Alla Tate Modern fino al 10 settembre / Giacometti: all'inizio del mondo
Somiglianza e differenza: siamo più simili o più diversi rispetto agli altri esseri umani che ci circondano? L’interrogativo ha affascinato filosofi e artisti di tutte le epoche e tutte le culture, ma universalismo e unicità restano i due poli entro i quali si muovono le relazioni umane: continuità e identità ci mettono in contatto e ci distinguono. È questa, forse, la migliore linea-guida per ripensare oggi – dopo Adorno, dopo Canetti, dopo Deleuze: da dove siamo noi, suoi postumi di cinquantun’anni – all’arte di Alberto Giacometti. Il particolare distintivo era la sua ossessione, perché non poteva tollerare la riduzione dell’esperienza alla riproduzione del mondo: guardare significava per lui cogliere l’elemento irriducibile alle logiche della somiglianza formale.
Guardare era, perciò, prima di tutto un fatto materiale: significava capire come le cose sono fatte per farle parlare attraverso la materia. Gli occhi, diceva, attirano la nostra attenzione, quando guardiamo una faccia, perché sono fatti di una materia diversa dal resto della faccia. Ciò li rende speciali, che è altra parola-chiave dell’universo di Giacometti: apparentemente alla ricerca di ciò che è distintivo nel reale, la sua arte va sempre oltre il reale, che assume forma, consistenza e infine realtà solo attraverso lo sguardo che lo vede, lo riporta e infine lo crea. Ciò che viene riprodotto, allora, non è un reale oggettivo e preesistente all'opera, ma proprio lo sguardo che deposita il mondo nell’opera. Vista da lontano, la Tête qui regarde del 1929 sembra un quadrato di gesso o di terracotta, dipende dalla versione che scegliamo, ma l’effetto è lo stesso, una testa cicladica irrigidita e ancora più inespressiva: da vicino, però, due leggere pressioni sulla materia, a formare due incavi, danno spessore e movimento a qualcosa che sembrava forma pura, astrazione geometrica.
Aveva già 28 anni, al tempo di questa testa, essendo nato nel 1901. Si doveva liberare del padre, Giovanni, pittore post-impressionista che lo aveva iniziato all’arte come gioco e strumento di espressione. Tra espressione e conoscenza si sviluppa l’altra grande partita di Giacometti, che rifà continuamente la stessa opera, variando materiali o dettagli. Pittore dell’uguale alla ricerca del diverso, Giacometti dichiarava di divertirsi a vedere come l’opera veniva fuori dal suo lavoro, perché non aveva assolutamente idea di cosa avrebbe prodotto: la realtà è incatturabile, perché vive nel movimento, che l’opera perde. Questa sfida al movimento, che è sfida al tempo e sfida al padre, è anche la solita grande sfida classicista dell’arte alla vita: mutevole e caduca, la vita si riscatta ed esalta in ciò che la trascende, la forma che ne coglie la bellezza e l’immortala. Giacometti cerca però nella forma quell’imperfezione che tradisce il movimento e svela la vita, immettendo sempre l’opera nel mondo anziché staccarla per assolutizzarla.
È il piccolo passo in avanti delle sue silhouette sottili e allungate a dare senso al tutto; oppure i piedi e i colli sproporzionatamente lunghi. L'opposto del classicismo, infine, perché la forma non cattura l'eterno al di là della vita, ma la vita stessa, nella sua imperfettibile transitorietà e caducità. L'opposizione tra pittura come arte dello spazio e poesia come arte del tempo teorizzata da Lessing viene così superata: il tempo entra nello spazio, lo modifica, gli toglie l’illusione sistematica e lo rende luogo da attraversare. Non è il transitorio ad assumere forma, insomma, ma la forma a rivelarsi perennemente mutevole, in transito, sgocciolante e sudaticcia. Come scriveva da Hampstead Elias Canetti una ventina di anni dopo, in tutt’altro contesto meditativo, ma con la stessa consapevolezza del potere distruttivo della fissità dello sguardo, inane ricerca di resistenza al tempo: «Non temere che i tuoi reperti si sgretolino. Si sgretolano solo se continui a tenerli d'occhio. Affronta il tremore e l'insicurezza. L'ignoto salverà ciò che ti è noto».
Non poteva, del resto, pensare alla forma senza la funzione chi si era confrontato, per necessità economiche ma anche per un’intrinseca ricerca estetica, col design, la produzione e il commercio di oggetti tanto stilizzati quanto d’uso: lampade, vasi, candelabri, attaccapanni, maschere e oggetti da appendere al muro sono l’occasione per esplorare il rapporto tra lo spazio e l’oggetto, di modo che un terzo elemento, il significato, viene ad aggiungersi alla forma e alla funzione.
