50 anni di festival / Santarcangelo memorie
“L’attore ha una corona in capo / ma non è un re” si legge sullo schermo nero, dopo la sfilata dei nomi dei produttori del film. Si apre una grotta, una platonica caverna dalle quale baluginano non immagini ma voci, una polifonia: “Ho incontrato il festival che ero un ragazzo… Ma servono ancora gli artisti?… Il teatro è l’attore… Andate a vedere un teatro serio!... Santarcangelo genera il proprio cambiamento… Io lo detesto il festival…”, mentre iniziano ad apparire immagini sfumate e la camera si inoltra nella notte, e lucine, un circo nel bosco, carnose corolle di sensuali fiori… (sotto suona un violino, una musica romantica si fa ritmica). Quindi immagini sbiadite di spiagge inizi anni settanta, come eravamo, come ci rappresentavamo in super 8 familiari quando nacque il Festival internazionale del teatro in piazza, a Santarcangelo di Romagna, a pochi chilometri da Rimini… Una voce inizia a raccontare.
50 – Santarcangelo Festival è un appassionato documentario di Michele Mellara e Alessandro Rossi, Mammuth Produzione, realizzato in collaborazione con il Festival del teatro e con molte altre sigle, presentato il 6 settembre alle Giornate degli autori della Biennale Cinema di Venezia. Sarà distribuito prossimamente nelle sale da I Wonder e Unipol Biografilm Collection e poi si potrà vedere nel circuito Sky Arte.
I due autori, con una passata militanza nel teatro di ricerca nella compagnia Teatro della Polvere e con un’ormai pluriennale esperienza cinematografica, sono stati incaricati dal Festival di raccontare i 50 anni di questa rassegna avventurosa, capace di esplorare nuovi territori tra l’immaginazione, la finzione, la realtà, di sondare attraverso le arti della scena i cambiamenti della società. Lo hanno fatto mirabilmente, incrociando interviste ad alcuni dei protagonisti dei cambiamenti di direzione della rassegna con immagini d’epoca, recuperate da più fonti, rovistando in un archivio, quello del Festival, che è andato formandosi per concrezioni successive non sempre seguendo un progetto chiaro, andando a rintracciare reperti di televisioni e filmati amatoriali.
Sfilano il primo festival, nato nel 1971 in pieno clima post ’68 dall’incontro tra il sindaco comunista Romeo Donati e il regista romano Piero Patino che, intervistato, chiarisce come il patto inziale fosse di bandire il teatro di puro intrattenimento. E così è stato per cinquanta anni per questa manifestazione, che si è progettata come opposta e complementare al turismo spensierato della spiaggia di Rimini: dal teatro in piazza come tribuna per la scena impegnata politicamente al “terzo teatro” o teatro dei gruppi del periodo che segue il ’77, con il festival La città dentro il teatro (1978) voluto da Roberto Bacci, un’invasione dello spazio urbano con trampoli, fuoco, acrobati, danzatori indiani, una trasformazione radicale del paese, proiettato in uno spazio-tempo intensamente provvisorio di utopia. Il ’77, che si era esaurito nelle piazze dopo il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, riversava nelle arti il suo filone più creativo, provando a reinventare il bisogno di comunità con il teatro. Di questo periodo, poco documentato, baluginano però nel film immagini che riportano a momenti vitali, che sembrano ormai lontani, con gli Els Comediants e le loro dionisiache feste totali, con tanti altri protagonisti di un teatro che voleva inserirsi in progetti di cambiamento della vita. Un teatro che si riprogettava esplorando spazi inconsueti (la spiaggia, la cava, il greto del fiume Marecchia, il giorno, la notte, l’alba…), che si dilatava fino a diventare esperienza complessa, che mette in discussione lo statuto di spettatore e quello di attore.
Dopo vengono gli anni di altre aperture: con Antonia Attisani che porta Laurie Anderson (tra gli altri) e introduce un teatro meno “antropologico” e più “freddo”, metropolitano, internazionale. Con il progetto, realizzato solo di recente in realtà, di dare continuità annuale al festival. Con la direzione di Ferrucio Merisi e il ritorno di Bacci e poi ancora il ritorno di Attisani, con uno sguardo curioso a nuove formazioni, giovani, impreviste e imprevedibili (siamo agli albori degli scossoni sociali degli anni ’90).
Ogni tanto, tra caleidoscopici scoppi di immagini e interviste ai direttori, nel film si inserisce una tavolata in un ambiente scuro, con alcuni dei protagonisti della vita intellettuale del paese che provano a ricostruire i dintorni, i contesti, gli slittamenti politici, l’ostilità della parte più conservatrice di Santarcangelo, i cambi di direzione. Il tocco dei due registi è sempre veloce e attento, capace di far balenare problemi e fascinazione.
Arriva Leo de Berardinis alla direzione, 1994, e il centro torna a essere la presenza dell’attore, la sua finzione con verità assoluta. Viene evocata quella grande bella improvvisazione che furono i Cento attori, chiamati a raccolta su un palco a testimoniare un esserci per la società, per dialogare, per trasformare. Appaiono Claudio Morganti e gli imprevisti della scena, altra faccia della presenza dell’attore, e gli studi sul Misantropo di Molière della compagnia di Toni Servillo, giovanissimo, intensamente pedagogico, con una Iaia Forte e un Andrea Renzi poco più che ragazzi. Un’epoca del nostro teatro, una stagione delle nostre vite.
In una lunga camminata di spalle in una notte invernale, interrotta da immagini di repertorio, Silvio Castiglioni racconta gli anni post Leo, che traghettano verso il teatro e la danza novissimi degli anni ’90, con l’affacciarsi maturo delle compagnie romagnole, Albe, Raffaello Sanzio, Valdoca, Motus, verso una nuova apertura a esperienze internazionali.
