
È stato il mio primo amore. Guidava un’auto bordeaux.

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