Celestini, Laika e altre vite di strada
Si possono spendere i primi quindici minuti di Laika a pensare di non essere d'accordo con Ascanio Celestini. A pensare che è vero, sì: sta cadendo la volta celeste, si stanno sciogliendo i ghiacciai e nel mare ci sono centomila morti, e avremmo tutti una madre vecchia o una vicina in carrozzina da accudire, e il nuovo contratto collettivo di lavoro sarà firmato sul sangue versato dopo una carica della polizia contro un picchetto di facchini neri che spostano pacchi per dieci ore pensando solo a finire il turno per ubriacarsi di patatine e birre al parco e dimenticare, non impazzire di fallimento, aspettando che sia di nuovo tempo di aspettare che finisca il turno. Com'è vero che nel parcheggio del supermercato che vende griffatissimo cibo contaminato c'è un barbone che si lava alla fontanella, e tutte le prostitute del mondo potrebbero squagliarsi insieme ai copertoni con cui si scaldano e finire allo sfasciacarrozze invece che al cimitero senza che nessuno se ne accorga. A pensare che è tutto vero, ma che nonostante tutto – nonostante il mondo sembri avere bisogno di meno preghiere a un Dio che non si sa se esista e più solidarietà ai bambinelli che muoiono di botte, fame e freddo nella mangiatoia sotto casa – sprofondare nell'abisso sotto le macerie, aggirarsi con l'occhio rivolto dietro la nuca, ciechi, tra i fantasmi, immobili, inefficaci, incapaci, a teatro, o mentre si legge l'ottava elegia di Rilke, non è peccato mortale, ma fame di resistenza alla ferocia che ci si rigenera continuamente, naturalmente, nel nostro cuore.
Però dura veramente solo un quarto d'ora, perché Ascanio Celestini è un drammaturgo e un narratore eccezionale e come i bravi romanzieri sa incrinare il racconto mentre lo manda avanti, e innervarci il lirismo e la cecità, scrivendo la solitudine, la poesia e la resistenza proprio sotto la bestemmia della vecchia atea che fa l'elemosina al barbone del supermercato e regala quadernetti alla donna con la testa impicciata, impazzita di dolore per il figlio morto in un incidente, perché possa annotare tutto e confondersi di meno.
Il meccanismo di base, anche in questo nuovo lavoro che dopo il debutto a RomaEuropa sta girando in tutta Italia in affollatissime sale teatrali e non – come la Sala Paradiso del Circolo Arci Bellaria
dove ha inaugurato la stagione dell'Itc Teatro di San Lazzaro (BO) – è quello consueto: lo spettacolo nasce da una frequentazione della vita reale, da una attenzione al dettaglio, alle piccole storie nella Storia, al ricordo e al giudizio individuale ma anche ai miti e ai luoghi comuni che forgiano e insieme rivelano l'identità; sulla scena l'invenzione si salda alla dimensione autobiografica di Celestini, per garantirgli credibilità testimoniale. Fuori dalla scena la militanza procede parallela in televisione, sui giornali, e sulla sua pagina Facebook. Le ripetizioni, gli epiteti, le frasi eco tipiche dell'oralità e ricostruite ad arte fanno del testo trascinante e coerente drammaturgia. I personaggi non hanno qualità fisiche e caratteriali, né emozioni e sensazioni: solo azioni. Sappiamo "cosa fanno" e "cosa dicono", eppure nella nostra mente l'immagine in movimento ci fa risalire alla qualità della sofferenza del barbone nero del supermercato che dorme sempre e che prima era un facchino della fabbrica in cui adesso altri facchini neri, prima di diventare barboni, fanno un picchetto con una mano tesa in alto a tenere la volta del cielo che cade e l'altra di fronte a bloccare i crumiri che vogliono entrare.
Come un puparo cantastorie che ha già cantato la stessa storia cento altre volte, Celestini apre un siparietto rosso da teatrino delle marionette e ci catapulta dal cataclisma universale di quella volta celeste che sta precipitando, al microcosmo di un bar in cui lui stesso, cieco, forse finto, con la pensione sociale, forse disonesta, è allo stesso tempo il narratore che racconta la storia di un Gesù Cristo cieco finto profeta che beve sambuca al bar distribuendo parabole su richiesta, e il profeta del bar e del teatro. A disposizione ci sono la vecchia, la prostituta con una deontologia professionale che forse morirà squagliata con i copertoni, il barbone negro che non è sempre stato barbone, la donna con la testa impicciata, i facchini neri che scendono dal furgone giallo.
Tutti chiusi dentro il bar, gli interessatissimi avventori: nessuno trova una delle infinite vie del Signore per uscire a vederli con i propri occhi questi disgraziati; compreso Gesù Cristo, che riceve le notizie e gli aggiornamenti per procura, dalla voce fuori campo di Alba Rohrwacher, l'apostolo Pietro, un originale coinquilino, la perpetua di un prete, che col sussidio di povertà fa la spesa, paga l'affitto e riesce anche a comprarsi le scarpe. Ma il coraggio di stare fuori, a guardare le guardie che manganellano i facchini non ce l'ha. Come il migliore dei poveri cristiani esseri umani mediocri impiegati della vita possibili.
Nel suo teatrino, accompagnato dalla fisarmonica di Gianluca Casadei che tratteggia le favole dei personaggi e le cesure del racconto, in un andirivieni continuo tra dentro e fuori, tra l'enormità di un mare che dentro di noi comincia ogni volta proprio nella città del mondo in cui ci troviamo, e il dettaglio di una prostituta che puzza di copertone, tra la volta celeste in cui è rimasta la cagnetta Laika spedita in orbita cinquantasette anni fa, e l'orticello dietro l'angolo, il supermercato, la fabbrica, il parcheggio, accumulando dettagli, aggettivi, immagini, costringendoci a una confidenza che non volevamo proprio avere – Celestini ci consegna, infine, non l'allegoria del cataclisma che è già avvenuto, non più solo accuse a istituzioni, consumismo, fabbriche alienanti, cooperative, franchising, multinazionali, degrado ambientale, alimentare, fisico e mentale, ma il prodigio di un cieco una vecchia e una donna con la testa impicciata che sono scesi in strada in piena notte per salvare la vita a un barbone.
Sempre più sfacciato nell'estrema umanità che ci chiede di praticare veramente, e davvero intelligente, in questo lavoro, nello scavare con la forza della forma nella contraddizione non solo politica e materiale ma della psiche e della sensibilità, ci ritroviamo disarmati di fronte alla parabola e alla proposta di una bontà laica, di una umanità che è così ortodossa, aggressiva, estrema, che non può non commuovere e toccare qualsiasi altra ortodossia, cristiana o poetica che sia.