Un’altra stagione / Il teatro, ritorni in sala
“A coloro che, innumerevolmente innumerevoli, non capiscono molto né della mancata apertura di alcuni teatri, né dei movimenti di protesta che li occupano, né di ciò che a loro si oppone, né di ciò che li unisce”. A tutti costoro il drammaturgo Wajdi Mouawad, direttore del Théâtre National de la Colline di Parigi, dedica il suo Manifesto pubblicato il 20 maggio 2021.
È trascorso un anno da quando, su queste pagine, riportando qualche pensiero sul diario di quarantena di Mouawad, scrivevo come la parola condivisa avrebbe potuto rappresentare la chiave della ripartenza delle scene teatrali e, più in generale, della condivisione culturale. Era quasi estate, siamo tornati nelle sale e nelle arene all’aperto, è stata questione di qualche mese, poi il virus ha fermato tutto, ancora. Questo altro anno di sospensione ci ha fatto supporre che la possibilità e forse il desiderio stesso della nostra compresenza potesse rappresentare, come una debolezza carnale qualunque, quella trappola che avrebbe reso necessario un nuovo confinamento. La sospensione si è installata sul teatro come una nebbia che nessuno riusciva a immaginare come e quando si sarebbe risollevata. Come scrive Mouawad, la situazione si è configurata attorno all’idea del sacrificio contenuta nell’astensione forzata delle attività culturali. E, aggiunge, a causa del fallimento che impregna in questo momento lo spazio culturale delle arti sceniche, il direttore de La Colline ha deciso che, per adesso, il suo teatro rimarrà chiuso.
“Fascite necrotizzante”, il batterio che mangia la carne: è questa la metafora utilizzata per descrivere un habitat che si è autofagocitato, auto-sacrificandosi a seguito di un trauma profondo, rivelandosi così incapace, evidentemente, di immaginare soluzioni prive di sacrificio. Si tratta di un concetto che, tra l’altro, parla di una postura politica, culturale e di pensiero che, in barba a ogni pretesa di laicità della cultura, non fa altro che sottolinearne la caratura e l’indole religiosa dei suoi adepti, pronti — si fa per dire — a dare spazio alla distruzione come motore dell’esistenza. “Sacrifichiamo questo [il teatro, ndr] per salvarlo, dicono tutti, senza sospettare come ogni sacrificio finisce sempre per essere ripagato da ciò che è stato sacrificato”. È trascorso un anno ancora, però, un altro lungo periodo di astensione durante il quale gli spettatori, gli addetti ai lavori e gli artisti del teatro hanno dovuto nuovamente confinarsi nella categoria di coloro che tentano di fare a meno di qualcosa, nel peggiore dei casi oppure — nel migliore — di surrogarlo nel bene e nel male attraverso altri media.
Da qui riprendo le fila del discorso, dunque, tenendo vicine le parole di Wajdi Mouawad come un anno fa e guardando a questo inizio di bella stagione non come si faceva un tempo, ovvero come all’inizio di un intervallo di sospensione dall’attività teatrale vera e propria, ma come a un tempo supplementare delle stagioni, delle sale, dei palchi, dei festival, degli artisti, in cui dare quanto più possibile prima che sia di nuovo autunno, prima che un’inimmaginabile nuova variante non guadagni il centro della scena.
Nel frattempo, in tutta Europa si sono attivate diverse esperienze di occupazione, alcune concertate con le direzioni dei teatri stesse. Anche a Roma, il Globe Theatre immerso dentro il parco di Villa Borghese è stato occupato, organizzando cinque giorni di dibattiti, tavoli di lavoro e auto-formazione (per approfondire, l'articolo di Giulia Alonzo su queste pagine restituisce un quadro generale della situazione). In Francia, oggi alle prese come l’Italia con una fase di riaperture, le lunghe occupazioni dei teatri si sono concluse, estinguendo lotte e rivendicazioni più che legittime senza che qualcosa sia stato propriamente stabilito. L’occupazione, ridotta per forma e numero, da pochi giorni si è trasformata attraverso un trasferimento “di sintesi” presso quell’avamposto interculturale che è il Centquatre di Parigi che, nel frattempo, sta riprendendo la propria attività. A queste condizioni, di certo non ottimali, “lavorare, non lavorare, questo è il dilemma”, verrebbe da dire.
