Una socialità inedita / Una nuova semplicità
Credo che Matt Haig sia un buon testimone del suo tempo. Si muove nella realtà con una videocamerina fissata sul suo caschetto, come fanno certi ciclisti, e ti fa vedere ogni cosa, ma senza stare lì sempre a spiegarti il perché e il percome, è in presa diretta, lui va in giro per il nostro mondo e senza particolari filtri te lo mostra con istintività, con le ingenuità e le scaltrezze di un avido osservatore. Questa è la sensazione che si prova e che non ti abbandona mai leggendo i libri di Haig, Ragioni per continuare a vivere e Vita su un pianeta nervoso, (entrambi editi da E/O 2020). E per questo credo che possano essere una bella testimonianza antropologica di come sia oggi l’effettiva sensibilità collettiva. Tutto è in prima persona, singolare o plurale. Non c’è nessun diaframma tra chi racconta e il mondo. Non c’è mediazione, il collegamento con le cose è diretto. In un certo senso non ci sono protezioni, come se chi scrive fosse il semplice cronista di sé. Un cronista “Privo di complessità, con sfumature che vanno dalla facilità all'immediatezza elementare (…), dall'essenzialità alla naturalezza, dalla sobrietà alla modestia, dall'ingenuità alla dabbenaggine”, come dice il dizionario alla parola “semplice”.
Con pragmatismo tutto anglosassone la semplicità di Haig ci mostra quanto il nervosismo del pianeta (lo vedremo dopo) in cui viviamo abbia prodotto una sensibilità dominante lontanissima-vicinissima all’animismo primitivo, in cui l’intermediazione tra l’individuo e il mondo è (ripetiamolo, alla noia) ridottissima. Una realtà in cui chimica e feticci, Xanax e zampe-di-coniglio, si assomigliano sempre più perché entrambi funzionano. Ci saranno farmaci nuovi e i feticci si presenteranno in una versione aggiornata sotto forma di oggetti e comportamenti inediti, ma sembra evidente che la drastica riduzione dell’uso dello spirito critico sia alla radice degli usi e costumi delle nuove collettività. Una riduzione che produce masse accidentali costruite su flussi “culturali” momentanei (politiche e anti-politiche strampalate, velleità emozionali, interiorità ridotte al minimo, angosce tradotte in violenza) che, non solo in Occidente, accettano con leggerezza anche di affidarsi ai politici più spregiudicati se non folli, come è emerso in tutta evidenza nella pandemia. Per questo, mi pare, la cogente semplicità dei libri di Haig ti prende, ti costringe, appunto, a misurarti con l’attualità immediata. Questo credo sia la scelta “metodologica” di Haig: oggi sta diventando dominante una prensilità semplice sul mondo, fatta di accenni alle scienze e alle teorie, ma soprattutto di una osservazione, più o meno attenta, del gesto quotidiano “effettivo”, umile, sonnolento, umorale. Haig non parla di banalità e sciocchezze. I suoi temi sono cruciali per la comprensione della nostra contemporaneità e lui li afferra con la sua “semplicità” e li conduce all’evidenza. Come dire, semplicità al servizio della complessità. E, in questi tempi di semplificazioni pericolose, è una importante qualità.
Succede con Ragioni per continuare a vivere, un libro del 2015 riedito oggi da E/O, in cui Matt Haig, autore giovane e noto, a un certo punto ha voluto, alla sua maniera, confrontarsi con “il cane nero” (Samuel Johnson) della sua depressione. Il dolore, si sa, non è il suo racconto. E saper andare in profondità nella propria sofferenza e renderne conto con efficacia non è cosa da tutti. È già molto, senza sottigliezze psicoanalitiche o filosofiche, saper dare dei nomi, riconoscere sintomi, prevenire il disagio. Il caso particolare contiene sempre, per così dire, un suo fascino specifico, una sua declinazione unica che lo rende exemplum (per capire che cosa intendo vedi la Storia della mia depressione di Andrea Pomella, qui, un racconto dall’intensità assolutamente significativa). Altro è immergersi negli studi teorici, nelle statistiche e nelle riflessioni di chi con la ricerca prova a trarre conclusioni universali.
Haig lo fa dal fondo di una “depressione primaria” (in parole povere, quella legata a fattori genetici), e ricostruisce passo passo tutta la sua evoluzione, a partire dal momento di decidere se gettarsi dalla scogliera alla conquista della (sempre relativa) serenità. Lo fa, dice, per due ragioni: “attenuare lo stigma” che chi soffre sente su di sé, e convincere i lettori che “da fondo valle non c’è mai la vista migliore”. A un certo punto l’autore ha l’urgenza di fare l’elenco delle ragioni per continuare a vivere, deve avere in mano la lista precisa dei suoi obiettivi e, dopo l’ennesimo dialogo tra “il Me di oggi” e “il Me di allora”, lo scrive come fosse il promemoria definitivo a cui appigliarsi: 1. Sei su un altro pianeta. Nessuno capisce che cosa stai passando […]. 2. Le cose non peggioreranno […]. 3. Ti odi. È perché sei una persona sensibile. […]. 4. Ti hanno etichettato come depresso? E allora? […]. 5. La sensazione che tutto sia destinato a peggiorare è solo un sintomo. 6. Ogni mente ha il suo ambiente climatico. […]. 7. Ignora lo stigma. […]. 8. Nulla è per sempre. […]. 9. Le menti si muovono. […]. 10. Un giorno proverai una gioia pari a questa sofferenza. […]. (pp. 132-3).
