Diario clinico 4 / Sogni al confine

23 Febbraio 2021

Sono sul letto, come fosse una boa, in mezzo al maremoto che sta investendo la casa. Sono in un carcere, in un clima di terrore e paura, nel cortile si susseguono fucilazioni. Sono al bar, intorno è tutto cemento, non abbiamo sentito bene, viene detta una cosa tipo abbiamo perso la libertà. Sono in autostrada, sto andando al paese dove abitano i miei, i chilometri sono pochi, ma ho la sensazione che non li raggiungerò mai, dappertutto ci sono posti di blocco. Sono in strada, rincorro i miei gatti, sono usciti dal giardino, ho il timore di non riuscire a proteggerli. La discussione è accesa, siamo un gruppo, siamo tanti. Bacio appassionatamente la mia ex fidanzata, abbraccio spassionatamente tutti quelli che incontro.

Sono tutti sogni, immagini che alla luce del giorno evaporano e svaniscono, prima che la giornata si faccia forza. Eppure, la loro compagnia è decisiva per la vita psichica di ognuno di noi. Il sogno riflette il campo mentale in cui viviamo, equilibra il punto di vista della dimensione diurna, ci mette in contatto e in comunicazione con il nostro Straniero, l’Altro che incontriamo di notte. È stato così anche durante questo particolarissimo anno.  

 

Durante il primo lockdown, accerchiati dal silenzio, abbiamo avuto un orecchio attento ai sogni che emergevano copiosi, indicavano la possibilità di viaggiare e partire, prendere aerei, nuotare, scalare montagne. Erano azione. Oppure ci svegliavano visioni bizzarre e terrifiche, un abbinamento inquietante di familiare ed estraneo. Un riflesso notturno del mondo consueto che si trasformava: l’uomo con la mascherina è già un perturbante. A volte apparizioni apocalittiche, il globo che si scioglie per l’eccesso di calore, a volte salvifiche, gli animali che arrivano in città. Sono i grandi sogni, così li chiama Jung, capaci di unire la psiche individuale alle sorti collettive, possibili sempre, più frequenti nei momenti di crisi epocale.

 

Siamo fatti della materia dei sogni, ripetiamo con il poeta, ma siamo alla ricerca di prove della consistenza del “mondo infero”. Siamo pervasi dalla presenza delle immagini, dare valore a queste tracce notturne, solo nostre, “assurde”, se osservate con la lente del giorno, non è così immediato e spesso costituisce una parte importante del lavoro analitico. Per entrambi i compagni d’analisi, perché è difficile non dare ragione a Freud quando, in L’interpretazione dei sogni, afferma: “Anche nei sogni meglio interpretati è spesso necessario lasciare un punto all’oscuro, perché nel corso dell’interpretazione si nota che in quel punto ha inizio un groviglio di pensieri onirici che non si lascia sbrogliare, ma che non ha nemmeno fornito altri contributi al contenuto del sogno. Questo è allora l’ombelico del sogno, il punto in cui esso affonda nell’ignoto. I pensieri onirici che s’incontrano nell’interpretazione sono anzi in generale costretti a rimanere inconclusi e a sfociare da ogni lato nell’intricato groviglio del nostro mondo intellettuale. Da un punto più fitto di quest’intreccio si leva poi, come il fungo dal suo micelio, il desiderio onirico”. 

 

Ai tempi della mia prima analisi, una quarantina d’anni fa, non si avevano dubbi. Il sogno era un appagamento, un soddisfacimento di qualcosa di nascosto e rimosso. Il terapeuta paragonato a un archeologo. Oggi, mentre con accenti diversi molti autori, da Bollas a Recalcati, interrogano la consistenza psichica stessa dell’uomo contemporaneo, al terapeuta si chiede una sensibilità rabdomantica.  

Nella stanza d’analisi il sogno rimane un racconto al servizio dell’Io del sognatore, un’oggettivazione del suo vissuto interiore. L’attività onirica amplifica le possibilità, indica un altro punto di vista sugli accadimenti diurni, spesso è davvero un teatrale botta e risposta tra la notte e il giorno. A colori o in bianco e nero, giallo o fantasy, ognuno ha la sua grammatica, un proprio stile e il suo genere. 

