Tre immagini di cinema “ideologico” dalla Berlinale / Guardare Marx a Berlino

16 Febbraio 2017

Quando durante i festival del cinema i miei colleghi che si occupano di critica cinematografica usano l’espressione “cinema ideologico”, solitamente lo fanno in senso dispregiativo, quasi a mo’ di insulto. Il cinema ideologico infatti si macchierebbe di una delle colpe più infamanti per l’atmosfera culturale di oggi: quella di procedere “a tesi”; di lasciare trasparire in modo troppo chiaro la propria collocazione politico-culturale; quella insomma di non essere capace di guardare un’immagine “senza pregiudizi” ma dandone sempre delle sovra-interpretazioni. Il cinema ideologico insomma sarebbe quello che riduce l’immagine a un’interpretazione a senso unico, spesso di stampo politico-sociale. Davvero imperdonabile. 

 

L’ideologia, si sa, è almeno da qualche decennio a questa parte che non gode di ottima salute. Perché come diceva Slavoj Žižek, l’ideologia è un po’ come l’alitosi: ce l’ha sempre qualcun altro. Tuttavia non è ben chiaro che cosa possa essere un cinema non-ideologico: uno oggettivo? Che guarda il mondo così com’è? Uno che sia completamente liberato dai pregiudizi? Esiste un’immagine senza una collocazione parziale del proprio sguardo (ma il cinema poi non è la costruzione di una parzialità del proprio sguardo)? Il discorso sarebbe infatti da capovolgere. Perché non è certo una novità il fatto che l’ideologia si presenti in modo dissimulato – come dicono gli americani: è un wolf in sheep's clothing, un lupo travestito da pecorella – e che la proposizione ideologica per eccellenza sia proprio quella della fine delle ideologie. È un po’ quello che dice Keyser Söze ne I soliti sospetti: “Il più grande inganno del diavolo è stato quello di far credere al mondo che lui non esiste”. E così dell’ideologia. 

 

Il giovane Marx.

 

Al Festival del Cinema di Berlino, comunemente detta Berlinale, che si è svolta in questi giorni in una capitale tedesca avvolta in un clima polare, invece di cinema platealmente ideologico – ma non per questo meno di qualità – se n’è visto parecchio. E la cosa è tanto più interessante non soltanto perché forse è il segno di un cambiamento di atteggiamento riguardo ai punti di vista “di parte” ma anche perché avviene non nell’ultima roccaforte della cultura militante ma nel più grande festival di pubblico del mondo (300mila biglietti, 4200 giornalisti, più di 500mila presenze). Proveremo qui di seguito a indicare tre luoghi e date immaginari che sono passati in questi giorni sugli schermi di Berlino e che crediamo siano stati in grado di rimettere al centro una narrazione positiva dello sguardo “di parte”. 

 

Bruxelles, 1848: ovvero il momento in cui Karl Marx e Fredrich Engels scrivono il manifesto del Partito Comunista. Siamo al termine di Le jeune Karl Marx di Raoul Peck, ovvero uno dei film più attesi di questa edizione della Berlinale: biopic sentimentale, fatto da un regista haitiano tra i più intelligentemente politici degli ultimi anni (suo un bellissimo film su Lumumba di qualche anno fa), ricostruisce la gioventù di Karl Marx degli anni Quaranta dell’Ottocento, fino appunto alla redazione del più famoso manifesto programmatico della storia moderna. Fare un film su una figura così ingombrante come Marx è un progetto che metterebbe paura a chiunque (Ėjzenštejn, per dire, non c’era riuscito) eppure Raoul Peck riesce a passare dalla porta stretta che vi è tra la fedeltà alla ricostruzione storica (il film è meticolosissimo anche nei dettagli più secondari) e un racconto di estrema semplicità e efficacia su un giovane intellettuale e militante che attraversa uno dei momenti cruciali della storia europea.

