Bologna, Teatro dell’Argine / Futuri Maestri. Il teatro della pedagogia

Come quando si attende assiepati l'arrivo di una volata ciclistica, il rumore del gruppone arriva prima. Qualcosa nell'aria si muove e anticipa la vista. Qui sono i passi di un fiume di bambini, ragazze e ragazzi che entrano nella platea dell'Arena del Sole di Bologna, per l'occasione svuotata dalle poltrone e resa un grande unico vasto palcoscenico. Ne entrano una decina, poi altrettanti, saranno cinquanta, ne arrivano ancora e ancora, uno dietro l'altro ordinati con magliette scure, si dispongono di schiena al centro della scena. Due si voltano e si chiedono cosa debbano fare, si dicono che la cosa migliore forse è aspettare.

 

Futuri Maestri è stato un vasto progetto di teatro partecipato, firmato Teatro dell'Argine / Itc Teatro di San Lazzaro di Savena (Bologna), che ha coinvolto migliaia di giovani, costruito attraverso due anni di lavoro con laboratori di drammaturgia e recitazione che hanno portato a uno spettacolo replicato per nove sere dal 3 all'11 giugno 2017. In scena qualche centinaio di ragazzi e ragazzi, bambini e bambine dai tre ai vent'anni, guidati da una quindicina di adulti fra registi, coreografe, organizzatori, drammaturghi. Cinque lemmi sono stati proposti come guide per leggere la contemporaneità di chi ha oggi meno di vent'anni: amore, crisi, guerra, lavoro, migrazione, temi attorno ai quali si sono organizzati i lavori dei mesi precedenti. Prima di queste sere, a cui hanno partecipato altrettanti ospiti invitati a scrivere e leggere alcune lettere ai giovani (fra gli altri Gabriele Del Grande, Loredana Lipperini, Simonetta Agnello Hornby, Yusra Mardini), inserite negli spettacoli come momenti di dialogo fra adulti e giovani, da marzo ad aprile c'erano stati cinque eventi aperti alla città in altrettanti istituzioni culturali come il Museo di Arte Moderna e Contemporanea, la biblioteca di San Lazzaro, la Cineteca, il Teatro Comunale ecc, dove una serie di personalità avevano incontrato gli adolescenti bolognesi (Michela Murgia, Daniel Pennac, Roberto Saviano, Silvia Spadoni e Bruno Stori, Nicola Sani). Infine, prima e durante lo spettacolo che tenteremo di raccontare, e che abbiamo seguito da vicino conducendo come Altre Velocità un laboratorio di giornalismo, è stata prodotta una mostra con opere commissionate ad hoc attorno alle cinque parole che hanno guidato la gestazione del percorso.

 

Futuri Maestri. Ph: Luciano Paselli. 

 

Veniamo dalla rivoluzione

«Noi,veniamo dalla tenerezza.

Veniamo dal turbamento.

Veniamo dagli antri infuocati della vita.

Dove si dà forma ai sogni.

Veniamo dal disinganno e dall’amarezza.

Ma non dalla desolazione.

Veniamo piuttosto dalla rivoluzione.

Abbiamo aria nei polmoni, fiamme nel cuore,

e terra sotto i piedi da correre senza fermarci.

Abbiamo macinato pensieri come si camminano le strade.

E se siamo arrivati fin qui è perché adesso vogliamo parlare».

 

Marianna usa il microfono, mentre ancora tutti stanno entrando e prendendo confidenza con lo spazio. Ne verranno altre di parole al microfono, in un tono da confidenza intima che intercala il resto delle scene recitate senza amplificazione. Come se questi ragazzi e ragazze avessero di tanto in tanto bisogno di parlarci direttamente, assottigliando il filtro drammaturgico e teatrale che fa da cornice al racconto. Loro sono «gli impuri», un gruppo di oltre cinquanta giovani che ha deciso di andarsene dalla città e dal mondo di adulti senza tempo da dedicare, ammalati di «arterie fangose», vestiti di camicie bianche, consapevoli di vivere come appestati e pertanto di dover succhiare la linfa vitale ai giovani. Un sipario si alza e la prospettiva si sfonda, molti praticabili sono disseminati sul palco, un politico pronuncia un'arringa desolata, terminale e cinica. Per questo se ne vanno, i giovani, eleggono al loro interno due guide, Celestino e Desiderio, scappano ed esplorano, in una fuga esperienziale a tappe che richiama tanti orditi fiabeschi escapisti, da Hamelin a Oz ai viaggi di Jules Verne. Approderanno all'inferno, poi in una città dell'oro e dell'azzardo, dopo in una città militarizzata, infine ascenderanno a un'aristofanesca città degli uccelli e da lì sino alla luna, chiedendosi da quelle altezze se sia il caso di tornare giù per «consegnarvi il nostro turbamento».