È un continuo abbassare e alzare lo sguardo, sul proprio ombelico e poi sul mondo, e poi di nuovo sull’ombelico: “Cose che mi fanno stare peggio Caffè. Mancanza di sonno. Il buio. Il freddo. Settembre. (…) (p.237)”. Un giorno Haig decide persino di lanciare l’hashtag #reasonstostayalive, una sorta di concorso di idee, e la rete generosa risponde e tra le risposte arriva anche questa meraviglia di @lillianharpl: “Perché l’altra opzione non è flessibile” (p.231). Nel peregrinare tra il particolare e il generale, Haig incontra con favore la teoria evoluzionistica della depressione dell’americano Jonathan Rottemberg per il quale la malattia sarebbe determinata dall’incapacità di adattamento al presente: “Un sistema umorale antico è entrato in collisione con un ambiente operativo recentissimo, creato da una specie straordinaria” (p.245).
Allargando del tutto lo zoom, Matt Haig ha poi lanciato la sua semplicità sul mondo in Vita su un pianeta nervoso (E/O 2020). Si tratta di vedere, dice Haig, “fino a che punto i nostri stati mentali, sia in caso di vera e propria malattia psichica, sia quando si tratta solo di stress, derivino in una certa misura da stati sociali. E viceversa. Voglio capire cos’è che, in questo pianeta nervoso, interferisce” (p.41). Con la chiave di una “mente stressata in un mondo stressato”, titolo del primo capitolo, ci apre le porte del malessere contemporaneo; entra nelle stanze delle “Ansie da internet”, dello “Shock delle notizie”, dei problemi del sonno o della paura del telefono (Come possedere uno smarthphone e continuare a funzionare come essere umano, titola il paragrafo). Stila “liste di cose da ricordare in merito al lavoro” e rivede le priorità del vivere quotidiano (visitare un rifugio per senzatetto, socializzare dal vivo almeno una volta la settimana, stare davvero bene da soli).
Scrive Haig nel paragrafo Da ricordare di Il pianeta nervoso: “Sentire di non avere tempo non significa non averne. Sentire di essere brutti non significa esserlo davvero. Sentirsi ansiosi non significa che ce ne sia motivo. Sentire di non avere realizzato abbastanza non significa non aver realizzato abbastanza. Sentire che ci manca qualcosa non ci rende meno completi” (p.109). Sono riflessioni profonde e sottili, che presuppongono un sostanziale affetto per la vita; un affetto che impedisce ai nudi strumenti di scienza-e-tecnica di strapparcelo di mano, come di solito fanno quando si impossessano dei problemi.
Non so se e quanto Matt Haig si senta portatore di un modo speciale di osservare il nostro mondo, quello che a noi interessa è l’effetto della sua semplicità sulla nostra modalità percettiva. Sto dicendo che, forse, proprio di semplicità abbiamo bisogno, non meno che della complessità. Abbiamo bisogno di tutti e due i registri, di una semplicità che non semplifichi, fatta di competenze, che non sia approssimazione ma contenga la complessità, di un semplice costruito con il complesso. Il momento storico che viviamo, chissà, potrebbe pure essere quello giusto. Con mille precauzioni. In un capitolo successivo, Nota sul volere Haig dice: “Va benissimo volere qualcosa: la fama, sembrare giovani, diecimila like, addominali scolpiti, ciambelle; ma volere indica anche una mancanza. Perciò dobbiamo stare attenti a ciò che vogliamo, per evitare che questi desideri aprano troppi fori dentro di noi; altrimenti la felicità scorrerà via come acqua da un secchio bucato. Volere significa essere insoddisfatti. Più vogliamo, più finiremo per prosciugarci” (p.307).
Tempo fa parlavo del bisogno di “una nuova sensibilità” (La sensibilità della mela), oggi stiamo sperimentando incredibili novità che coinvolgono letteralmente tutta l’umanità, e c’è un gran ragionare di trasformazioni e cambiamenti possibili: “forse” (parola chiave di Haig) dovremmo partire proprio da una Nuova Semplicità, maiuscola, per pensare a una socialità inedita e sperabilmente migliore. Se io, né intellettuale né capra, volessi farmi raccontare che cos’è la depressione, preferirei sentire che cosa ne dice un grande psichiatra o uno qualunque che l’ha avuta e riesce a parlarne? E così il mondo: se a raccontarlo fosse uno che non è né intellettuale né capra, il suo racconto lo intenderei meglio? Il suo linguaggio, le conoscenze che ha a disposizione, il modo stesso di avvicinarsi alle cose più spinose, più inquietanti, forse somiglierebbe a quello che io userei, il modo della medietà, appunto? La questione non è marginale e ci si potrebbe/dovrebbe seriamente lavorare a lungo. Di sicuro nel qui e ora, come sembra suggerire anche Haig, è piuttosto evidente che ci sia “una domanda di semplicità”, un’istanza della Semplicità, per così dire, che nasce dal bisogno che abbiamo di riprendere l’efficacia della comunicazione tra noi umani contemporanei.
Matt Haig, Ragioni per continuare a vivere, (2015), E/O 2020, pp.285, Euro 16,50.
Matt Haig, Vita su un pianeta nervoso, E/O 2020, pp.411, Euro 15,00.