Look

5 Aprile 2011

Il look è l’immagine che il corpo rivestito assume per effetto di un’operazione di bricolage tra segni di moda. Il look non si limita però a fotografare il risultato di un processo significativo e creativo, ma rimanda al processo stesso, focalizzandone un aspetto essenziale: la dinamica dello sguardo, del guardare e dell’essere guardati, alla base di qualsiasi costruzione sociale del sé.



Illustrare la funzione e il significato del look nel contesto degli anni ottanta significa provare a tracciare una mappa di pratiche culturali ed estetiche ambivalenti o profondamente diverse tra di loro. Ciò a dispetto del fatto che gli anni ottanta sono siano stati archiviati come un’epoca di cattive abitudini relative all’essere e all’apparire, riassumibili tout court nelle spalle iperboliche, non importa se squadrate o arrotondate, se di Armani o di Montana, quale tratto dominante di una silhouette da consegnare alla storia del costume. Proprio questa silhouette, fondata sull’eccesso e sull’enfasi sproporzionata di una parte del corpo, non è mai più tornata di moda, se non in forma di timidi ammiccamenti, ricalcando così il destino di tutti gli eccessi che spesso, nel linguaggio della moda, preannunciano la fine di un’epoca.



Gran parte dei look che gli anni ottanta hanno proposto in alternativa a quel look-logo, e molte delle concezioni relative al rapporto tra corpo, immagine e società che quegli anni hanno prodotto, sono giunte invece fino a noi, offrendosi come chiave interpretativa e come punto di partenza per un’archeologia del presente.



Non è raro sentir parlare di questa decade come dell’era o della rivoluzione del look: sebbene infatti si tratti di una parola da tempo cara alla retorica della moda, look assume proprio in questi anni un significato specifico, facendosi interprete, come sottolinea Lipovetsky, di una nuova fase della moda moderna, da lui definita “moda aperta”, che coincide con l’avvento del prêt-à-porter. Quest’ultimo rappresenta non solo la serializzazione della creazione di moda e, di fatto, l’ingresso dello stile degli stilisti nella moda quotidiana, ma anche l’inizio di una pluralizzazione delle proposte e dei modelli, che si adattano ora ad un universo di consumatori sempre più variegato e desideroso di consumi personalizzati.



Rispetto alle concezioni passate, dunque, nel corso degli anni Ottanta il look si riferisce sempre più marcatamente al presente, all’hic et nunc del sé di moda. Look è dunque una combinazione di segni vestimentari inquadrata nel momento stesso in cui si propone come novità. Se lo stile avvolge in maniera duratura l’identità visibile, il look è profondamente legato all’idea della continua trasformazione, incarnando così, e portando ad estreme conseguenze, tratti fondamentali della moda moderna, tra cui, la valorizzazione delle differenze e la celebrazione del nuovo. Al look , al contrario che allo stile, si può essere perciò infedeli, proprio perché è nel cambiamento e nella novità che esso trova la sfumatura di senso più consona allo spirito del tempo.



Come superficie pronta ad essere rimossa e sostituita da altro, come combinazione di segni privi di stabilità e di legame con qualsivoglia essenza, il look corrisponde di fatto alla necessità, avvertita a livello sociale, di assumere un‘immagine diversa per ognuno dei contesti nei quali va in scena la teatralità del quotidiano e in cui si è vincenti - come suggeriva già alla fine degli anni Settanta il popolarissimo libro The Woman’s Dress for Success Book - in primo luogo se si possiede il look giusto. Il look diventa in questo modo performance quotidiana dell’identità, espressione di una condizione postmoderna del vivere che consegna l’identità ad una pluralità di modi di apparire, di ruoli da impersonare e di personaggi da diventare.



L’affermazione del look in questi anni non si limita alla sfera del corpo e della sua apparenza, ma sancisce di fatto il dominio della forma moda su tutti i settori della vita sociale: non è solo il corpo a cambiare continuamente il proprio aspetto, ma qualsiasi prodotto, oggetto, spazio, istituzione può rinnovare la propria immagine attraverso un nuovo look. Condizione avvertita sempre più come indispensabile alla buona riuscita di tutte le forme della comunicazione sociale, il look ne riveste nel corso degli anni Ottanta qualsiasi ambito.