 

Futuri Maestri. Ph: Luciano Paselli 

 

Autobiografia e giovinezza a teatro

Come prima si accennava, durante il viaggio qualcuno prende il microfono e ci racconta questo turbamento. Sono parole con la voce che trema, storie “di tutti” a quell'età. Apprendiamo che i genitori non ascoltano e loro si annoiano da soli, a loro «tocca» divertirsi, uscire, fare finta di essere felici, mentre le aspettative premono e si vorrebbe «staccare la spina togliere la corrente»; loro parlano usando teorie di slang, da «sono contento a bestia» a «se non vi dispiace, ce la teliamo, vez», intercalati però, come in un battito di ciglia, da un «Fuori sei fuori / Come un balcone / Come un terrazzo / Fuori da paura / Fuori fa paura». Paiono emozioni vere, uno spaesamento generazionale che finalmente viene portato alla luce, verbalizzato, così che noi adulti possiamo ascoltarlo dalla fonte, quasi senza mediazioni. Già qui emerge una specificità di Futuri Maestri rispetto ad altre esperienze che avvicinano giovinezza e teatro.

 

Nella non-scuola del Teatro delle Albe, per esempio, il filtro drammaturgico resta sempre netto, ragazzi e ragazze parlano di sé ma attraverso i personaggi di Jarry, di Shakespeare o Aristofane e molti altri “classici”, trattati però come compagni di viaggio nella loro adolescenza. Si usano parole scritte secoli prima che alchemicamente si scoprono attualissime, con l'effetto di ridare un'occasione al teatro come connessione fra mondi, dialogo fra antenati nonni padri genitori e giovanissimi, tutti “vivi” a dispetto delle età («Nella non-scuola le età sono usurpate. Aristofane può avere 16 anni, Shakespeare 14, gli adolescenti ben più di 500. Vi sono volti che fanno pensare all’antico Egitto, al Tigri e all’Eufrate, altri al secolo che non è ancora nato. Si ha l’età che si finge, non quella che si dimostra». Da Marco Martinelli e Ermanna Montanari, Età, in Abbecedario della non-scuola del Teatro delle Albe, in allegato a “Lo straniero”, VIII, 2004). Anche altre esperienze recenti hanno usato la chiave autobiografica come una “leva” da riattivare attraverso schemi e strutture drammaturgiche distanti dalle quotidianità biografiche, come nel caso delle tipizzazioni adolescenziali utilizzate dal Collettivo CineticO in <age>, diversi “esemplari” di giovinezza estratti secondo un metodo aleatorio ispirato a John Cage, oppure le suggestioni amorose carveriane e antipsichiatriche scelte per “fare parlare” i giovani del Teatro delle Ariette nel lavoro Di cosa parliamo quando parliamo d'amore?

 

Anche in Futuri Maestri, come detto, opera una struttura letteraria con molteplici debiti e ispirazioni, a partire dagli “impuri” majakovskiani di Mistero Buffo per toccare suggestioni di ascese e cadute di comunità e città, ispirandosi a Brecht e anche alla sceneggiatura del film pasoliniano mai realizzato Porno-Teo-Kolossal, per arrivare infine a suggestioni ariostesche, in cerca di tutte le cose perdute dall'uomo sulla terra come Astolfo. Ma questi riferimenti funzionano di più come spunti di una scrittura scenica molteplice e polifonica, un intarsio drammaturgico non esclusivamente letterario dove gli stessi giovani si sono “dati le parole” attraverso laboratori di drammaturgia e scrittura, in un processo di disvelamento delle proprie individualità. Come se a contare fossero maggiormente le ragioni del racconto di sé e meno quelle della letteratura, pur presente. Le ragioni dell'educazione, forse.

 

Futuri Maestri. Ph: Luciano Paselli. 

 

I giovani, i buoni?

