“La felicità non è affidabile. La malinconia sì” / Joyce Carol Oates, Ho fatto la spia

30 Giugno 2020

“La felicità non è affidabile. La malinconia sì”.

Joyce Carol Oates non ha mai sbagliato un libro, e non ne ha scritti un paio, siamo più vicini ai cento che ai cinquanta, se vogliamo pensare solo alle opere di narrativa. Dopo averla letta per molti anni, possiamo affermare senza timore di essere smentiti che ci troviamo davanti alle pagine di una delle maggiori scrittrici contemporanee; è altrettanto vero che tale pensiero, sotto forma di suggestione, potrebbe venire in mente anche a chi si trovasse a leggerla per la prima volta. Non c’è una sola pagina di Oates, che venga da un romanzo, da un racconto o da un saggio, o da una poesia, che non provochi nel lettore il luminoso salto, il famoso click cui si riferiva, per esempio, David Foster Wallace, quando parlava dei racconti di Donald Barthelme. Qualche tempo fa sono stati pubblicati in Italia i saggi che Oates ha scritto sul suo sport preferito: la boxe (Sulla boxe, 66thand2nd, traduzione di L. M. Pignataro). In quel libro, che parla di uno sport solitario e particolare, la scrittrice americana sfoggia passaggi di tale potenza narrativa da far sembrare dilettanti parecchi romanzieri. Perché succede? Perché la boxe ha nella sua essenza molti degli elementi delle battaglie solitarie cui siamo sottoposti nelle nostre giornate, battaglie che quasi sempre perdiamo. Succede, però, ed è questo il motivo più importante, perché Oates ruota il punto di vista da un pugile all’altro, li stana, li riconosce, poi li racconta. Il suo talento le consente di cogliere la parte più cupa, più violenta, più debole, più sola di ognuno di loro. Il risultato di tutto ciò è letteratura allo stato puro. Anche in quel piccolo cardine di faccende di sport emergono i suoi grandi temi: la violenza, le debolezze umane, i valori e i disvalori, la vittima, la sottomissione, il razzismo, la famiglia, l’America tutta quanta, un vero ring, un giorno a braccia alzate, quello dopo a tappeto.

 

“Una dolorosa verità della vita di famiglia: le emozioni più dolci possono cambiare in un istante. Tu credi che i tuoi genitori ti amino, ma è te che amano o il figlio che è loro?”

Temi che sono fondativi di tutta l’opera di Oates, che partendo quasi sempre dalla famiglia, quindi da un piccolo nucleo ha raccontato la devastazione americana, più reale del sogno americano (che viene realizzato da pochi), basti pensare ai quattro formidabili romanzi che compongono Epopea americana o a Una famiglia americana (tutti editi da Il Saggiatore) o ancora a Sorella mio unico amore (Mondadori) e Una brava ragazza (Bompiani). La famiglia, la vittima, il razzismo, la violenza a più livelli e la solitudine sono di nuovo qui in Ho fatto la spia (La nave di Teseo, 2020, traduzione di Carlo Prosperi), il recente e formidabile romanzo di Joyce Carol Oates. Un libro importante dal punto di vista sociale ed emotivo, indimenticabile sotto l’aspetto narrativo.

“Amava i miei fratelli in modo diverso da come amava me e le mie sorelle, un amore più feroce, un amore più esigente, mescolato all’insofferenza, talvolta persino allo scherno; un amore tagliente. Nei miei fratelli rivedeva se stesso e di conseguenza ci trovava errore, persino vergogna, un bisogno di punizione. Ma anche una cecità, il rifiuto di distaccarsi da loro”.

 

 

La scrittura di Oates funziona come il letto di un fiume, si ingrossa e diventa tumultuoso col passare del tempo, il suo fiume è sempre ricchissimo, l’acqua è più scura che chiara, l’acqua è un monito. Carver scriveva che alla base dei suoi racconti c’era sempre qualcosa di realmente accaduto molti anni prima della fase della scrittura. Quel qualcosa rotolava nel tempo come una palla di neve verso la valle, arricchendosi di altre faccende, fatti, mischiandosi con più elementi, arrivando giù ormai valanga, a quel punto c’era la storia su cui lavorare. La scrittura di Oates procede più o meno allo stesso modo, eccetto il fatto dell’elemento personale in partenza (almeno non lo sappiamo: ma l’elemento personale può essere un piccolo ricordo, un articolo letto su un giornale, un’occhiata fuori dalla finestra). 

 

Alla base di Ho fatto la spia c’è un racconto che risale a diciassette anni fa. In un’intervista recente al Guardian, Oates ha detto di aver sempre avuto presente come si sarebbe sviluppata la vicenda di Violet Kerrigan, la protagonista. Nel frattempo ha continuato a scrivere scene, passaggi, lavorando sul fronte della violenza, dell’abbandono da parte della famiglia, sul senso di colpa, sulla paura, portando a termine un romanzo straordinario. 

