Violenza e sesso / Giulio Mozzi, Le ripetizioni
Ho finito di leggere il nuovo libro di Giulio Mozzi, Le ripetizioni (Marsilio 2021), con uno stato d’animo controverso, misto di rammarico e di perplessità. Mozzi è un intellettuale di vaglia, uno scrittore solido, una figura di rilievo nel panorama dell’editoria italiana; e in effetti, cominciando la lettura, avevo avuto l’impressione di trovare pagine notevolissime, tra le migliori che la letteratura italiana abbia prodotto nel nuovo secolo. Purtroppo, nel seguito, altre pagine hanno stravolto il primo impatto. Non voglio tergiversare. Il punto è che a più riprese, nel corso del romanzo, ci s’imbatte in situazioni e descrizioni improntate a un’efferatezza sadica e a un’oscenità smaccata che francamente io trovo, nel senso etimologico della parola, repellenti. Respingenti. Peraltro, non essendo ignaro dei miei limiti, io sarei anche tentato di addossarmi tutta la responsabilità della delusione, e di far mio quanto Nane Oca dice di sé nell’ultimo volume della serie di Giuliano Scabia (Il lato oscuro di Nane Oca, Einaudi 2019): «Sono proprio macarón, ingenuo e chierichetto». Sono consapevole da molto tempo che il mio gusto comprende una misura non piccola e verosimilmente un po’ obsoleta di sobrietà, di moderazione, di castigatezza. Quando sono in gioco sesso e violenza, trovo quasi sempre che i sottintesi e le allusioni siano più efficaci delle espressioni dirette e insistite, a tacere delle iperboli e delle fissazioni ossessive. Però, fatta salva questa premessa, forse c’è qualcos’altro da dire, che va al di là delle personali preferenze o idiosincrasie. Del resto, per quanto pudico e impressionabile io possa essere, ho sempre divorato tutti i romanzi di Stephen King che mi sono capitati fra le mani.
A mio avviso la questione sta in questi termini. Le rappresentazioni scabrose e/o violente funzionano bene solo in un regime di marcata identificazione emotiva con i personaggi (con un personaggio, di solito). Quando invece la narrazione tende a sollecitare un atteggiamento di lettura meno empatico, più straniato, – quando cioè l’attenzione del lettore è alimentata più dalla curiosità intellettuale che dalle emozioni, gli improvvisi indugi sulle performances erotiche dei personaggi risultano vane e ridondanti, e le scene di crudeltà paiono il frutto di un arbitrario, perverso accanimento. Per mettersi a fare concorrenza alle cose raccapriccianti che a bizzeffe accadono nel mondo reale ci vorrebbero motivazioni più robuste del piacere di épater les bourgeois. E quanto al sesso, a volte accade che il lettore, annoiandosi, venga colto dall’impulso di appellarsi direttamente ai personaggi: Per favore, non potreste andare a scopare in un altro libro?
Provo a dirlo in altri termini. La violenza a freddo, così come il sesso a freddo (specie se si tratta, come qui, di pratiche brutali o degradanti), necessita di una cassa di risonanza adeguata. Una volta che lo scrittore abbia scelto di evitare la strada dell’incremento graduale dell’attesa e della suspense, quando cioè abbia rinunciato a investire sulla fase preparatoria, la repentinità del cambio di registro dovrebbe essere compensata dagli effetti della sintesi e delle ellissi. Di contro, lavorare sull’accumulo rischia di provocare non paura o eccitazione o turbamento, ma, semplicemente, saturazione e disgusto.
In questo libro di Mozzi la zona incriminata fa capo al personaggio di Santiago, un misterioso giovane che, oltre a intrattenere con il protagonista Mario un rapporto di spietata, incondizionata dominazione, si diletta di sgozzare cagnolini nella vasca da bagno, in media uno alla settimana, spesso usandoli come trastullo carnale. Nelle intenzioni dell’autore, il finale del romanzo dovrebbe poi toccare un ulteriore picco di orrore; a mio avviso la climax in realtà fallisce, ma poco importa. Sorvolo su aspetti minori, come le sevizie cui Viola, fidanzata di Mario, si sottopone, volontariamente e dietro compenso, ad opera di facoltosi e viziosi sconosciuti. Qui non mi pare censurabile l’idea, ma il suo sviluppo: attardarsi nei dettagli smorza l’immaginazione cooperativa del destinatario. Peccato, perché l’immaginazione è, per altri versi, al centro dell’invenzione romanzesca.
