Garland e Zellweger / Judy: quando muore una stella

14 Febbraio 2020

Per la “sua” Judy Garland, Renée Zellweger ha già portato a casa quindici premi: Golden Globe, Screen Actors Guild, Indipendent Spirit… Non ultimo, ovviamente, l’Oscar come migliore attrice protagonista – che si aggiunge così a quello per Miglior attrice non protagonista conquistato nel 2004 con Ritorno a Cold Mountain

Un momento di riscatto, dopo una pausa di sei anni (2010- 2016) e neanche un titolo di rilevo dal 2004 (Che pasticcio, Bridget Jones!, bello o brutto che sia, è stato il suo ultimo successo al botteghino): per una delle dieci attrici più pagate di Hollywood non è certo questione di poco conto. 

 

Bersagliata sempre più spesso dai pettegolezzi (in particolare sui presunti e da lei sempre negati interventi di chirurgia estetica), Zellweger aveva ormai diradato la propria presenza nell’ambiente dello showbiz per evitare di essere vittima dei suoi impietosi meccanismi: «Assistere al fallimento di una donna che hanno amato così tanto è da sempre lo sport preferito dagli americani», dice Cory Ellison (Billy Crudup) in The Morning Show, la serie di Apple TV+ con Jennifer Aniston e Reese Witherspoon (due delle altre attrici tra le dieci più pagate). È una sintesi perfetta. 

 

Zellweger, pazientemente, si è sottratta al massacro e ha saputo aspettare il ruolo giusto. Chi dunque meglio di Judy Garland, la bambina con la faccia rugosa amatissima dal pubblico ma distrutta dal sistema, per riportarla all’apice? 

 

Renée Zellweger.


«Non avevo mai chiesto di diventare un’attrice. Non sono mai stata bella», diceva di se stessa Judy Garland. Tutto inizia quando viene notata un agente della MGM: dopo un provino Judy diventa una loro proprietà. Viene cresciuta alla scuola della MGM con altri ragazzini prodigio, per lei le parole di Louis B. Mayer sono ordini, il regime è militare. Fino ai 13 anni tutto va (abbastanza) bene, poi arriva la pubertà e Judy inizia a ingrassare. Banditi hamburger, pizza e patatine, concesso solo del brodo. Lei ruba il cibo di nascosto. Mayer puntualmente la scopre e la redarguisce: Judy, brutta e grassa.  

Poi il Mago di Oz. Per la parte di Dorothy era stata scelta un’altra bambina prodigio, la più amata d’America: Shirley Temple. Ma Temple è una proprietà della Fox che non cede la sua attrice di punta. Judy venne ingaggiata al suo posto: ha 16 anni, le tingono i capelli e le rifanno il naso. Gira il film come una sorvegliata speciale, dormendo negli studios con una ragazza pagata apposta per guardarla a vista: vietato mangiare. 

 

È qui che si apre il film di Rupert Goold (alla sua seconda regia cinematografica dopo True Story del 2015, protagonista James Franco): con la giovane Judy che passeggia tra i set del Mago di Oz con il suo pigmalione-aguzzino Mayer. La pellicola, tratta dal testo teatrale End of the Rainbow di Peter Quilter (da noi portato in scena da Monica Guerritore), si concentra però sull’ultima tournée (1968) di Garland, alternando a questa rentrée una serie di flashback sul periodo nel serraglio MGM.

 

A 19 anni Judy Garland ha già avuto tre esaurimenti nervosi e un marito. Di mariti ne seguiranno altri quattro, ma gli esaurimenti vinceranno comunque il conteggio finale. «Scoprii che l’unico modo per dimagrire erano le pillole – racconterà a Oriana Fallaci – Allora divenni sottile, ma non potevo dormire. Così prendevo le pillole per dormire. La mattina non riuscivo a svegliarmi e allora prendevo le pillole per svegliarmi. Il mio sistema nervoso era a pezzi. Allora prendevo anche le pillole per stare tranquilla. Ci sono pillole per ogni cosa in America, anche quelle per sentirsi felici: ma quelle con me non hanno mai funzionato». 

 

Judy Garland.


Nel 1954 Garland torna al cinema, diretta da George Cukor e in cerca di rivalsa, con È nata una stella. Gli anni precedenti sono stati terribili, nerissimi: il primo tentativo noto di suicidio è del 1947, mentre nel 1950 si taglia la gola. Per lei, celebre e amata per la voce angelica, è un gesto carico di una deflagrante e disperata simbologia. Spesso sul set viene sostituita in corso d’opera: proprio nel 1950 era stata rimpiazzata da Betty Hutton in Anna prendi il fucile (qualcosa del genere succederà ancora nel 1967 nell’ultimo, esausto, tentativo di riapprodare al cinema con La valle delle bambole). 

