Leo Carax. Holy Motors
“La copia della copia della copia”: così Verónica, moglie di René, il pubblicitario che in No - I giorni dell’arcobaleno di Pablo Larraín gestisce la campagna referendaria contro Pinochet, definisce la dinamica di uno scontro che da politico si è trasformato in mediatico. Nel film siamo alla fine degli anni ’80, il postmoderno è già in marcia, la pubblicità definisce da tempo l’idea di realtà e ogni suo messaggio può tranquillamente coincidere con il suo opposto, poiché a contare non sono le cause o le conseguenze di un’azione, ma l’attimo, l’infinito tempo presente della comunicazione.
Holy Motors di Leo Carax, in maniera inattesa e sorprendente (come inattesa e sorprendente è l’uscita nelle sale italiane, a un anno dalla presentazione a Cannes), arriva alle stesse conclusioni, ampliando però la riflessione sulla ripetizione come unica forma di discorso contemporaneo ai concetti di esistenza, di percezione del reale e naturalmente di cinema.
La riproducibilità dell’esistente, che già in un film di un paio di anni fa, Alpeis di Yorgos Lanthimos (2011), superava la morte con la semplice sostituzione di corpi con altri corpi, qui diventa un lavoro scandito da orari precisi, da consuetudini quotidiane: grazie alle presenza di un ur-personaggio che vale come primo e ultimo uomo sulla Terra (non a caso muore e resuscita e poi va a vivere coi primati), in Holy Motors il mestiere di vivere, interpretato in forma letterale, genera una catena di montaggio di esistenze, vite che si susseguono, si sdoppiano, si accavallano, per dare come risultato una somma zero in cui ciascuna vale un’altra e al tempo stesso emerge come unica e irripetibile.
Di vita in vita, di episodio in episodio, Leo Carax trasforma porzioni minime di durata e messinscena in pillole narrative esemplari, al passo con la vorace richiesta di emozioni della nostra società e a un passo dall’essenza di un linguaggio, quello del cinema, che si esprime per quadri e frammenti. Ogni appuntamento del protagonista, che viaggia in limousine e cambia trucco e costumi di continuo, è ripetibile e superabile; soprattutto, ogni sua espressione corporea è riconducibile all’unica esistente, quella dell’attore francese Denis Lavant, che stravolto, mutato, truccato e plasmato è come il risultato della performance di motion capture che si vede all’inizio del film: un corpo che vale per tutti, che può diventare ogni cosa, un nessuno che vale per centomila.
Nella fluida successione degli episodi, o se vogliamo dei singoli film minimi seguiti da altri film minimi, Holy Motors realizza la rifrazione del molteplice nell’uno, del tutto nel niente, e diventa la rappresentazione più chiara ed estrema del mondo, forse del modo, in cui abbiamo deciso di vivere. Come una sequenza già in corso, muovendosi al ritmo del giorno che nasce, muore e poi ricomincia, Carax sembra cogliere il suo stesso film in corso d’opera, come riproduzione tecnica di un processo così meccanico da diventare naturale: ogni giorno una vita diversa da interpretare, eppure nessuna vita da vivere veramente.
Holy Motors è composto di episodi sommati ad altri episodi, di emozioni compresse nello spazio e nel tempo, messe in scena con un’artificiosità tale da aprire il cinema alle infinite profondità dello spirito e del pensiero astratto. Dal massimo dell’artificio al massimo dell’autenticità, insomma: Carax comprime il miracolo del cinema, dell’arte anzi, in una scena di musical sui tetti di Parigi; in una discussione crudele (straziante proprio perché gratuita) tra un padre e una figlia fasulli; in un dialogo in punto di morte tra un uomo e la nipote, che in realtà non sono un uomo e una nipote ma proprio per questo recitano il dolore in modo assoluto; nel breve dialogo tra i due «interpreti» di vite altrui, per una volta fuori dalla parte.
Holy Motors segna così l’incontro del cinema con l’anima del mondo, al di là di ogni modernità, postmodernismo o surrealtà. Ed è soprattutto un’elegia grottesca e contraddittoria, tragica e insieme comica, per il cinema e i suoi spettatori, uomini e donne che a pensarci bene fanno qualcosa di molto simile al mestieraccio di Denis Lavant, e cioè vivere vite che non sono la loro. Sarà per questo che il film comincia con un pubblico intento a guardare un film e lo stesso Carax che, dall’alto, dopo aver aperto un’ipotetica porta della percezione, osserva tutti e al tempo stesso si considera parte del gioco. Chi di noi, in definitiva, può dire di essere libero, unico e solo?