Festival della canzone nazionale / Quando la rana di Chomsky si salva la vita
Mauro Bocci, l’insegnante di Foligno accusato di insulti razziali verso due bambini nigeriani, si difende con una motivazione ingegnosa: “Era un esperimento sociale”, assicura.
Nel palco di una classe elementare, due bambini sono stati invitati a voltarsi verso la finestra per non mostrare il loro volto “da scimmia” ai compagni. La simulazione – spiega il legale di Bocci – aveva intenzioni antifrastiche: mostrare i comportamenti errati, e spronare alla reazione (sic!). La grottesca difesa del maestro suona particolarmente sinistra per chi frequenta quel genere di performance che – Abramovic docet – accende con la miccia del paradosso il fuoco politico. I piccoli spettatori di Foligno, d’altra parte, hanno reagito: hanno raccontato a casa le vessazioni e scatenato il clamore mediatico e giudiziario.
E noi? Quanto deve farsi manifesto il sopruso per innescare la nostra reazione? Sui complessi meccanismi del dissenso e della sopportazione ha lavorato la compagnia olandese Wunderbaum attiva tra il Theater Rotterdam e il Theaterhaus Jena e approdata sui palchi milanesi grazie a Mare culturale urbano (li abbiamo visti, negli scorsi anni, anche a Fit Festival e a Tramedautore). Canzone Nazionale è ideato come uno show in stile Sanremo, che cerca e ripropone le composizioni nazional-popolari italiane che hanno contribuito a forgiare l’identità del paese. Sul palco un ampio coro composto in loco (con il Sankofa Gospel Ensemble anche il Coro dell’Università degli Studi di Milano Bicocca e la Corale Polifonica Sforzesca) si esibisce in una schizofrenica playlist all’italiana che va da Modugno all’inno verdiano, ma non disdegna Rovazzi e J-Ax. Il dispositivo scenico è una sorta di juke-box: il pubblico chiede, il coro esegue.
I due attori che conducono il gioco (la creatrice Marleen Scholten accanto all’italiano Alessandro Riceci) incarnano gli stereotipi che per molti anni abbiamo visto sul palco dell’Ariston e nelle prime serate tv: lei ammicca, fasciata in un appariscente vestito rosso dai lunghi spacchi, lui ostenta entusiasmo e contagiosa energia.
Entrambi incalzano gli spettatori: girano in platea, incitano a cantare, fanno domande tra il serio e il faceto, distribuiscono bandierine dell’Italia. Qualcuno si fa trascinare, suo malgrado, dall’antico rito del cantare insieme: non è un caso, se sono stati inventati gli inni nazionali. Ma per lo più le battute e le risate insistite cadono in uno strisciante imbarazzo. Capita, di fronte a uno spettacolo o un programma televisivo di bassa qualità, di provare qualcosa che assomiglia alla vergogna. Ma perché ci vergogniamo, dopotutto, se siamo semplici spettatori?
Il ridicolo è il brutto senza sofferenza, ci spiega Aristotele nella Poetica: chi manca di consapevolezza – e pare un ignaro portatore del brutto – non può che risultare ridicolo ai nostri occhi. Il disagio che proviamo deriva in sostanza dalla coscienza di non aderire a quello che viene proposto, di collocarsi altrove, di essere altro da. Impariamo molto di noi stessi e sui nostri gusti analizzando quel disagio: ed è questo il motivo per cui (non troppo spesso!) può valere la pena vedere spettacoli brutti. Ma cosa accade alla comunità, reale o virtuale, che sta guardando con noi? Condivide lo stesso sentire?
Tra le sedie dello Spirit de Milan, una ex vetreria della Bovisa ottimamente riqualificata, sono seduta anche io. Accanto a me, una classe superiore di Milano, è il liceo scientifico Alessandro Volta: li ho visti diverse volte, in questi mesi, per un laboratorio di visione e critica teatrale. Li osservo. Qualcuno si intimidisce, qualcuno non nasconde un po’ di sconcerto, altri sventolano patriottiche bandierine e a poco a poco si fanno trascinare dal ritmo delle canzoni italiane. Mentre la biondissima presentatrice si lascia andare a qualche allusione sessuale, e dichiara tra un sorriso e l’altro che il #metoo è stato importante ma che ora comincia a scocciarci, penso che ne ho abbastanza: non si disinnesca la potenza dei modelli televisivi riproponendoli con lieve ironia, mi dico.
Ed è qui che arriva la svolta drammaturgica, collocata coraggiosamente a più di tre quarti della performance: il ragazzo addetto alla sicurezza (che scopriremo essere l’attore Alberto Malanchino, originario del Burkina Faso) viene chiamato sul palco, dice qualche parola sulla sua provenienza e sulle ragioni del suo arrivo in Italia, viene accusato di aver dato fastidio e cacciato malamente dalla sala. Una voce, dalla platea, urla: “resta!”. Il pubblico si zittisce, chiedendosi se il fuori programma sia nel copione. Sette quattordicenni si alzano dalle loro sedie, attraversano la sala in silenzio tra gli sguardi dei loro compagni di classe, seguono l’attore fino in camerino, lo abbracciano: non accettano, neanche all’interno della cornice della fiction, di essere spettatori di questo spettacolo. Il coro, abbandonate le tonalità da Carosello, intona un Requiem: la polis è sottoterra da un po’.
La compagnia Wunderbaum ci propone un test sulla nostra capacità di sopportazione, applicando il principio della rana bollita di Noam Chomsky: mentre la temperatura si alza, gli spettatori si lasciano cuocere a poco a poco o hanno la forza di saltare via dalla pentola?
E allo stesso tempo Canzone Nazionale lascia aperta una possibilità, come una domanda a bassa voce. E se una comunità non si formasse solo nell’adesione a un patrimonio condiviso di costumi, ma piuttosto nella corale presa di distanza da quello? Nell’aula di Foligno e tra i giovani spettatori di un liceo di Milano, qualcuno ha ancora la forza di riconoscere un’umiliazione e di reagire. Fuori, l’acqua bolle da un po’.