Dismessi gli abiti “grigi”, autobattezzatisi come impuri, i giovani Futuri Maestri si mettono in cammino dandosi come guida Innocenzio, una bambina che entra muta camminando fra due ali di ragazzi e ragazze alzando infine un indice per segnare la via. Quando i percorsi esperienziali e conoscitivi li portano nei pressi del baratro e della perdizione questi giovani sono in grado di “dire di no”, di rifiutare un mondo adulto di traffici e affarismi, di cinismi paure e risentimenti. Seguono una bambina, il suo candore, dimostrandosi dunque piuttosto maturi e responsabili. All'inferno tre diavolacci e Belzebù prima li rapiscono poi cercano di fare affari con loro, nella città dell'oro vengono invitati a giocare d'azzardo per arraffare case e proprietà, speculando sulle disgrazie altrui, nella città militarizzata (Numanzia) un capetto li richiama all'ordine ma loro sanno come sbeffeggiarlo, spernacchiandolo dopo un'arringa dal sapore trumpiano («renderemo di nuovo grande Numanzia»).

 

A ben vedere, dunque, questi giovani appaiono disillusi, un atteggiamento che anche i loro corpi sembrano avere introiettato, lontani da movenze che potrebbero forse destrutturare le linearità, le rassicurazioni del teatro, la stabilità di una trama conoscitiva dove si procede in un cammino di conoscenza “giusto”. Infatti si muovono spesso in gruppo, stanno seduti composti e ascoltano a volte in silenzio, ordinati, così che quasi quasi viene da simpatizzare con i diavolacci e le loro gestualità storte e sciancate. Pinocchio l'abbecedario aveva finito per venderlo, attratto dalla musica e dalle danze del teatrino, i Futuri Maestri dicono di no ai genitori e non vanno alla lezione di danza, ma di fronte alla scelta fra bene e male sembrano avere le idee chiare.

 

Eppure al loro interno è presente una tensione eversiva, per esempio nelle freddure sbeffeggianti di un ragazzino che si chiede che senso abbia stare a teatro, tanto da sua zia c'era posto e i tortellini li fa buoni per tutti, oppure sul finale quando sempre lui se la prende con il tondo di luce proiettato sul fondale, che rappresenta la luna («Ah beh, si sono sprecati!»). Attorno a loro è tutto un brulicare di “cattivi” che creano zone di azione “vive” sistemando e spostando i praticabili in tutto il palco, come le piattaforme su cui salgono i diavoli all'inferno per mostrare le pene dei «nuovi dannati», stipati lì e rei di essere precari, esodati, migranti (ne restano solo le scarpe parlanti, mettendole all'orecchio se ne possono udire le storie, come le conchiglie); o come il plotone di soldati in t-shirt grigia a Numanzia, simili a birilli manovrati dal loro generale e del tutto incapaci di ribellione nonostante la caricaturalità del loro capo, intento a pronunciare prolusioni interrotte da massmediatici «Ciaoni!».

 

Futuri Maestri. Ph: Luciano Paselli. 

 

Il conflitto che non c'è

Se rapportato al contesto sociale e al momento storico di riferimento, Futuri Maestri dice e ci dice molto dell’apparente impossibilità di rappresentazione di un conflitto generazionale, o del conflitto tout court. Scrive lo psicanalista Francesco Stoppa nel suo La restituzione che nel rapporto fra giovani e adulti di oggi vige «[…] non tanto uno scontro, come ai tempi della contestazione studentesca, ma un’indifferenza che, in realtà, isola le generazioni l’una dall’altra. Un’indifferenza che tocca l’apice […] quando i genitori (o gli insegnanti) “istigano” i giovani, rei di essere troppo accondiscendenti alle mode dominanti, a farsi contestatori, ad attaccare il sistema, come loro, in tempi eroici, avevano saputo fare». Insomma un vero e proprio «doppio messaggio (“Ti intimo di trasgredire”), che, ancora una volta, rivela uno spasmodico bisogno di controllo».