Il protagonista delle Ripetizioni è infatti un personaggio che si muove su un sottile crinale fra realtà e finzione – una finzione che non si sa se tenga più della falsificazione o della fantasticheria. Valga come esempio il capitolo iniziale. Di passaggio a Firenze, nei giardini di Boboli, Mario è colpito – o meglio, racconta di essere stato colpito – dal pungente profumo del bosso. Quella percezione olfattiva funziona come una madeleine, riportandolo prima a una gita compiuta poche settimane prima ad Arquà, alla casa del Petrarca sui Colli Euganei, e quindi molto più indietro nel tempo, al giardino del castello di San Daniele del Friuli, all’epoca della sua infanzia. Secondo l’ortodossia proustiana, il profumo del bosso innesca un imponente recupero memoriale: i giochi all’aperto, la casa della nonna, l’arredamento delle stanze, le stoviglie, i piatti che la nonna cucinava, i libri, le prime letture. Preso dal vortice dei ricordi, Mario si reca in pellegrinaggio a San Daniele, a rivedere il giardino del castello. E lì scopre che di bossi, in quel luogo e nei dintorni, non ce ne sono. Non ce ne sono mai stati: glielo assicura un vecchio giardiniere, che è sempre vissuto in quel luogo. «Ma capisci, capisci che cosa mi è successo?» dirà Mario al fratello minore. «Mi sono tornati dei ricordi, vecchi di trent’anni e passa, mi sono tornati dei ricordi veri, verissimi, e sono tornati usando come veicolo un ricordo falso».
Un altro esempio. Sfogliando una rivista, Mario riconosce un’installazione alla Biennale di Venezia del 1972, che consisteva in una apparecchiatura per fototessere. L’artista invitava i visitatori a farsi uno o quattro scatti, che poi venivano incollati alla parete (di fatto, l’installazione era prodotta dai visitatori). Ci era passato anche Mario, allora quattordicenne; ora, a decenni di distanza, è preso dalla smania di recuperare quelle fotografie. Quando alla fine ci riesce, frugando negli scatoloni che l’invecchiato artista ha conservato da qualche parte, scopre che nell’ultimo scatto, accanto al suo volto, c’è quello sorridente di una ragazza che lui è convinto di avere conosciuto solo vent’anni dopo.
La vita di Mario viene così pezzo a pezzo ricostruita (decostruita?), lungo una serie di capitoli tematici: una quarantina, tutti contraddistinti da un titolo che comincia per Storia di, seguito dal nome di un personaggio (Lucia, Bianca, Viola, Agnese, Santiago, il Capufficio, eccetera) o di altro (il bosso, le fototessere, i il ballo alla sagra, i viaggi in treno, e così via), nonché, per i temi principali, da un eventuale numero d’ordine (Storia del Gas 4, Storia di Bianca 6). A caratterizzare la biografia del protagonista è soprattutto la pluralità di piani: è una vita doppia, o tripla, nella quale si sovrappongono (più che intrecciarsi) relazioni vissute quasi come vasi non comunicanti. Il fidanzamento con Viola, di cui il protagonista ignora o finge di ignorare l’impulso (la coazione) alla degradazione sessuale; il tormentato rapporto con Bianca, che ha una figlia, non si sa se di Mario o no, e che diventa schizofrenica; l’amicizia con il Gas (acronimo di Grande Artista Sconosciuto), cui tocca l’inattesa sorte di dipingere un capolavoro; il legame con Santiago, di cui s’è detto, mentre dallo sfondo emergono figure dal rilievo pubblico, come il Grande Terrorista Internazionale.
Alcuni brani, come dicevo all’inizio, sono davvero notevoli. In particolare, il personaggio di Bianca è ritratto con rara incisività, sia per quello che fa, sia per i discorsi che tiene, intrisi di un disperato, esasperato raziocinio; e non meno efficaci risultano, di contro, i silenzi di Mario. Ciò detto, però, non si è ancora detto molto. Perché al di là della trama, frammentaria e ambigua, a tratti sfuggente (massime nel capitolo Una lettera), al di là delle ostentate ricorrenze – quasi tutto quello che accade, accade il 17 giugno, compleanno dell’autore – e della personalità passiva e introvertita del protagonista, Le ripetizioni sono anche una narrazione intessuta di riferimenti metaletterari, di riflessioni sul rapporto fra immagine e realtà (con sintomatica insistenza sulla fotografia), di funambolici giochi tra verità e menzogna, di ammicchi autobiografici (o auto-finzionali). Un’opera dalla struttura complessa, intenzionalmente confusiva: ora affascinante, ora insopportabile, a volte farraginosa, mai banale.
Banale sarà invece, temo, la conclusione di queste note. Fino ad oggi Mozzi aveva pubblicato solo raccolte di racconti; Le ricorrenze è il suo primo romanzo. Alla luce del risultato, ci sentiamo di confermare che Mozzi è uno scrittore di racconti. Lo aspettiamo al prossimo libro.
Giulio Mozzi, Le ripetizioni (Marsilio 2021, pp. 358, € 17).