Una storia che continuiamo a scrivere / Trieste, le foibe e Quarantotti Gambini

28 Marzo 2018

Pier Antonio Quarantotti Gambini fu uno degli autori più noti del Dopoguerra, caduto nella dimenticanza qualche anno dopo la morte, avvenuta nel 1965. È stata Bompiani nel 2015 a togliere una polvere spessa di decenni dalle sue opere attraverso una scelta, curata da Mauro Covacich. E oggi Mondadori, riproponendo l’opera politica più cara allo scrittore, Primavera a Trieste (pagg. 344, euro 15), con una prefazione di Claudio Magris e un’introduzione di Elvio Guagnini, tra i maggiori conoscitori del capoluogo giuliano dal punto di vista letterario, storico e umano. 

Nato a Pisino d’Istria nel 1910 da una famiglia irredentista di origini nobili, Quarantotti Gambini godette sin da ragazzo della benevolenza di Umberto Saba, Richard Hughes ed Eugenio Montale, che credettero  da subito nel suo talento letterario. “Tu sei fra i giovani,” gli scrisse Saba nel 1930, “una delle poche persone delle quali è lecito sperare un po’ di bene: e la novella che hai scritta (sic) è di questa speranza un’indimenticabile conferma”. Trasferitosi a Trieste a 19 anni, Q. G., come lo chiamavano gli amici, tra il 1929 e il 1932 pubblicò sulla rivista “Solaria”, dietro la spinta di Eugenio Montale, a sua volta sollecitato da Saba, i racconti I tre crocifissi, Il fante di spade e La casa del melograno, che confluiscono nel suo primo volume, I nostri simili, uscito nella collana delle edizioni di Solaria nel 1932. Montale lo recensì entusiasticamente sulla rivista “Pegaso” nel 1933, decretandone il successo di critica.

 

 

Da allora divenne uno degli autori più contesi dalle case editrici e dai “cinematografari”, come li chiamava Roberto Bazlen, fondatore assieme a Luciano Foà dell’Adelphi, che gli fu amico, nonché editor tutta la vita. L’onda dell’incrociatore, il suo romanzo più famoso, pubblicato per l’Einaudi, vinse nel 1948 il premio Bagutta e numerosi film furono tratti dalle sue opere: Les Régates de San Francisco (1960) diretto da Claude Autant-Lara, liberamente ispirato a L’onda dell’incrociatore, La calda vita (1964) di Florestano Vancini, e La rossa rossa (1973) di Franco Giraldi

Giulio Einaudi era così soddisfatto di L’Onda dell’incrociatore che si propose a Quarantotti Gambini come editore unico, senza essere ricambiato nel suo entusiasmo: “Sento il bisogno per temperamento e per quella tranquillità di spirito che mi è indispensabile per il lavoro artistico di sapermi libero, non vincolato. Non pensi che io voglia usare questa libertà: mi basta averla.” Le condizioni si rovesciarono pochi anni dopo, quando l’Einaudi rifiutò proprio Primavera a Trieste. A Torino non piacque la forma diaristica del libro, o forse la casa editrice non amava una presa di posizione così dura contro il comunismo iugoslavo.

 

Primavera a Trieste parla dei quaranta giorni dell’occupazione della città nel 1945 da parte delle forze titine, partendo dal 29 aprile, la vigilia dell’insurrezione di Trieste, avvenuta cinque giorni dopo quella di Milano e della maggior parte delle città italiane. La rivolta triestina fu organizzata dal Cln locale, composto da antifascisti, ma non dai comunisti, una delle tante anomalie triestine, che invece appoggiavano i compagni iugoslavi. I triestini lottarono per tre giorni dall’alba del 30 aprile senza riuscire a scacciare i nemici, che si arresero ai soldati neozelandesi. Radio Londra annunciò che la città era stata liberata da Tito, nonostante i carri armati iugoslavi fossero entrati, a città già liberata, dalla parte opposta rispetto ai neozelandesi e fossero stati accolti senza entusiasmo dalla popolazione italiana e slovena non comunista. Era il prezzo che l’Italia doveva pagare per aver perso la guerra.

Nei quaranta giorni di “reggenza” iugoslava si verificarono esecuzioni sommarie, la cui stima è molto contestata - tra le tremila e le cinquemila vittime -, molte delle quali assunsero la tragica forma degli “infoibamenti”, in cui le persone vennero gettate nei profondi buchi carsici, spesso anche vive. 