 

Il viaggio degli impuri è, almeno nella prima parte dello spettacolo, un percorso di critica che si vorrebbe radicale nei confronti di grandi nodi problematici del presente: migrazione, assenza di solidarietà, consumismo, autorità e potere… Viene da chiedersi però a quale livello e con quali parole tale critica è portata avanti. Il secondo capitolo di Futuri Maestri è immerso in un’atmosfera grottesca e distopica: i praticabili disposti a passerella, mentre la musica scimmiotta sinistramente suoni da luna-park o sala-giochi e si amalgama con il verde-oro acceso, quasi violento, della scenografia. «Venghino, signori, venghino, è la città della cuccagna, dove si vince anche quando si perde»... gli abitanti della Città dell’Oro appaiono allo stesso tempo vittime e carnefici di un “turboconsumismo” cinico e (auto)fagocitante. Gli esclusi da questo processo sono ridotti a “corpi su richiesta” che, defraudati di ogni cosa, mettono in vendita i propri sentimenti e la propria nuda fatica. Chi invece si ritrova ai piani alti attua un’incessante opera di “seduzione”, spingendo a investire, speculare, comprare, a giocare un infinito azzardo economico ed esistenziale. Anche un ragazzo degli impuri viene strattonato a forza dentro una sessione di monopoli ma la sua partecipazione ha ben poco di sincero, rivestendo dal punto di vista drammaturgico più un ruolo di presentazione che di azione. Al termine della scena, Desiderio scioglie l’intreccio declamando con orgoglio il rifiuto del gruppo verso il «sogno di sciagura» del consumismo.

Lavoro, precariato, speculazione, addirittura una ragazza dice «ci vuol poco. Bisogna centrare il target, assecondare il trend, sfidare il market risk. Cash, bond, spread, pil»… forte è la sensazione che a essere rappresentata sul palco dei problemi del presente è in fin dei conti un’immagine prettamente adulta, filtrata da termini e toni tipici del dibattito dominante quasi a mo’ di confessione: come dire – per tornare a Stoppa – «ragazzi, ecco dove ha sbagliato la nostra generazione. Ora tocca a voi ribellarvi e smantellare tutto ciò».

 

Risulta infatti difficile pensare a una gioventù che non partecipi dei processi di consumo (quando invece ne è forse uno dei motori principali), che non subisca in minimo modo la mercificazione degli oggetti e dell’immaginario. In alcune prese di posizione dei ragazzi, risolute e senza tentennamenti, sembra mancare allora quella componente di viscerale curiosità non mediata dall’intelletto e dal giudizio, che spinge sì a cedere alle cosiddette tentazioni ma è anche condizione imprescindibile di qualsiasi impeto di ribellione e desiderio di un “altrove”.

Il conflitto, lo scontro o perlomeno il rifiuto, evocati all’abbrivio delle vicende, paiono disinnescarsi lungo uno sviluppo narrativo che si evolve senza traumi.

 

Futuri Maestri. Ph: Luciano Paselli. 

 

Tutti fenomeni?

Da Numanzia, però, forse qualcosa inizia a cambiare, la massa compatta ordinata si sposta sui due lati del palco, si nasconde dal plotone, poi sbeffeggia il generale, fino alla città successiva degli Uccelli, quando una coreografia eseguita a specchio sembra ridare corpo anche ai Futuri Maestri, che finalmente possono avere un esempio positivo, qualcosa da imitare e non solo da fuggire. Di fronte a loro l'Upupa sposta un braccio, piega un gomito, gira il torso e i cento ragazzi e ragazze dietro fanno altrettanto, con un gruppo di bambini al loro fianco, uniti nelle rispettive diversità. Finalmente sembra intravvedersi un barlume di quel passaggio generazionale altrimenti impossibile e bloccato, un muro che li ha resi “pionieri” del loro presente e futuro (usa questa definizione Stefano Laffi, sociologo il cui lavoro ci pare necessario oggi per provare a pensarsi prossimi a chi ha meno di vent'anni).

 

Andrea Paolucci, uno dei registi del Teatro dell'Argine e di Futuri Maestri, racconta che, avendo a che fare con una massa così vasta ed eterogenea di attori (e scrittori) non professionisti, è stata messa in campo «un'opera di continua mediazione»«Nel momento in cui si andavano a trattare temi controversi, come l'omosessualità o l'immigrazione» dice il regista «abbiamo fatto in modo che ogni parola pronunciata sul palco fosse condivisa da tutti. Ecco che allora ci siamo serviti del sostegno di figure educative che potessero letteralmente “tradurre” la discussione che io avevo magari coi più grandi in una maniera che fosse comprensibile anche ai più giovani e che li rendesse maggiormente consapevoli del senso complessivo dello spettacolo». In sostanza, la scelta operata dall'Argine è stata l'imbastimento di una micro (o macro?) agorà, un campo di incessante discussione democratica di stampo quasi habermasiano. Col limite, certamente, di smussare ed espungere buona parte dei turbamenti biografici di ciascuno e di eclissare i riferimenti al contesto sociale di partenza, ma con l'indubbio merito di riporre con fermezza nella composizione di un discorso collettivo il senso profondo dello stare in scena di ogni partecipante.