Sognare è un indizio, testimonia la creatività psichica che non è immediatamente artistica. Ma potrebbe diventarlo. A volte quando si presenta una frase, un titolo, un disegno o una rappresentazione, possiamo sentirci in sintonia con quanto, negli Scritti sull’arte (1934-1969), scrive Rothko: “I quadri devono essere miracolosi: non appena uno è terminato, l’intimità tra la creazione e il creatore è finita. Questi diventa uno spettatore. Il quadro deve essere per lui, come per chiunque altro ne farà esperienza, più tardi, una rivelazione, una risoluzione inattesa e inaudita di un bisogno eternamente familiare”.

 

Siamo ben lontani dall’atmosferico edoardiano, epoca in cui è cresciuta l’analista britannica Marion Milner che, da pittrice dilettante, ha interpretato i suoi disegni. Li ha esaminati come se fossero dei sogni, usando il metodo delle associazioni libere per riuscire “a spezzare gli schemi noti e consolidati”, le divisioni create dal senso comune logico tra il me e il non-me. Ancora oggi, però, Non poter dipingere (il testo è del 1950, in it. Borla 2010) è una guida per entrare in contatto con la propria creatività. L’ipercontrollo, il timore che salti fuori qualcosa che scompagini i piani e i programmi coscienti, il timore che dal mondo onirico possano emergere solo incubi oppure qualcosa di “brutto”, da scacciare: il contatto con il profondo rimane un percorso faticoso, si avanza senza avere in mano una road map.  

La bibliografia sul tema è infinita e intreccia saperi diversi.

 

Sto leggendo La filosofia del sogno (Castelvecchi, 2020) di Ágnes Heller. È un testo incompiuto, uscito postumo, divertente e stimolante. L’idea iniziale era esplorare i racconti onirici dei filosofi, inseguire le connessioni tra “immaginazione creativa inconscia” e la sua influenza sul loro pensiero cosciente. Poi la ricerca si è allargata ai sogni nella Bibbia, ai sogni in Shakespeare, ai sogni rappresentativi del Ventesimo secolo, da Bergman ad Adorno (agli intrecci onirici della scuola di Francoforte…). Per concludere che Io che sogna e io del sogno “hanno qualcosa in comune, che assieme integra e limita entrambi, vale a dire la realtà materiale dell’esperienza”. Provare a leggere i sogni con le categorie dell’estetica, come si propone l’autrice, riporta a Freud che, all’inizio di Il perturbante (1919), definisce l’estetica come “teoria della qualità del nostro sentire”. E contribuisce alla riflessione sul potere delle immagini. 

Sappiamo che possono creare panico, come è accaduto anche a chi si è esposto troppe ore al giorno alle radiazioni televisive durante la prima fase della pandemia. Per questo è necessario attivare la capacità individuale di “pensare per immagini” – è l’espressione che usa Freud in L’Io e l’Es (1922) –, per affrontarle con “responsabilità etica”, come consiglia Jung. 

 

Il quadro astratto, Senza titolo, di Edo Murtić, un noto pittore croato, è quello che vedo appena entro in casa. Rappresenta una continuità. E anche un’eredità, l’est Europa investiva in quadri e tappeti. Diventare terapeuta mi ha liberato, ha legittimato il piacere di avere di fronte una rappresentazione con la quale dialogare. È il lavoro che ora chiede di lasciarmi andare alla contemplazione. Non solo perché ho meno timore dei miei sogni, ma perché mi autorizza a ricaricarmi con le immagini – il bisogno di immagini è una necessità biologica, diceva Warburg. Ad andare a cercarle, nelle chiese e nei musei e alle mostre, dove il consumo non riesce a corroderle. A sceglierle: possiedo una grande collezione di cartoline.

La scoperta della psicoanalisi è rivoluzionaria, perché democratica: condensare la nostra esistenza in un racconto per immagini è qualcosa che possiamo fare tutti. 

 

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