La croisette e il mondo reale

20 Maggio 2015

Non emerge spesso dalle recensioni dei giornalisti che sono qui a Cannes, ma se qualcuno provasse a fare due passi sulla Croisette durante i giorni del festival troverebbe un luogo davvero singolare. Il cinema è in realtà una piccola parte di un grande circo che invade non solo la città ma l'intera regione e che riesce nel capolavoro di mettere insieme lo snobismo della haute bourgeoisie della costa azzurra con il kitsch in stile Las Vegas. Gli immancabili negozi di Gucci e Chanel (che spuntano ovunque si senta la puzza di contante) inframmezzati da pessimi ristoranti overpriced vengono popolati da un misto di professionisti del settore in cerca di affari, riccastri (o wannabe tali) di paesi arabi o russi, prostitute e gente in cerca di vip che anima le varie feste notturne e che forma l'enorme indotto del festival (ovvero, ciò che in realtà porta concretamente soldi all’industria del turismo della città). A farne le spese non è soltanto il cinema o il buon gusto, ma più in generale il mondo reale. A vederla da qui, infatti, l’Europa sembra molto lontana della devastante crisi economica e sociale che da qualche anno a questa parte la sta facendo agonizzare agli occhi del mondo.

 

In un’atmosfera decadente da basso impero – a cui per altro il Festival sembra adattarsi senza alcun disagio – c’è comunque qualcuno che quanto meno prova ancora a dire la verità e a far ripiombare la realtà anche qui a Cannes. È quello che è successo durante il dibattito con il pubblico al termine della proiezione de L'Ombre des femmes di Philippe Garrel (presentato alle Quinzaine des réalisateurs come film d’apertura) dove alla domanda sul perché abbia deciso di usare quel “bellissimo bianco e nero” il regista ha candidamente ammesso che semplicemente per lui in quel contesto quella scelta gli sarebbe costata di meno. Garrel si è poi intrattenuto in una lunga digressione su che cosa voglia dire lavorare nel cinema ai tempi della crisi economica: i tempi delle riprese devono durare di meno (“invece di girare in 6 settimane come faccio di solito, bisogna girare in 4”), i set devono essere più economici (“devo girare tutto nello stesso quartiere di Parigi, perché costa di meno”), i soldi in generale sono molti di meno. Niente di tutto questo ci passa per la mente quando si spengono le luci in sala e inizia la proiezione, ma il cinema è un’industria e come tutte le industrie in questo momento deve tagliare i costi e risparmiare sul personale. Quello che accade in un momento come questo, quando un regista trova il coraggio di fare una riflessione del genere, è che il velo che protegge il festival durante queste due settimane e che mantiene il mondo reale a distanza, viene per una volta squarciato e il set cannois fatto da alberghi di lusso e macchinone di riccastri che passano per la Croisette si dimostra per quello che è: un’enorme finzione.

 

L'Ombre des femmes di Philippe Garrel

 

Ma se c’è un film che è stato capace di riportare Cannes coi piedi per terra e di farci vedere che cosa sia l’Europa ai tempi della crisi, questo è senza dubbio Arabian Nights di Miguel Gomes. Della durata di quasi 7 ore e diviso in tre parti che occupano una parte significativa del programma della Quinzaine di quest’anno, il film si ispira (molto liberamente) alla struttura de Le mille e una notte per raccontare il Portogallo contemporaneo ai tempi della crisi. Gomes lo dice nel prologo del film e l’ha ripetuto anche alla presentazione in sala: “il cinema è lavoro” e il suo lavoro è quello di farci vedere delle storie. È allora davvero possibile oggi, di fronte alla devastazione sociale in atto (il Portogallo è in una situazione non molto lontana dalla Grecia) metterci a raccontare storie come se nulla fosse? Evidentemente no. Il film inizia allora da un porto: siamo a Viana do Castelo, sede dei più grandi cantieri navali portoghesi che sono stati privatizzati dal governo nel 2012 per far fronte alla crisi del debito statale. La previsione è di licenziare 600 lavoratori (a fronte dei quasi 2mila se si include anche l’indotto).

 

Ma c’è dell’altro, e si tratta di un evento che non riguarda direttamente l’economia. Negli stessi giorni una strana malattia che pare non avere alcun rimedio sta decimando le api in tutto il paese e rischia di mettere in ginocchio l’industria portoghese del miele. Una crisi economica dunque, ma anche una crisi della natura per così dire: due eventi che Gomes – che compare nel prologo del film, nella parte di se stesso che mette in scena il film – sostiene abbiano un qualche collegamento, anche se non è chiaro quale possa essere. Il regista dice “l’astrazione mi dà le vertigini e io sono stupido,” e dunque usa l’espediente narrativo della fuga dal set per lasciare a Shahrazād il compito di prendersi cura del racconto. Ma Shahrazād – sta qui il riferimento, formale e non di contenuto, a Le mille e una notte – non sceglierà la via dell’astrazione e della generalità, ma semmai quella del “racconto di racconti”, ovvero della ripetizione di diversi particolari. Lungo tre capitoli (il primo, The Restless One, il secondo, The Desolate One, e il terzo, The Enchanted One) diversi episodi narrativi (circa tre per capitolo, ma a volte anche i singoli racconti sono divisi in sottocapitoli) racconteranno il Portogallo di oggi.