 

L’idea è proprio quella di togliere a Marx quelle sembianze da icona che ci sono state tramandate dalla celebre fotografia con la barba lunga e di ricollocarlo invece nella contingenza della storia. Ecco che allora Marx e Engels – il centro del film è la storia della loro amicizia – sono due giovani bohémiens che passano da Parigi a Londra, da Bruxelles alla Germania per organizzare e conoscere quel proletariato che per la prima volta si era affacciato in quegli anni sulla scena della storia e stava cambiando definitivamente la realtà che si aveva di fronte agli occhi. Ma nel film non ci sono solo le fabbriche di Manchester o le assemblee della Lega dei Giusti, i dibattiti con Proudhon e quelli con Wilhelm Weitling: ci sono anche i bar frequentati dagli operai tra risse e fiumi di alcol, le burrascose relazioni sentimentali e le improvvise colluttazioni con le autorità di giustizia. Perché come è stato scritto da Lorenzo Rossi su Cineforum il rischio di un film che vuole rappresentare dei personaggi tanto rilevanti dal punto di vista storico è quello di pensare che abbiano avuto una sorta di incontro inevitabile con il proprio destino.

 

Il giovane Marx.

 

È il tipico inganno di vedere le cose après-coup, a partire dai loro effetti: ed ecco che allora l’impressione che abbiamo è che quello che è accaduto non poteva non accadere. Se noi però portiamo il nostro sguardo sul presente della scelta – come avviene in questo film – le cose acquistano un aspetto molto diverso, perché tutto “sarebbe potuto essere diverso da quello che poi è stato”. Vedere allora Marx seduto a un tavolo che scrive “un fantasma si aggira per l’Europa” ha l’effetto non tanto celebrativo di illustrare un momento che poi si rivelererà storico, quanto quello di far vedere che la storia si costruisce sempre a partire da una radicale contingenza. Insomma, le cose sarebbero anche potute andare diversamente e in ogni singolo momento la scelta si è sempre compiuta sullo sfondo di una sospensione radicale di ogni garanzia o necessità. Ecco che allora lo sguardo che Peck ci spinge ad adottare non è quello di chi ha costruito la storia perché “non poteva che andare così”, ma di chi è stato in grado di farlo solo perché vi era immerso completamente

 

È per questo che Le jeune Karl Marx è un film tanto riuscito, nonostante la difficile restituzione della ricchezza del dibattito filosofico di quegli anni (che rimane quasi sempre sullo sfondo), nonostante il “vero” Marx – quello che ha davvero innovato la modernità con un’analisi inedita nel metodo e nel merito del modo di produzione capitalistico – inizi soltanto dopo il 1848, quando cioè il film finisce. Nel film quello che emerge è molto più semplicemente il fatto che Marx e Engels volessero qualcosa che andasse oltre a una prospettiva blandamente egualitaria di fratellanza tra gli uomini, come veniva espressa ne La lega dei giusti (organizzazione socialista-utopista di cui il film ricostruisce splendidamente il momento del Congresso del giugno 1847 in cui cambia il nome in Lega dei Comunisti) e che il comunismo dovesse porre il problema di un soggetto sociale che per la prima volta mostrava nella storia i paradossi e i limiti dell’egualitarismo borghese: il proletariato. Alla fine, quando la lettura di alcuni passi de Il Manifesto del Partito Comunista si sovrappone a dei tableau vivant di proletari del 1848 che guardano in macchina, il film termina con uno splendido cartello che dice quella che è forse la verità più decisiva del film: Marx dopo il 1848 inizia a lavorare alla sua opera più importante, Il Capitale, che rimarrà incompiuta, proprio perché l’oggetto di cui si occupa è costantemente in movimento nella storia. L’opera di Marx insomma non è una dottrina, ma un’opera aperta, e ciò che Le jeune Karl Marx ci spinge a fare è di non ridurre la vita Marx a un’agiografia ma di essere fedeli allo spirito della sua vita: cioè, pensare quell’oggetto storico che chiamiamo capitalismo non con la freddezza e il distacco del ricercatore, ma con la partecipazione di qualcuno che sa che di quella storia è inevitabilmente parte. 