Anche la politica si attrezza presto ad impostare la ricerca del consenso proprio sul rinnovamento periodico della propria immagine, sviluppando e perfezionando stili comunicativi sempre più legati ai segni visibili e all’effetto che questi producono sui destinatari. In forme discrete o spregiudicate, i partiti politici affidano a professionisti dell’immagine la comunicazione della propria identità visuale, si pensi in questo contesto agli allestimenti spettacolari che hanno caratterizzato alla fine degli anni ottanta i congressi del Partito Socialista Italiano sotto la guida di Bettino Craxi.



Alla diffusione di questa euforia da look e di questo narcisistico “piacere della metamorfosi” contribuiscono in misura diversa ma decisiva i mezzi sempre più veloci di riproduzione e diffusione delle immagini: la fotografia, il video, il cinema. I look degli anni Ottanta viaggiano a velocità supersonica da un videoclip all’altro, impersonati dalle popstar che rendono popolari e rielaborano sia i look degli stilisti sia i look della strada, o si propongono attraverso i personaggi più carismatici del cinema e dei serial tv.

Nella finzione come nella realtà, nello spazio definito dal look si animano tematiche di diverso tipo, tra queste la costruzione dell’identità di genere, vera e propria ossessione di questa decade ansiosa di tradurre in segni visibili i cambiamenti e le conquiste della decade precedente. Il maschile e il femminile, e il confine oramai instabile tra i due campi di significato, saranno un tema centrale nei look degli anni Ottanta, declinato attraverso le modalità più svariate: dalla comunanza di segni e pratiche vestimentarie (la giacca, il tailleur, la silhouette, il culto e la passione per la cura e la disciplina del corpo) al transito degli stessi da un universo all’altro, dall’ispirazione maschile o femminile degli abiti di sesso opposto al travestitismo di pop e rockstar.

Quella tra maschile e femminile, nel corso degli anni Ottanta è, come suggerisce Alessandra Castellani in Vestire degenere, “una guerra di trincea a colpi di particolari nel vestire, che rimandano a scenari decisamente più ampi, fondanti nel definire una guerra di posizione. Sono dettagli allusivi anche di sconfitte future, di attraversamenti che non saranno così facili da oltrepassare, di ruoli sociali e di potere che saranno difficilmente ricoperti dalle donne, dallo svilirsi e affievolirsi delle conquiste e delle tematiche femministe e post-femministe”.

Nella fotografia di moda, medium/messaggio che assume un ruolo sempre più incisivo nella messa in scena del look, il gender trouble troverà espressioni e interpretazioni contrastanti. Helmut Newton, il fotografo di moda che già a partire dagli anni settanta celebra una nuova femminilità che si dà non solo attraverso power suits, ma anche e soprattutto attraverso supercorpi oversize e levigati, immensi e minacciosi, offrirà nel corso degli ottanta una propria versione delle tensioni che attraversano la rappresentazione del genere, ricorrendo in maniera ironica e giocosa all’immaginario sado-maso e pornografico o proponendo cybercorpi spesso non distinguibili dai manichini che gli vengono accostati.

 


È proprio in questa sorta di meta-fotografia di moda che Newton sottolineerà in maniera esplicita quello “scollamento”, sempre più evidente nella comunicazione di moda, tra la bellezza perfetta e irraggiungibile delle supermodel e il corpo delle donne normali, cui si tenterà di porre rimedio non solo con il fitness e con le diete, vere e proprie “religioni” di questo tempo, ma anche a colpi di chirurgia estetica.

Tra i fotografi di moda attivi negli anni Ottanta, Robert Mapplethorpe, Herb Ritts e Bruce Weber, autori di molte delle immagini diventate icone dell’epoca, sposteranno dal loro canto l’attenzione sull’uomo sportivo, muscoloso, palestrato, tirato a lucido, giocando in maniera allusiva con gli stereotipi razziali e con il culto del corpo nell’immaginario legato allo sport e alla cultura gay, facendo diventare tutti questi elementi parte integrante del linguaggio della moda e proiettando sul corpo maschile una potenziale ambiguità di genere.