 

Arabian Nights di Miguel Gomes

 

Gomes ha allora buon gioco a prendere dei frammenti di storie reali del Portogallo della crisi per farne quella che è di fatto una serie di cortometraggi usando il suo tipico stile sopra le righe, esagerato e bulimico e mischiando una genialità visiva che ha davvero pochi eguali nel cinema di oggi ad un altrettanto strabordante narcisismo (che a volte tocca punti di mal digeribile arroganza, come nel terzo episodio del secondo capitolo). Arabian Nights non è allora soltanto uno spaccato del Portogallo della crisi, è anche – e forse soprattutto – un film che prova a chiedersi quale possa essere la modalità di raccontare storie al tempo della crisi. E forse, persino più in generale, quale sia la modalità di raccontare storie al tempo del capitalismo, dove la frammentazione dei tempi e dei luoghi dell’esistenza ha raggiunto un livello tale che la rete di relazioni causali è così complessa da diventare invisibile. Ad esempio ci possiamo facilmente immaginare che la crisi dei cantieri navali di Viana do Castelo sia dipesa dall’apertura di cantieri navali più economici e con un costo del lavoro più basso in un’altra parte del mondo che è assolutamente invisibile dal Portogallo, magari in Cina. Se lo chiedono i lavoratori dei cantieri navali all’inizio della prima parte del film: perché abbiamo perso il lavoro se abbiamo sempre lavorato benissimo? Perché tutto d’un tratto un intero paese, senza alcuna colpa o malfunzionamento economico di alcun tipo, viene attraversato da un impoverimento devastante e senza speranza? Gomes, che non è Jia Zhang-Ke che invece in A Touch of Sin aveva provato a intraprendere la via della totalità, sebbene problematica e non-tutta, decide di prendere la via del cattivo infinito, ovvero della giustapposizione di storie singole, senza che un orizzonte generale le possa mettere in relazione l’una con l’altra.

 

Il riferimento a Le mille e una notte, che parrebbe solo un semplice divertissement è invece il vero cuore del film, perché è quello che mostra il principio di collegamento delle singole storie tra loro: il fatto che Gomes non voglia in alcun modo astrarre dal particolare per mettere le narrazione della crisi portoghese in una rete causale definita che spieghi perché questa crisi sia avvenuta. Il risultato di Arabian Nights è allora quello di una maionese impazzita, dove diversi elementi vengono giustapposti l’uno con l’altro senza che davvero riescano a stare insieme; e dove persino la narrativizzazione della cronaca sociale del paese non riesce a trovare un suo modo efficace di presentazione narrativa in forma d’immagine. In altre parole, tra le storie reali del Portogallo della crisi e il modo di raccontare storie “fuori dal tempo e dalla storia” come avviene ne Le mille e una notte e come spesso accade al cinema di fiction, non c’è alcuna mediazione possibile. O c’è la realtà bruta e senza mediazione, o c’è la mediazione che non può restituirci la complessa totalità della realtà. Questo, lungi dall’essere un limite del film di Gomes, rappresenta in realtà il suo più grande punto di forza: Arabian Nights ci mostra infatti l’impasse necessaria a cui il cinema sempre incorre nel momento in cui vuole raccontare un oggetto – come il capitalismo, o in questa caso la crisi economica del capitalismo, come diceva Marx, è la forma di manifestazione per eccellenza – che non può essere immaginarizzato, ovvero che non può essere visto. Raccontare il capitalismo vorrebbe dire mettere insieme la logica che tiene insieme tutte le storie particolari, e questo è beninteso impossibile proprio perché siamo nel capitalismo.

 

Arabian Nights di Miguel Gomes

 

Il problema del capitalismo è allora proprio il fatto che non possa essere – per ragioni strutturali –portato a un livello narrativo: non può essere visto e non può essere raccontato. È ovunque e in nessun posto ed è per questo che viene così spesso ridotto a una specie di forza naturale imperscrutabile ed esterna all’uomo, come vediamo quotidianamente dal modo con cui vengono interpellati gli economisti come se fossero dei novelli aruspici che devono “prevedere” quello che accadrà.

 

Il festival di Cannes è anche questo. Oltre alla coltre di paillettes e party dei vip, oltre alla celebrazione ostentata della ricchezza della Croisette, è possibile trovare alla Quinzaine una delle riflessioni più efficaci e interessanti sul modo di vedere il capitalismo nel tempo della sua crisi. Basta saper vedere dove stanno le cose interessanti.

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