Omero e le nostre prime volte

2 Settembre 2024

Quando entra in scena nell'Iliade (canto III), Elena di Troia sta tessendo una vasta tela. Tesse anche Andromaca, quando nel funesto canto XXII sta per apprendere di essere oramai vedova di Ettore. Sappiamo poi tutti che Penelope, un poema dopo, alterna tessitura diurna e disfacimento notturno per sospendere la condanna nuziale riservatale dai Proci. Ma restiamo all'Iliade

In un poema bellico, cioè un poema di uomini che infilzano uomini con spade, lance e frecce, la donna che tesse, intreccia, prepara ciò che è destinato ad avvolgere un corpo (e non a penetrarlo) rappresenta ai nostri occhi uno stereotipo. Andromaca stava peraltro ottemperando all'esortazione che il marito Ettore le aveva dato tempo prima, nelle ultime battute di un invidiabile (sino a quel momento) rapporto coniugale: "Vai a casa e riprendi le tue occupazioni, / il telaio, la conocchia [...]" (canto VI). Ma sarà poi davvero il caso di parlare di stereotipo? Trattandosi di uno dei testi fondativi della nostra cultura la "forma fissa" (secondo un rudimentale etimo di "stereotipo") era ai suoi esordi, si formava e cominciava a fissarsi trasponendo il mito tessile di Aracne nelle poche scene pressoché domestiche e di vita civile del poema, ai margini della guerra. Forse era la prima volta.

Sappiamo inoltre che Andromaca tesseva fiori variegati su una doppia tela, in porpora, mentre non abbiamo indicazioni di soggetto per quello di Penelope, un lenzuolo funebre per Laerte. A proposito di prime volte, e in bell'anticipo sulle mises en abyme di Jorge Luis Borges, Italo Calvino e Georges Perec, quelle che Elena tesseva erano proprio le gesta di Achei e Troiani, impegnati nelle battaglie di cui la tessitrice stessa costituiva il casus belli

Di tali donne e uomini, di tali armi e amori si interessa un'altra tessitrice, questa volta non propriamente mitologica ma reale e nostra contemporanea, che pare di vedere china su una sua diuturna occupazione. È infatti da credere che la studiosa Silvia Romani – docente di Mitologia e Religioni del mondo classico alla Statale di Milano – prenda del tutto in parola l'etimologia tessile del sostantivo "testo". Dopo libri raffinati e affascinanti come Il mito di Arianna (con Maurizio Bettini, Einaudi 2015) e Saffo, la ragazza di Lesbo (Einaudi, 2022) Romani pubblica Omero, Delle armi e del vero amore (Il mulino, pagg. 142, € 14,00) che si presenta, appunto e a sua volta, come una tela che agli omerici intreccia fili sgargianti e delle più diverse provenienze e caratteristiche. L'ordito è costituito dal solo VI canto dell'Iliade, ai principali temi del quale Romani dedica nove capitoli veloci e sfaccettati. Questi temi sono l'assenza (momentanea) degli dèi, il ruolo delle donne di Troia e il fallimento della loro supplica ad Atena, il montaggio omerico delle scene, la pace separata fra Glauco e Diomede, il codice dell'ospitalità, il ruolo di Elena, l'ultimo incontro di Andromaca e Ettore, la figura tragica del loro figliolo, Astianatte. Quale più, quale meno sono tópoi omerici noti. Ma se date un'occhiata all'indice dei nomi ne noterete molti (di nomi: Bataille, Baudelaire, Camus, Carradine, Dante, Dürer, Heidegger, Hugo...) con cui Romani ha screziato il suo discorso. Non è sfoggio di erudizione: è una risposta alla domanda "Perché leggere Omero, ora che sappiamo come va a finire?".

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Il libro è minuto, entra in ogni tasca senza sformarla e sia per la sua mole sia per la sua scrittura è lieve da potersi leggere all'impiedi in tram. Ma i suoi argomenti hanno grande rilievo.

