Giacinti, e asparagi
Tempo di asparagi e di giacinti. I primi vanno in pentola, i secondi nei vasi di casa o nelle aiuole del giardino, eppure appartengono alla medesima famiglia: le Asparagaceae (ex Liliaceae). Hanno entrambi un gambo spesso, carnoso, e il saporito turione quando sbuca da terra può ricordare la spiga dei bocci chiusi dei giacinti, però gli asparagi nascono da rizomi (o barbe), i fiori da bulbi. Benché Proust abbia dedicato un passo sublime alle iridescenti nuances dei celesti e dei malva di questi prodotti dell’orto, e Manet un paio di dipinti (Bouquet d’asperges e L’asperge, 1880); benché si possano coltivare asparagi ornamentali dalle fronde ricadenti e spumose (Asparagus Sprengeri), dedichiamoci agli olezzanti giacinti. Non se l’abbia a male Proust se all’«essenza preziosa» dell’ortaggio che trasformava «il suo vaso da notte in una profumiera», preferiamo quella oleosa e più gradevole al nostro naso dei fiori grassocci che salutano il debutto della primavera.
Il mito, innanzitutto. Nel decimo libro delle Metamorfosi Ovidio narra la vana discesa agli inferi di Orfeo per riportare viva Euridice, la sua disperazione e il triennale esilio; infine, il ritorno al canto in una radura del bosco. Qui, circondato da piante e animali selvatici, il poeta tenta la lira che vuole più leggera: canterà dei fanciulli amati dagli dei e, tra questi, di Giacinto, il giovane spartano amato da Apollo e da lui ucciso, per accidente, durante il gioco (vv. 162-291). Ecco il passo centrale:
«Febo e Giacinto si spogliano, e luccicanti di succo di grassa oliva cominciano una gara di lancio del disco, del disco dalla larga superficie. Per primo Febo, dopo averlo liberato, lo fa volare in aria, e quello irrompe per il cielo e squarcia massiccio le nuvole sulla sua via. Solo dopo molto tempo ricade, pesante, sulla terra soda, mostrando quanto può la perizia unita alla forza. Subito, senza fare attenzione, spinto dal gusto del gioco, il fanciullo del Tènaro si avvia di corsa a riprendere il disco: ma ecco che la terra dura proprio contro il suo viso lo fa rimbalzare, Giacinto!
Tu sbianchi, e altrettanto sbianca il dio e sorregge il tuo corpo afflosciato, e ora cerca di farti rinvenire, ora asciuga la brutta ferita, ora accostando delle erbe trattiene l’anima che vuol fuggirsene. Ma non c’è arte che giovi, non c’è medicina contro quella ferita. Come quando qualcuno in un giardino irriguo, spezza viole, o papaveri e gigli tenuti su dai fulvi steli, subito quelli appassiscono e reclinano il capo divenuto greve, e non stanno più ritti e con le corolle guardano il suolo: così il volto morente si abbandona e il collo privo di vigore è pesante a se stesso e ricade sull’omero.
[…] il sangue che sparso al suolo ha rigato il prato ecco che non è più sangue, e un fiore più splendente della porpora di Tiro spunta e prende la forma che hanno i gigli: solo che esso è rosso, mentre il giglio è argenteo. (Trad. di P. Bernardini Marzolla, Einaudi 1979)
Così, il poeta, commenta la storia di Giacinto: «tu ora sei eterno, e ogni volta che la primavera ricaccia l’inverno e l’Ariete succede ai Pesci acquosi, ogni volta risorgi e rifiorisci sulla verde zolla».
La specie originaria è il giacinto orientale (Hyacinthus orientalis), spontaneo in Siria e nelle regioni dell’Asia minore, ma diffuso anche in Grecia e Dalmazia. I bulbi arrivarono in Italia alla fine del Cinquecento, a Padova informa il preciso Pizzetti, da lì poi in Olanda dove iniziarono le pratiche d’ibridazione e la fortuna del bulbo che conobbe pure una bolla finanziaria – significativa se non pari a quella del tulipano – con prezzi proibitivi per varietà nuove e rare.