Mi limitavo a costruire sculture nello spazio senza smettere di chiedermi cosa potessero significare, dirà più tardi di quegli anni di consolidamento, dopo l’allontanamento dal villaggio della Svizzera italiana dove era nato, gli studi d’arte a Ginevra, il viaggio di formazione a Roma e l’approdo sulla scena parigina. Interessato al primitivismo, all’arte africana e oceanina, alle forme levigate di un Laurens e un Brancusi, Giacometti incontra i surrealisti, che esaltano la sua capacità di dedicarsi senza prudenza alla fantasia che non è l’immaginazione. La sua forza stava nello sguardo, per cui a chi lo accusava di essere solo testa, artista cerebrale e iperintellettuale, era facile replicare che egli catturava l’essenziale: guardare è potenziare la vista anziché usarla, perché tutto contiene di più di ciò che è immediatamente percepibile. La fantasia conduce al fantasma delle cose, in profondità, mentre l’immaginazione le traduce in immagini, in superficie. L’Objet désagréable del 1931 è l’epitome di design più surrealismo: uno stilizzato oggetto fallico, con spine sulla punta, che può essere letto tanto come metafora del desiderio violento e frustrato, à la Bataille, quanto come un neonato da tenere in braccio, come lo interpretò Man Ray in una foto del 1937, Embryo, dove l’oggetto che Lili tiene affettuosamente e devotamente al seno rimanda sia alla creatura sia a come è nata.
La morte del padre (1933) si cristallizza in Cube (1933-34) e L’objet invisible (1934-1935), dove la forma, ispirata alle geometrie rinascimentali, all’arte sacra egiziana e cristiana, si fa figura, alternanza di vuoto e pieno, richiesta di frontalità e complicità – transizione suprema, come l’ha definita Didi-Huberman, dov’è l’astratto a introdurre l’antropomorfico, passaggio senza contraddizione dal surrealismo al realismo, geometria della corporeità. Breton gridò al tradimento, ma non capiva che Giacometti aveva finalmente compiuto il suo percorso: liberatosi del padre, al padre poteva ora tornare perché la sua arte congiungesse i due poli che la modernità aveva separato, la ricerca del bello e l’espressione delle emozioni, estetica e lirica. Il lavoro sulla figura umana ritorna centrale, perché lì unicità e somiglianza, armonia e movimento, vita e bellezza, possono trovare una sintesi attraverso lo sguardo di chi contempla e crea: l’artista diventa la sua opera, perché dobbiamo vedere come l’ha fatta chi l’ha fatta anziché chi rappresenta o cosa significa. «Più elementare diventa, e più evasivo, più si avvicina al mistero dell’essere o non essere», ha scritto Yves Bonnefoy, che gli ha dedicato una biografia dell’opera, mettendo al centro il processo creativo anziché i dati esteriori. Facendo qualcosa mezzo centimetro più alta di quello che è, ci sono più probabilità di comprendere l’universo che facendo il cielo intero, sarà la sua poetica dagli anni Trenta in poi.
Di qui nascevano le silhouettes per cui oggi soprattutto è famoso, che Sartre identificava subito con la ricerca dell’assoluto, con un percorso a ritroso che arriva a recuperare il gesto originario nella sua purezza incontaminata dalla storia: «Non c'è bisogno di guardare a lungo il viso antidiluviano di Giacometti per indovinare il suo orgoglio e la sua volontà di situarsi all’inizio del mondo. […] In questa estrema giovinezza della natura e degli uomini, non esistono né il bello né il brutto, né il gusto né la gente di buon gusto e neppure la critica. Tutto è ancora da fare, per la prima volta a un uomo viene l’idea di intagliare una figura d'uomo in un blocco di pietra. Ecco dunque il modello: l’uomo». La soluzione formale di Giacometti dava voce a un’umanità che la guerra aveva drammaticamente assottigliato e che portava il trauma dentro di sé. Risalito dal distintivo all’universale, Giacometti ha scoperto la metafisica: ciò che viene prima della creazione, lo sguardo di Dio sul nulla e il momento in cui il vuoto si fa materia. La realtà non è che occupazione di uno spazio dove prima non c’era niente, come nella creazione, appunto. E dicendo l’indicibile della ferita, la ferita metafisica della caduta come quella storica dell'olocausto, Giacometti dava realtà estetica alle angosce e alienazioni dell’uomo del suo tempo, e portava l’interiorità emozionale nell’esperienza formale.
L’assoluto non della forma, ancora una volta, come nell’arte classicista, ma attraverso la forma, in un processo di risalita al punto di partenza che non è l’ideale, ma, appunto, il luogo in cui il verbo si fa carne, il soffio entra nella storia e l’angelo lascia il posto all’uomo. Essendo estetica, etimologicamente, tanto sensazione del corpo quanto costruzione del bello, Giacometti offre, da artista, una riflessione sul grande quesito che dovrebbe appartenere a chiunque si occupa di arte: che rapporto c’è tra espressione delle emozioni e ricerca del bello. Il sentimento non esiste senza la forma, ma la forma è contenitore vuoto se non c'è un sentire a sostanziarla: nella dialettica, cangiante, tra questi due poli Giacometti scava e inventa le sue silhouettes, apoteosi dell’impossibilità tanto di fermarsi quanto di fotografare il movimento. Se tutto cambia, è perché lo sguardo non può stare fermo e va sempre alla ricerca di qualcos'altro: un lavoratore instancabile, come diceva Giacometti dell’opera d’arte, di cui non conta il successo o il fallimento, ma solo il febbrile processo, come in uno stato di frenetica smania di farsi. Rivolto al futuro, inesorabilmente: avanguardista, perciò, senza bisogno di iconoclastie anticlassiciste e di surdeterminazioni ideologiche.
Giacometti è in mostra alla Tate Modern di Londra fino al 10 settembre.