 

Madrid, 2015/2016. Sono i mesi in cui appare sulla scena politica spagnola un oggetto non identificabile che scompagina (e verosimilmente continuerà a farlo anche per gli anni a venire) tutto il discorso politico costruito attorno alla crisi di quel paese, e che prende il nome di Podemos. Fernando León de Aranoa, regista spagnolo già autore di una serie di importanti film di fiction degli anni Duemila (l’ultimo, di due anni fa, è stato Perfect Day), decide di farci un documentario provando a raccontare dall’interno il farsi di quell’esperienza. Quello che ne viene fuori sono quasi due anni di riprese in cui de Aranoa segue quotidianamente la vita di un partito atipico e che si dimostrerà radicalmente innovativo per quanto riguarda sia le pratiche sia i linguaggi. Política, manual de instrucciones in poco più di due ore ci insegna allora non solo a familiarizzare con i protagonisti di quell’esperienza ma anche ad alfabetizzarci riguardo a che cosa voglia dire fare parte di un organizzazione politica oggi. Provate a chiedere a qualunque persona che tipo di associazioni mentali provochino termini quali congresso, assemblea, mozione, documento, dibattito etc., se non metterà mano alla pistola, poco ci manca. Il film di de Aranoa invece riesce nella non facile impresa di dare forma d’immagine a una cosa così inafferrabile e tuttavia cruciale come il desiderio politico. E di renderlo cool

 

Podemos.

 

Ma cos’è Podemos? E quali sono le sue caratteristiche principali? Nato in seguito al movimento degli Indignados (o anche movimento 15-M dato che le proteste iniziarono il 15 maggio 2011 a Puerta del Sol a Madrid) Podemos si è sempre considerato come l’ideale prosecuzione di quell’esperienza: è stato infatti grazie a 15-M che in Spagna per la prima volta si è riusciti a dare visibilità a una serie di rivedicazioni politiche derivanti dalla violentissima crisi economica che ha colpito il paese dopo il 2008. Tuttavia Podemos si è da subito anche attirato una serie di critiche da sinistra dato che ha rotto alcune liturgie, o come dice nel film Íñigo Errejón – il giovanissimo intellettuale di riferimento, che è il numero due del partito dietro a Pablo Iglesias – alcuni tabù che hanno caratterizzato la sinistra europea negli ultimi decenni: innanzitutto la dicotomia destra-sinistra dato che Podemos si presenta già da subito come un partito che non è “né di destra né di sinistra”; poi il rovesciamento della relazione accumulo di forza nella società-elezioni, dato che il momento elettorale viene considerato come un passo fondamentale nella strategia del partito; e infine la centralità del ruolo della leadership in un discorso politico altamente mediatizzato. 

 

In Italia queste parole non devono certo suonare come del tutto inedite, dato che sia Matteo Renzi sia il Movimento Cinque Stelle se ne sono fatti portatori per anni. Tuttavia Podemos ne cambia radicalmente il segno, perché – anche a dispetto dei tabù infranti – le mette al servizio di contenuti esplicitamente e classicamente di sinistra (dalle redistribuzione della ricchezza agli investimenti pubblici in economia, dalle 35 ore di lavoro a settimana alla pensione a 65 anni). Ciò che insomma emerge è una consapevolezza di come il cambiamento della forma e dei linguaggi del discorso politico non necessariamente si debba portare dietro l’adozione di un’agenda neoliberista o l’abiura delle tradizioni politiche di tradizione socialista e comunista. Anzi, i discorsi che vengono fatti dai leader di questo partito colpiscono soprattutto per la maturità, la lucidità e l’assoluta complessità (che vanno inevitabilmente a cozzare con l’atmosfera sloganistica e intellettualmente degradante delle “leopolde” nostrane). Ne è un esempio la riflessione che viene fatta, sempre dal giovanissimo Íñigo Errejón – che si potrebbe dire, sia il vero protagonista del film, persino più di Iglesias – quando dice che superare la dicotomia destra-sinistra non vuol dire farsi affascinare dalle sirene di un discorso post-ideologico, ma semmai l’esatto contrario. Seguendo la lezione del filosofo argentino Ernesto Laclau, Errejón si dimostra consapevole del fatto che possano esserci altre parole d’ordine e altri termini che vengano “ideologizzati” all’interno del campo politico. Sinistra, semplicemente, non era più in grado di farsi veicolo dei desideri e delle capacità di organizzazione di quegli strati sociali che sono stati colpiti dalla crisi e che in Spagna, contrariamente a quanto è avvenuto in altri paesi, invece che votare per dei movimenti nazionalisti e sovranisti hanno portato consenso a un’esperienza politica radicalmente di sinistra. 