Il giacinto orientale è infatti il capostipite degli ibridi – in cui gli olandesi son maestri – dai grandi fiori stellati, fitti stretti gli uni agli altri che sembrano sgomitare per il posto migliore, e dalle livree coloratissime (bianche, gialline, rosa, blu, rosse).
Dal cespo di foglie nastriformi si erge lo stelo dritto dell’infiorescenza di campanelle, ma la spiga è più rada, il peduncolo più pendulo cosicché il fiore si gode appieno fin dal ricettacolo tubolare che sortisce nella corolla dai petali all’indietro curvati: perciò, il portamento è più elegante di quello rigido, compatto degli ibridi che van per la maggiore. Bisogna pur dire che i bulbi olandesi, allogati in piena terra, dopo qualche anno si naturalizzano e tornano al loro vestito più semplice.
Ne esiste anche una varietà indigena, dal look ancor più dimesso: piccole campanelle bianco-verdastre, ma con belle antere viola e un ineguagliabile profumo di vaniglia. È il giacinto romano (Hyacinthus romanus, alias Bellevalia romana) che abita i prati delle regioni mediterranee ed è presente in quasi tutta la penisola.
Anche quest’anno i giacinti son tornati a colorare il prato sofferente per la prolungata siccità. E sì, «c’è una voglia in loro/ d’essere qui/ d’essere tanti sullo stesso fusto» come dice Mariangela Gualtieri. E sì, di nuovo lei, e di nuovo in un’accoppiata vincente. D’altronde ci dona due bei ritratti dei fiori di giacinto, colti nel momento del massimo splendore e in quello del declino. Li prelevo dalla raccolta Le giovani parole, pubblicata da Einaudi nel 2015.
Guarda i giacinti.
C’è una voglia in loro
d’essere qui
d’essere tanti sullo stesso fusto –
e lanciarsi in aroma.
Guarda il giacinto prima dei fiori
quando pare un ordigno
da stringere nella mano
una spoletta verde –
è un fragore annunciato
un urlo che dal tavolino
investirà la stanza, prolungato
penetrante. La danza degli immobili fiori
tutta eleganza
chi celebra? Quale presenza
che il mio occhio non vede
ha un tale trabocco di bellezza
e chiama perentoria al culmine di loro
tutti i fiori?
Chi vi chiami non so – a chi diate obbedienza.
Stan trapassando – i giacinti –
vanno nella scomparsa.
Un odore smielato
precipita le forme
e tutto vira verso qualcosa
che ancora è fiore – ma guastato
in una discesa verso l’indistinto
della terra. Noi amiamo
quel punto di salute d’ogni stelo
il turgido dei fusti – il pieno del colore.
Amiamo qualcosa che non resta.
Niente resta – tutto appare
e si rimpasta per tornare.
E il putrame carico d’amore
tesse insieme alla stella
al ronzare, alle vulve della foresta.
Secondo la vulgata, l’etimo del fiore di giacinto rispecchierebbe la cruenta vicenda mitica: la radice greco-albanese («giak») rinvierebbe al colore rosso del fiore ma anche al sangue. Tragica, violenta è anche la storia dell’esordio narrativo di Luigi Capuana. Volto al femminile, il nome del fiore battezza fin dal titolo l’opera e la sua protagonista dalla vita segnata dallo stupro subito ancor bambina. Merita di essere riletto questo romanzo pubblicato nel 1879 e dedicato a Zola, che diede avvio alla nostrana stagione verista con quel tanto di polemica che non nuoce alla fama di uno scrittore agli esordi.
Al maschile il nome è ancor più insolito, ormai desueto: il che contribuisce a render ancor più mitico Giacinto Facchetti, l’indimenticato terzino sinistro bandiera della grande Inter.