Morta a Torino la scrittrice e drammaturga / Marina Jarre. La perfidia della ripetizione

5 Luglio 2016

“Dare viso e numero ai pochi che portano testimonianza” è la nota stilistica che sin dal suo esordio ha reso inconfondibile “il leggero accento straniero” di Marina Jarre, una delle rare scrittrici contemporanee che ha saputo fare i conti con la storia. In tutti i suoi libri, ha offerto insegnamenti di saggezza e di ironia a chi s’interrogava sulle potenzialità espressive dello “scrivere commemorando”, un ventaglio sorprendentemente ampio di riflessioni, stimoli, pensieri sottili e arguti sull’Italia degli anni Sessanta e Settanta, regalandoci alla fine della carriera un libro, Ritorno in Lettonia, che regge il confronto con le banalità moralistiche che si leggono in molti saggi di storici sul trito binomio memoria-storia oppure in languidi convegni sulla didattica della Shoah.

 

Non sempre i proverbi yiddish colgono nel segno. “Nessuna strada conduce indietro” è quello che Marina Jarre si è scelta. Ritorno in Lettonia affronta un argomento assai poco conosciuto in Italia: la deportazione dai paesi baltici, gli eccidi perpetrati a Riga dai nazisti con la complicità dei lettoni, stragi di massa, le cui dimensioni sono spesso mal conosciute dagli stessi ebrei italiani, scrive la Jarre con un pizzico di giustificata malizia. Il libro è di grande interesse per chi intenda guardare l’opera di una scrittrice nel suo divenire, dal momento che rappresenta in certo modo una riscrittura di un precedente suo libro, I padri lontani (1987): continui i rimandi testuali a una autobiografia che la Jarre oggi definisce “aggiustata”, e che di fatto aggiusta, perfezionandola, trent’anni dopo, cioè sottoponendola al vaglio dell’indagine storiografica e della rivisitazione in loco.

 

Per rendere più vicini i padri lontani l’autrice si fa, appunto, storica, si immedesima nei panni del “cittadino che ha tutte le virtù” delle Storie di Erodoto, ricorda la sua tesi di laurea sui padri della Chiesa, l’insegnamento universitario di Pellegrino, la memoria silente e non rituale della madre di Emanuele Artom, direttrice della scuola ebraica di Torino, gioca di intarsio con lettere, documenti, citazioni da saggi, brani di diario trascritti su fogliettini, scrive didascalie a fotografie di un album che la ritrae in posa con i suoi genitori, i suoi nonni. Due istantanee, particolarmente toccanti, costituiscono, direbbe un analista, l’atto fondativo di Ritorno in Lettonia: la fuga precipitosa di Michi e Sissi dalla casa paterna, l’estremo viaggio del padre a Torre Pellice; sono immagini lette, anzi ri-viste con una finezza interpretativa che gli storici, quando scoprono la fotografia essere una fonte per lo storico, non sempre posseggono. Ennesima prova di come la letteratura possa dare una mano all’analisi del passato. Il lettore non trascuri un dettaglio: prima di partire per il suo viaggio nella memoria, scrutando il mare, la scrittrice tiene in mano una copia di Onegin

 

Marina Jarre sa bene che “la cosa non può essere narrata” e male sopporta ogni espressione artistico-letteraria: “Tuttora mi risolvo a fatica ad andare a vedere un film sull’argomento”. Scrive che “raccontare è tradire”, detesta, con parole che da chi scrive non potrebbero essere più apprezzabili, “la perfidia nella ripetizione” che contraddistingue e deteriora molti discorsi nostri sulla Shoah: “La perfidia della ripetizione, tal quale l’enormità delle cifre, contribuisce a rendere astratti gli avvenimenti, a farne oggetto di confronti e dissertazioni, a dargli al più il carattere d’insegnamento, a togliergli carne e sangue e urla e sangue e rantoli e sangue”. Adulterati dalla “perfidia della ripetizione”, possiamo aggiungere noi, nelle aule scolastiche, nelle sale delle conferenze e dei nostri convegni, i ricordi, “passato il primo urto di sconcerto e di orrore, acquisiscono una sembianza consolatoria”. Gli stessi testimoni narrano e rammentano e si augurano che “lo strazio del ricordare sia utile e necessario, ma narrano rivolti agli innumerevoli che dovettero soccombere, non a noi che ascoltiamo e guardiamo”.

Sono parole dure, taglienti, segnate dal tipico accento di una scrittrice che ha saputo correre il rischio della impopolarità. Ma sono parole composte con austera eleganza.

 

Indietro si può ritornare, a patto di avere chiari i limiti connessi alla perfidia della ripetizione (o della banalizzazione). Nemmeno le cifre possono essere rappresentate, nel dubbio che ad esse possa attribuirsi una qualsiasi valenza metafisica. Sicché, non per civetteria, ma per condivisibile pudore, nel suo ultimo libro cinque ***** sostituiscono gli zeri dello sterminio. Se un pericolo potrà oscurare il futuro dei cittadini erodototei che hanno tutte le virtù, questo consisterà nell’“intreccio che si è man mano creato tra cordoglio personale e cordoglio pubblico”. Se il lutto diventasse “un fardello così gravoso imposto in un rito pubblico”, la colpa sarebbe soltanto nostra.

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