 


In maniera curiosa e ambivalente, gli anni ottanta consacrano il corpo a capitale culturale, riconoscendo al look una funzionalità legata all’ottenimento di determinati scopi, tra cui il successo personale e sociale, il prestigio, ecc. Questa ricerca di funzionalità sarà spesso operata significativamente attraverso principi ad essa contrari: l’eccesso, i decori, lo spreco dei significanti. Un’ estetica del more is more caratterizza in maniera inconfondibile molti look dell’epoca e raggiunge declinazioni paradossali nel contesto delle fortunate serie televisive Dallas e Dynasty, concetrazione caricaturale di stereotipi e luoghi comuni attraverso cui gli anni Ottanta concepiscono l’apparire, collegandolo in maniera esplicita al materialismo, al consumismo, al rampantismo. Nelle forme di consumo vistoso che trovano espressione nei media e nella cultura popolare, i segni di un nuovo lusso, moderno e tecnologico, si fondono con segni sedimentati nella memoria culturale dell’Occidente: l’oro, l’abbondanza, i colori, lo scintillio, lo spettacolare, il sorprendente.

Il senso estetico che gli stilisti giapponesi, attraverso la loro moda, presenteranno all’Occidente proprio in questi anni, come alternativa alla visione orientalista dell’Oriente, farà da contraltare a questa tendenza, proponendo dal suo canto forme essenziali e prive di decori, un superamento della rappresentazione duale del genere e una diversa declinazione dell’oversize che tenderà a superare il concetto stesso di silhouette.

Il look diventa negli anni ottanta terreno di incontro piuttosto che di scontro tra estetiche ufficiali ed estetiche marginali, tra mainstream e underground. Gli stili della strada assumono un volto particolare in questi anni, sperimentando come l’accostamento e il mixaggio di segni di diversa provenienza possa diventare un gioco alla portata di tutti e aprire la strada alla sperimentazione infinita di look da proporre più che da opporre agli stili ufficiali, in un vortice di contaminazioni e di trasformazioni. Persino il punk, stile radicale degli anni settanta che proprio in virtù del suo forte impatto sulla creatività riesce ad imporsi come poetica ed estetica transepocale, diventa negli ottanta look adottato diffusamente dagli stilisti e dalle rockstar. Nelle strade di Londra, invece, i punk si offrono allo sguardo curioso di turisti e passanti nelle loro versioni più spettacolari e iperboliche (le enormi creste colorate, divenute oramai sculture), coniugando il vivere ai margini della metropoli con forme sprezzanti di manierizzazione e musealizzazione del proprio look.

Che gli anni ottanta non siano stati una società per perdenti è evidente anche nei look che colorano le periferie urbane. I logo, i nomi, le griffe sono spesso eletti dalle culture urbane marginali a segni distintivi del proprio gruppo, come avviene nella cultura hip hop, diventata, nelle versioni più commerciali, una celebrazione del lusso e del marchio ai confini con il cattivo gusto. Una “logomania sfrenata”, come suggerisce Matteo Guarnaccia in Ribelli con stile, così caratteristica di molti look anni Ottanta, contraddistingue anche quell’esempio anomalo di street style italiano costituito dai paninari, giovani perfettamente integrati in questa epoca di consumi felici, seguaci delle firme e propositori di un american way of life ridotto alla celebrazione di luoghi comuni (il fast food) e di stereotipie del cinema hollywoodiano di quegli stessi anni.

 

 

Nel solco di pratiche già avviate alla fine anni sessanta e continuate nel corso del decennio successivo, negli anni ottanta il look di persone, luoghi e oggetti sarà spesso il risultato di collaborazioni tra professionalità diverse e versatili: si pensi, per fare un nome, alla figura di Maripol, fotografa, designer, art director di Fiorucci, produttrice cinematografica, ideatrice dei look di Debbie Harry , Madonna e tante altre pop-star di quegli anni. Inteso come progettazione d’immagine, il look diventa in questi anni linguaggio della contaminazione tra arte e società, tra creatività marginale e sfruttamento commerciale della stessa. Anche i graffiti e le forme d’ arte delle periferie urbane, dopo aver conquistato il proprio spazio nelle gallerie d’arte - come dimostrano le brevi, ma intense parabole di Jean Michel Basquiat e Keith Haring - saranno integrati nel panorama vastissimo delle culture pop, destinate a giocare un ruolo di primo piano nel rinnovamento del design e della moda.

Mediando tra visioni neoclassiche e suggestioni neobarocche, tra glamour e underground, tra culto del corpo sano e giovane e spettri di nuove malattie, gli anni ottanta, accantonata la possibilità di cambiare il mondo, sperimentano la vertigine data dal moltiplicarsi delle possibilità di rinnovarne, in forme sempre più veloci, l’aspetto, il look.

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