 

Germania 1972. Rainer Werner Fassbinder viene ingaggiato dalla Der Westdeutsche Rundfunk (WDR), l’emittente radiotelevisiva pubblica locale del Land tedesco della Renania Settentrionale-Westfalia per fare una serie televisiva a tema famigliare. Una family series da prime time: quindi un’operazione che dovesse essere appetibile e comprensibile per un pubblico generalista e popolare (oggi lo si chiamerebbe un “prodotto commerciale” vista la moda di portare il lessico del marketing anche nel mondo del cinema). Tuttavia Fassbinder decide non solo di ambientarla a Colonia, nel pieno delle industrie della Ruhr (in realtà venne girata tra Colonia e Mönchengladbach) ma di ambientarla in un ambiente sociale risolutamente blue-collar. Quello che ne viene fuori è una sorta di serie Tv operaia, dove i protagonisti si dividono tra lavoro, rivendicazioni sindacali, scioperi etc. e una vita famigliare dove si devono affrontare problemi personali, sentimentali, che riguardano la crescita dei figli o le amicizie di una vita. L’idea insomma è quella di fare un progetto che potesse parlare della vita della classe operaia della Germania (Ovest all’epoca) nella sua totalità. Il titolo ha un che di geniale: Acht Stunden sind kein Tag, ovvero “otto ore non fanno un giorno”, un’espressione che tiene insieme la centralità del lavoro (ma il senso è anche che non basta “spaccarsi la schiena” per otto ore per riuscire a campare) con il fatto che il lavoro non è tutto ciò che c’è nella vita di una persona. Insomma, non solo di lavoro si vive, in tutti i sensi. 

 

Fassbinder.

 

A rivederla oggi (alla Berlinale ne è stata presentata una versione restaurata che uscirà presto in DVD) l’effetto è davvero stupefacente: è come se Un medico in famiglia fosse pieno di momenti dove i lavoratori parlano di sabotaggio, dove si discute per lunghe scene di rivendicazioni sindacali, di spese d’affitto, di organizzazione della produzione (che i lavoratori vorrebbero “autonoma” ma che il management invece vuole astutamente controllare) in una costante negoziazione dei lavoratori tra di loro e dei lavoratori con i padroni della fabbrica. Ma Fassbinder non fa certo un cinema didattico da realismo socialista, e i momenti famigliari sono in realtà tra i più efficaci dell’intera serie. Perché le questioni sociali entrano in modo traversale in tutti gli aspetti di vita, a cominciare da una nonna che a 70 anni ricomincia una relazione da zero e si comporta come un’innamorata adolescente, o da una donna che vorrebbe lasciare un marito che la picchia e non la rende felice. Insomma non solo sindacato, ma anche divorzio, sessualità, i problemi di una famiglia che è a un tempo ostacolo alla felicità e a volte anche mezzo per raggiungerla parzialmente.

 

Fassbinder.

 

Durante la proiezione delle 5 puntate, che in totale durano più di otto ore e che alternano una comicità televisiva per famiglie a momenti drammatici assai aspri, dove lo shock per lo spettatore è rappresentato sia dalla rappresentazione della violenza dei padroni ma anche da diverse scene di nudo (persino maschili) abbastanza insolite per un programma di una televisione generalista dei primi anni Settanta, sembra davvero di essere finiti in uno spazio fuori dal tempo. Da un lato sembrava di essere in un passato lontanissimo, non soltanto per le ambientazioni ma anche per un ritmo che oggi si direbbe assolutamente anti-televisivo talmente è prolisso. Dall’altro vedere che in una serie per famiglie ci sia Hanna Schygulla che spiega che cos’è il plus-valore o che il protagonista Jochen (interpretato da Gottfried John) si metta a decantare le doti dell’autogestione operaia con questo livello di profondità (senza che mai si perda di vista l’efficacia della messa in scena televisiva) pare davvero di essere finiti in un mondo avveniristico e utopico. Ma d’altra parte la stessa cosa la si potrebbe dire anche di Marx, anche oggi quando si ritorna a leggere Il Capitale dopo 150 anni dalla pubblicazione del primo libro in Germania. Non si tratta di nostalgia del passato quanto di fare un passo indietro per poi farne due avanti: ovvero di un ritorno a Marx verso il futuro

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