 

A voler essere un filo provocatori, viene in mente uno degli ultimi singoli di Fabri Fibra Fenomeno. Nel descrivere la genesi del pezzo, il rapper mette in luce un altro doppio legame del presente: «si rimprovera in continuazione ai giovani di stare sempre su internet, di isolarsi attraverso i social e la comunicazione telematica. Allo stesso tempo però si dice loro che oggigiorno il lavoro ce lo si deve inventare, che occorre appunto fare il “fenomeno” anche solo per poter campare» («ci dite gli sdraiati, gli sfiorati, gli spaesati» declama una ragazzina sul palco). Di fronte a un tale diktat verso un'accentuata e quasi indispensabile esposizione del sé, teatralmente scivolosa perché potrebbe dare adito a un bisogno di partecipazione esclusivamente egoistico, la risposta dell'Argine è molto chiara anche e soprattutto da un punto di vista drammaturgico. «La naturale tendenza dei ragazzi al protagonismo è stata incanalata in un percorso che facesse comprendere loro come l'io dovesse sempre essere messo al servizio del gruppo e dell'obiettivo finale, ovvero di una prova corale» afferma sempre Paolucci. 

 

In un momento storico in cui si dibatte delle conseguenze indesiderate delle politiche identitarie, in cui l'esaltazione del particolarismo anche e soprattutto in chiave emancipatoria sta mostrando i suoi limiti, lo scommettere sulle ragioni del “noi” e sulle esigenze di un'armonia scenica che trova forse la sua massima espressione nella scena degli Uccelli, ci sembra un messaggio significativo e per nulla scontato. In particolar modo se rapportato alle relazioni che di volta in volta si sono create con l'ospite della serata. In fondo, le parabole dei vari “big” – dallo schietto dinamismo di Gabriele Del Grande alla potente sincerità di Yusra Mardino, dalla sciamanica allusività di Loredana Lipperini al genuino volontarismo di Alessandra Morelli – che cosa testimoniano se non la necessità per un “io debordante” di confrontarsi con una comunità di appartenenza, di mediare appunto fra la generica istanza di “emergere” e il mettersi al servizio di una causa che si presuppone come trascendente della propria individualità? 

 

Futuri Maestri. Ph: Luciano Paselli. 


Una microsocietà al lato del teatro

Se le tappe conoscitive teatrali individuali ci paiono dunque meno dionisiache di quanto ci aspetteremmo, forse allora dobbiamo riflettere sul nostro sguardo. Siamo noi che vorremmo vedere questi giovani rompere il teatro, spezzare le scenografie, urlare. Eppure non accade, quasi che Innocenzio stia a indicare una via anche per il linguaggio teatrale odierno, una via utile per provare a “salvarsi”, dunque un teatro non tanto salvato dai ragazzini ma dei ragazzini che si salvano grazie al teatro. È di questa “funzione” che abbiamo bisogno, oggi? Futuri Maestri sembra abitare l'intersezione fra le domande dell'arte e quella dell'educazione, forse propendendo verso queste ultime ma assumendolo dentro all'arte e al teatro, dunque cercando di ottenere effetti riflessi anche per la scena. In fondo riprendendo una delle questioni che hanno innervato il Novecento teatrale, quella tendenza a costruire linguaggi registici pedagogici che hanno previsto la creazione di “piccoli mondi alternativi” al mondo fuori, gruppi di persone al lavoro su di sé con l'obiettivo di riformare il vivere comune, dunque la società (ancora prima che il teatro, o al massimo attraverso il teatro, come si legge nel fondamentale Registi pedagoghi e comunità teatrali del Novecento, di Fabrizio Cruciani).

 

Futuri Maestri declina a tutti gli effetti una rinnovata tensione pedagogica del teatro, per la quale si fa teatro puntando per prima cosa a un mutamento nel comportamento sociale degli individui che partecipano e che assistono. Riportando eventuali risultati al teatro, spingendo chi guarda a porsi una domanda sul proprio perimetro. Noi che li guardiamo, noi che analizziamo e interpretiamo e proiettiamo le nostre domande critiche educative su questi giovani, cosa stiamo facendo per loro?

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