Con È nata una stella, comunque, l’attrice sembra aver riacciuffato quel successo che da tempo l’aveva abbandonata. La sera della cerimonia degli Oscar Judy è in ospedale, dopo aver partorito Joseph, il suo terzogenito. Attorno a lei, una troupe televisiva è pronta a riprendere il suo discorso di ringraziamento per il premio come migliore attrice: è la favorita. La statuetta va a Grace Kelly per La ragazza di campagna. Il cinema sta cambiando: per Judy non c’è più spazio. 

 

Eppure, c’è ancora un pubblico che la cerca, vuole sentire la sua voce, vederla sul palco. La ex bambina prodigio del Mago di Oz si esibisce con i nervi a pezzi: «Buonasera gente. Ho paura», così esordisce nei suoi concerti. Gli spettatori credono sia una gag. Nel 1963, forte del successo di Judy at Carnegie Hall – tredici settimane prima in classifica e due Grammy (compreso quello nella categoria “Album of the year”, che fa di lei la prima donna ad averlo conquistato) – Garland abbandona definitivamente il grande schermo e tenta lo sbarco in TV. Sui televisori americani va dunque in onda il Judy Garland Show, che conta fra i suoi ospiti anche Barbra Streisand, allora ventunenne al suo primo album. Prima della trasmissione Judy va a trovare Barbra nel suo appartamento e le dice: «Non lasciare che ti facciano quello che hanno fatto a me». Streisand, che ha appena cominciato, non ha idea di cosa l’altra stia parlando.

 

 

Di tutto questo, tuttavia, nel patinato biopic di Goold c’è poco: l’operazione resta sempre in superficie, non c’è mai un affondo. Judy si conferma un film perfetto per rendere giustizia a Renée Zellweger, mentre Judy Garland – per assurdo – rimane in secondo piano. 

Il regista opta per un taglio intimistico, nel solco di esempi recenti quali Stanlio & Ollio (2018) di Jon S. Baird (come Judy prodotto da BBC Films) o lo sfortunato Le Stelle non si Spengono a Liverpool di Paul McGuigan (2017), inedito in Italia sul grande schermo e arrivato direttamente on demand. Il film di McGuigan è un ottimo esempio di biopic ben confezionato, composto e sincero, che porta in scena il toccante ritratto degli ultimi giorni di una stella del cinema dalla carriera e dalla vita poco fortunate, Gloria Grahame, interpretata da una Annette Bening in stato di grazia. Il biopic su Garland risulta invece un film senza slanci e senza idee. In primo piano sempre e solo Zellweger che gigioneggia in una sua dispendiosissima versione di Tale & Quale Show. Si potrebbe dire che ha un allure televisivo, ma dopo prodotti come Fosse/Verdon – dove l’equilibro tra performance attoriale e scrittura trova una sintesi d’intesa perfetta grazie a una chiave di lettura che sa essere tanto creativa quanto efficace nel restituire l’umanità dei personaggi, interpretati da Sam Rockwell e Michelle Williams – questo non è più un termine di paragone adatto.

 

Renée si mimetizza da e in Judy, la interpreta in maniera simbiotica e la soffoca nel compiacimento della pantomima da Oscar. Non c’è un solo attimo in cui ci dimentichiamo di star assistendo a una performance.

Zellweger per l’occasione ha anche inciso i dodici brani che vanno a comporre la colonna sonora, interpretazioni di alcuni dei classici del repertorio di Garland, da Come Rain or Come Shine a The Trolley Song (da Meet Me in St. Louis di Vincente Minnelli: sul set di questo film è nato il loro amore), da Get Happy a – ovviamente – Over the Rainbow. Nel film fa il playback di sé stessa che imita che qualcun’altra. È il tipo di artificio che piace a Hollywood – che difatti, puntualmente, la premia – perché in maniera consolatoria e rassicurante dà l’illusione di un risarcimento, alla povera Judy e (contemporaneamente) alla rediviva Renée. 

Quella di Judy Garland non è stata un'esistenza da musicarello, ma da film horror. E di quella vita “over the rainbow” in questo biopic resta poco: solo una cartolina dai colori squillanti. 

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