Rivivono i momenti contrastati dopo la fine del suo mandato nel 2005, con la necessità di rimettere in carreggiata il festival: e allora prendono la direzione Chiara Guidi della Raffaello, Enrico Casagrande di Motus, Ermanna Montanari delle Albe, un anno per uno. Si va dalle sperimentazioni sulla voce-mondo a un teatro impegnato politicamente alla bellezza di duecento adolescenti scatenati con i versi di Majakovskij nell’Eresia della felicità di Marco Martinelli. E nelle cento sedie allineate nella piazza centrale, una per quasi ogni teatro italiano, in uno dei tanti momenti di crisi del nostro sistema scenico, in relazione con le crisi di una società mai risolta (siamo nel 2011, direttrice Ermanna Montanari).
In tutto, fin qui, protagonista è quell’inventore di mondi, quel mentitore, che è l’attore. Ma Santarcangelo cambia continuamente, intercetta tendenze allo stato nascente, un po’ come la spiaggia di Rimini. L’arte si mescola sempre di più con la vita e lo spettacolo permea ogni ganglio dell’esistenza. E allora Silvia Bottiroli apre a connessioni che partendo dal teatro lo dilatano fino a farne perdere i confini, in azioni, in incontri, in momenti di attivismo politico o di evocazione rituale, in enfatizzazioni del tempo reale e di quello della comunicazione. E si arriva alle ultime direzioni, con Eva Neklyaeva, che toglie la parola teatro della sigla del festival, per trasformarlo in esperienza aperta al massimo, a tutte le arti. E infine a questo cinquantenario, celebrato parzialmente a causa della pandemia appena passata, diventato un’intensissima settimana di teatro, spesso proprio recitato, con piante dipinte di rosa, incroci di frastornanti motociclette come una suite catastrofica, con una scritta al neon che campeggia nella notte nell’immensa radura dove sono situati tre palchi: «Futuro fantastico”.
Non c’è nostalgia in questo film, ma il senso di un cammino che fa crescere la consapevolezza dell’unicità del teatro, basato sulla diversità dei corpi, delle invenzioni spaziali, delle immaginazioni. Su tutto ciò che ci fa plurali, aperti, in movimento.
In un’intervista rilasciata prima dell’emergenza sanitaria, quando il titolo provvisorio del film era Né emarginati né alla moda. 50 anni di Santarcangelo Festival, i due registi dicevano: “Ci è sembrata interessante la capacità di cambiare, per mantenersi all’altezza dei tempi, conservando intatti alcuni capisaldi, come il rapporto con la città. A scorrere tutta la storia di Santarcangelo è evidente come ogni sei-sette anni ci sia un mutamento di rotta, come la svolta verso le arti performative, avvenuta nel corso degli anni 2000. Ed è anche significativo che uno dei festival più importanti in Italia nasca in un’estrema periferia, anche se loro chiamano Santarcangelo città e ci tengono molto alla loro identità, fatta di cultura, di poeti, Nino Pedretti, Tonino Guerra, Raffaello Baldini... Compri perfino gli asciugamani con versi di Pedretti e le tovaglie dei ristoranti sono disegnate da Guerra”.
La bella provincia. Chi vorrà scrivere una storia del teatro italiano dagli anni sessanta a oggi dovrà partire da lì, dalle periferie.
Intanto, un po’ più tardi, nel 2021, arriverà anche un libro sui cinquanta anni del Festival. Curato da Roberta Ferraresi, che scrive la parte storica, anche questo nasce dall’esame dell’archivio e si sviluppa seguendo l’alternarsi delle direzioni artistiche. Sarà articolato, anch’esso, come una polifonia di voci. Ci anticipa la curatrice: “Ogni capitolo su una direzione artistica sarà accompagnato da molte immagini (foto e documenti faranno circa a metà col testo); sarà contrappuntato da box di citazioni, soprattutto non teatrali, sul periodo preso in esame per rendere conto del contesto politico, sociale, culturale; sarà intervallato da materiali di altra natura: testi critici a firma altrui, ‘tavole sinottiche’, info-grafiche su temi trasversali come il fundraising, la grafica ecc., tabelle generali con, per esempio, i numeri delle presenze degli spettatori e i budget, testimonianze sul Festival da parte di operatori ecc. ecc.».
Affronterà a fondo molti dei temi che il film ha, necessariamente, solo tratteggiato: i retroterra politici, gli scontri tra città e festival, l’attività annuale, il grande impegno laboratoriale, le diverse poetiche e esperienze che Santarcangelo ha accolto e rilanciato. Chiediamo anche a Roberta quale sia stato, secondo lei, il segreto della così lunga vitalità del festival. “La differenza di Santarcangelo mi sembra stia nei periodici cambi di direzione artistica: muta indirizzo, sondando ogni volta territori inaspettati, inesplorati, con la capacità di aprire il teatro alla piazza o di concentralo in luoghi segreti o inusuali, di sfidare i limiti delle discipline, con avventure che si allargano alla percezione e alla partecipazione. Il suo segreto è la spinta continua a rinnovarsi, cercando sempre di mantenere una continuità politica e organizzativa, con un occhio alla realtà della città e uno proiettato verso il futuro”.
“Non dobbiamo pensare all’arte teatrale / quando recitiamo / non dobbiamo pensare a Shakespeare / quando recitiamo Shakespeare. / L’attore ha una corona in capo / ma non è un re” (Thomas Bernhard, Semplicemente complicato).
L’ultima fotografia ritrae un momento della preparazione dei Cento attori di Leo de Berardinis.