Dal punto di vista degli spettatori, il ritorno nelle sale stabilisce la ri-frequentazione di un mondo dove il micro dell’esistenza diventa macro, dove si ha la possibilità di vedere l’altro, e di sentirlo, oltre la cortina del distanziamento. È a teatro che vedremo, incarnati, tutti i fenomeni di cui stiamo discutendo. Per entrare in questa fase non servirà, per fortuna, guardare solo avanti. C’è un passato da considerare non solo come un capitolo inespresso o distante, ma un capitale col quale riprendere il contatto. A comporre una lunga lista d’attesa, nell’anno e mezzo di pandemia sono moltissimi gli spettacoli più o meno pronti al debutto che ancora non hanno avuto un confronto con il pubblico. E lo sguardo può e deve spingersi più indietro ancora, a ricordare come il teatro, nella sua più ampia accezione, abbia maturato una gamma di attività spettacolari, partecipative in primis, spesso ibride dal punto di vista della categorizzazione disciplinare, che sarà interessante rifrequentare proprio perché ci accompagneranno nel new normal facendoci assaporare ancora quella che, vista da qui, può apparire come una scommessa: stare insieme, condividere, prendere parte.
In quel gioiello che è La Classe di Fabiana Iacozzilli, spettacolo con il quale il Teatro di Roma ha ripreso l’attività dopo l’interruzione pandemica, c’è un momento in cui si ascolta il frangersi dirompente di un vetro, è il suono che accompagna il racconto di uno dei soprusi scolastici a danno di bambini e bambine di cui lo spettacolo, di matrice biografica, racconta. L’equilibrio sottile tra la vita e la sua rappresentazione attraverso le marionette, la messa in scena di quelle interiorità a rischio muove negli spettatori adulti corde piuttosto tese. Chi non si è mai sentito ferito, in qualche modo, dall’arroganza di questo tempo che ci vuole accondiscendenti, diligenti, seduti e capaci di rinunciare a noi stessi? Il fatto stesso di riconnettersi, grazie al tramite del teatro, a qualcosa di emotivamente carico riempie l’esperienza teatrale di una nuova luce. Come stiamo? Lentamente, torniamo nel mondo vulnerabili e feriti, e questo dolore ha bisogno di trovare una casa, un luogo dove essere lenito.
E ancora, la danza di Michele di Stefano al Teatro Argentina, è parte di un’esperienza che tocca i sensi a trecentosessanta gradi. L’esserci e il mostrarsi dei corpi danzanti ci ricorda chi siamo, è un ritorno che ci riporta a interrogarci sull’origine e sul panorama che i movimenti del nostro corpo sono in grado di generare. L’esperienza in sé non sempre è fluida, perché il paesaggio interiore che ci portiamo appresso è, probabilmente, desolato. La danza ci richiama alla vita, alla meraviglia, a quell’attesa necessaria al costituirsi della presenza. È ancora la danza, inno umano alla propria dimensione misteriosa, che provoca una lieve frizione, forse una piccola invidia per quel movimento libero e atletico, forse un’irritazione per quella richiesta sotterranea di pazienza. Cedere a quel piacere dell’occhio, però, senza occuparsi troppo della fragilità che ci dobbiamo ancora raccontare, è parte di un’esperienza di fronte alla quale ci raduniamo, ancora, con i sensi percettivi probabilmente martoriati da mesi di emozioni, contatti, chiacchierate, decisioni e vite vissute in streaming video.
Se c’è un piccolo senso da coltivare in questo tempo di rientro della scena, questo potrebbe essere quello che ci riconsegna alla vita sinceramente, con la coscienza di chi sa di doversi riallenare a esperienze di durata e di contatto. Desideriamo tutto, e questo “tutto” forse inizia dal non dimenticare niente di ciò che stiamo vivendo, per reinvestirlo il più possibile in ciò che faremo domani, e allora sarà un’altra stagione.
Nell’ultima immagine un momento dell’occupazione del Théâtre de l'Odéon, Parigi 2021, ph. AFP / Stéphane De Sakutin.