In seguito la città fu affidata per nove anni all’amministrazione angloamericana: tornò italiana solo nel 1954, mentre l’Istria venne assegnata alla Iugoslavia. Ne nacque il doloroso esodo giuliano-istriano-dalmata, iniziato già nel 1943 e raccontato in maniera straziante da Anna Maria Mori e Nelida Milani in Bora, recentemente ripubblicato da Marsilio.

 

In quei 40 giorni anche Quarantotti Gambini fu vittima della Storia. Nel 1942 il Municipio di Trieste gli aveva affidato la direzione dell’antica biblioteca civica e la conservazione dell’archivio diplomatico. Per questo suo incarico, acquisito sotto il fascismo, e per il rifiuto da parte di Quarantotti Gambini di prendere la tessera di mobilitato civile dell’esercito iugoslavo, fu oggetto di un’inchiesta che lo costrinse a fuggire prima a Udine e poi a Venezia. Seppe poi di essere stato licenziato con l’accusa di aver ricoperto quella carica “per meriti fascisti”. A nulla valse la lettera che nel dicembre del 1945 Umberto Saba, Virgilio Giotti, Giani Stuparich e Fabio Cusin inviarono ai quotidiani locali “La Voce libera”, “Il Lavoratore” e “Il Corriere di Trieste” in cui difendevano le qualità letterarie e la fede antifascista dell’amico. A nulla valse dimostrare la reciproca stima con il cosiddetto “principe dell’antifascismo” Giulio Einaudi e l’aiuto che aveva sempre prestato agli studiosi antifascisti e a quelli colpiti dalle leggi razziali, cui permetteva l’accesso alla biblioteca fuori dagli orari canonici. A confermare il suo antifascismo mai nascosto, nel 1941, come Saba e la figlia amavano sempre ricordare, Quarantotti Gambini era rimasto con Linuccia nella libreria del poeta per proteggerla dai saccheggi degli squadristi. L’accusa rimase sempre una ferita interiore lacerante per Quarantotti Gambini che, rifugiatosi a Venezia, dal 3 novembre 1945 al 30 giugno 1949 diresse la clandestina Radio Venezia Giulia assieme al fratello Alvise, alla sorella Nike, al padre Giovanni. Duemila ore di trasmissione, in cui si parlava quotidianamente agli italiani dell’Istria e del Quarnaro. 

 

Primavera a Trieste fu dunque il libro più difficile e straziante per l’autore che ripercorreva un momento della sua vita tragico, in cui fu costretto a fuggire da Trieste e a lasciare definitivamente l’Istria onirica dell’infanzia, di mare e profumi, cantata da Giani Stuparich, con una nostalgia lancinante per la bellezza dei luoghi naturali e architettonici d’impronta romana e veneziana.

La stesura di questo scritto politico impegnò l’autore per molti anni: iniziò negli anni Quaranta per uscire nel 1951 anche allora con Mondadori.

L’enfasi con cui affrontava il tema veniva calibrata dall’amico Bazlen, che cercava di raffreddare la sua passione soprattutto nei passaggi in cui, secondo lui, mancava la “giusta distanza”.

 

Quando nei dialoghi c’erano “certi falsi popolarismi … e un impressionismo sentimentalistico che non sono certamente nelle tue intenzioni”, gli spiegava Bazlen spronandolo: “Indurisci il racconto, tenendolo su un tono di pura cronaca oggettiva”. Gli segnalava i tranelli retorici, le “frasi fatte” usate a volte per enfatizzare le lotte nazionali e l’italianità di Trieste. Bazlen, che era anch’egli triestino, sapeva che per l’amico acquistavano quasi un valore sacrale, ma per i lettori avrebbero avuto il sapore “del provincialismo di ottocento superato”. L’editor lo invitò anche a ponderare le sue valutazioni storiche, cercando di fargli capire il punto di vista della popolazione slovena, che non stava dalla parte di Tito: “Per uno slavo dell’Istria, che viveva indisturbato sotto l’Austria… (dopo n.d.r.) le spedizioni punitive dei seguaci dell’avvocato Giunta, fascisti e italiani sono una cosa sola, e sarebbe inumano voler pretendere una distinzione più raffinata”.

 

Un «tragico, asciutto diario di un’intera collettività» di un poeta del mare e della sensualità: così Claudio Magris considera Primavera a Trieste, mentre Guagnini ricorda la città, che fu “primo terreno di scontro della guerra fredda”, come ebbe a dire Geoffrey Cox. Una lettura non banale per capire dove inizia la storia che continuiamo a scrivere anche oggi che i diplomatici russi sono stati espulsi da America ed Europa.

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