Nella prima frase del primo capitolo Romani dice che parlerà di un canto solo. Nella seconda dice che questo canto starà per tutti gli altri. Nella terza dice perché ha scelto proprio questo canto, cos'ha di speciale: è il canto delle prime volte. Per la prima volta nella storia letteraria occidentale è in scena una dichiarazione d'amore fra due coniugi ("Così Ettore tu sei per me padre e madre veneranda, / fratello, tu sei il mio sposo fiorente"); per la prima volta è in scena un bambino, per la prima volta il padre del bambino che lo abbraccia per l'ultima volta. E di prime volte ce ne sono molte altre.

Ecco, allora, perché leggere Omero? Perché sappiamo come va a finire ma non sapremmo dire dove fa a finire. Questo ce lo mostra Romani con il suo testo intessuto di rimandi, comparazioni, digressioni che più che a un libello erudito fanno pensare a una conversazione con un'amica che la sa lunga e sa con cosa suscitare la nostra curiosità. Tra le prime volte una delle più struggenti è quella dei versi con cui Glauco risponde al quesito di Diomede sulla sua ascendenza: "Le foglie il vento a terra le disperde, ma la selva / fiorente ne fa nascere a miriadi, quando torna la primavera. / Così è la stirpe degli uomini, l'una fiorisce mentre l'altra si spegne". Oltre a isolare e metterci in evidenza questo tassello (tratto dalla sua stessa traduzione del canto, pubblicata in appendice al libro) Silvia Romani lo collega subito al primo epigono che ha ripreso il paragone omerico fra la caducità della vita umana e quella delle foglie, Mimnermo (VII-VI sec. a.C.). In poche righe si raggiunge il Giovanni Pascoli di Novembre ("di foglie un cader fragile. È l'estate / fredda dei morti" e il Giuseppe Ungaretti di Soldati ("Si sta come / d'autunno / sugli alberi / le foglie"), con quei versicoli che appaiono altrettante escrescenze altrettanto caduche delle pagine e sono stati scritti in guerra, in un bosco. Chiude la digressione Leonardo Sciascia, in un passaggio del suo Consiglio d'Egitto e l'impossibilità per lo storico di raccogliere le voci dei molti caduti inascoltati, come foglie dagli alberi. Omero va a finire in tutti questi luoghi. Riletto, distorto, rovesciato, confutato, superato: ma foglie e vita umana abbiamo continuato a metterli assieme.

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Romani non rimprovera propriamente Omero però in un punto sembra tentata di farlo. Succede quando l'Iliade attribuisce alla perdita di senno di Glauco la sproporzione fra i doni che costui indirizza a Diomede (armi d'oro, cento buoi) e quelli che da Diomede riceve (armi di bronzo, nove buoi). Alla luce del Saggio sul dono di Marcel Mauss e dell'analisi del potlatch di Franz Boas tale sproporzione riceverebbe una spiegazione meno deludente di quella fornita dal testo. Ma se Zeus ha tolto a Glauco il senno di prima, Romani non intende davvero esercitare quello del poi su Omero. È solo che attraverso il primo poema dell'umanità occidentale e il suo canto "delle prime volte" vuole indurci a misurare le distanze e le percorrenze che i suoi temi hanno attraversato giungendo sino a noi. Perché a noi sono arrivati, in mille modi, collegati a mille fili. 

Allora non è soltanto un gioco di corrispondenze, quello che dall'accordo di desistenza fra Diomede e Glauco ci fa passare all'Ariosto della "gran bontà de' cavallieri antiqui" e di qui ai duellanti di Joseph Conrad di Ridley Scott. È l'assai più vasto gioco della rilettura e della riscrittura dei miti, del modo in cui continuiamo a raccontarceli, adattandoli e rovesciandoli e sempre trovando qualcuno che, come Elena con la sua tela, da dentro il racconto lo racconta. Forse, opina Romani, per un anticipo di contrappasso dantesco.

Lei vi racconta che Omero racconta che Elena racconta. Io vi racconto di Romani che vi racconta di Omero. Alzando gli occhi dal racconto, là fuori vediamo l'amore e vediamo la guerra. Il contrappasso, insomma, ci riguarda sempre.

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