“In una famiglia la cosa migliore è non pensare affatto. Semplicemente, nulla di nulla.”

Violet ha dodici anni quando la sua vita cambierà per sempre. È la più piccola di sette figli di una tradizionale famiglia di origine irlandese che vive a South Niagara. Piccola e adorata dal padre e dalla madre, come dai fratelli e dalle sorelle maggiori. La madre sempre dedita alle faccende di casa, silenziosa, sottomessa al marito, gran lavoratore, rigoroso e tradizionale, rigido e severo con i figli e con tutti. Ma i figli maschi sono amati in maniera diversa, dal padre di Violet, padre che torna spesso di sera ubriaco. I fratelli sono violenti, in passato sono stati accusati di aver partecipato a una violenza di gruppo ai danni di una compagna di scuola ritardata, ma in qualche modo l’hanno scampata.

 

Violenti e razzisti, anni dopo hanno investito con l’auto un ragazzo nero, sono scesi dall’auto e lo hanno massacrato prima di botte e poi con una mazza da baseball ammazzandolo. Quella notte sono tornati a casa e Violet li ha sentiti, Violet che li adora, che vuole essere accolta dai fratelli. Li sente bisbigliare, li vede che vanno a nascondere la mazza da baseball non molto lontano da casa. Violet sa cos’hanno fatto, anche se non le è del tutto chiaro, è piccola ha solo dodici anni. Promette di non dire mai una sola parola su quello che ha sentito. Violet non manterrà quella promessa, da quel momento comincerà a essere la vittima sommersa dai sensi di colpa. Oates è di questo che vuole parlarci, di chi è più debole. I violenti, i razzisti, coloro che commettono i soprusi le interessano meno. Esistono e risultano ancora peggiori se mostrati attraverso l’occhio di chi subisce, di chi non li asseconda, di chi è costretto a scappare.

“Questa è la grande debolezza – desiderare di essere benvoluta, amata. Rinunci a qualsiasi dignità quando vuoi essere benvoluta, amata”.

 

Violet, angosciata dalla paura, accusa i due fratelli e da quell’istante nulla le sarà perdonato. La famiglia – che ha tradito – la allontanerà. Prima andrà in affido in una comunità, poi per molti anni presso degli zii in un’altra città. Padre e madre non le parleranno mai, le sorelle raramente e, in un misto di paura e freddezza, al telefono. Violet è il manifesto dell’abbandono. Passerà parecchi anni in mezzo alla violenza ma resisterà. Subirà violenza da un professore di matematica, schifoso manipolatore, che addormenta le ragazzine, scatta loro foto, ne abusa. In seguito, diventerà il perverso oggetto del desiderio di suo zio, che si trasformerà da uomo mite in maniaco. Cambiando, di nuovo, città, ormai adulta, per pagarsi gli studi si metterà a fare le pulizie, qui entrerà in contatto con un uomo ricco e strano che ne farà la sua amante, ma anche qui la tenerezza non c’entra, e non c’entrano il desiderio o la compagnia. C’entrano il potere e il controllo. Violenza dopo violenza, trauma dopo trauma, Violet resiste pur fallendo quasi tutti i tentativi di riavvicinamento alla famiglia. Ricordiamo: lei è la vittima, ma continua a sentirsi in colpa per aver devastato la famiglia, come se quella mazza da baseball in mano l’avesse presa lei.

Per Oates non c’è redenzione, intanto perché Violet non ha bisogno di essere redenta. Nessuno la salverà, dovrà provarci da sola. Gli altri sono tutti colpevoli, lo è ogni membro della famiglia, perfino la zia che le mentirà per molto tempo facendole credere che sua madre chieda di lei, lo sono gli assistenti sociali, schiacciati e indeboliti dal sistema. Lo è tutta la comunità. L’America è razzista, è violenta, è misogina, è omertosa.

 

“Volti di sconosciuti sorprendenti e bellissimi. Occhi di sconosciuti sorprendenti e bellissimi. Gli altri giorni sono attutiti e indistinti e scorrono come sott’acqua. Devo trascinarmi attraverso il loro susseguirsi. Costringermi a respirare. Mantenermi in vita è l’obiettivo. Oggi sento che è possibile”.

 

Violet è un personaggio straordinario, Oates la rende capace di pensieri profondi e scoordinati, le dà voce attraverso numerosi passaggi in corsivo, come se tutto fosse pensato e quindi taciuto. Violet appena può scappa, non denuncia, perché denunciare è la colpa. Silenzio sull’amante, sullo zio, sul professore. Se parla sarà di nuovo additata, abbandonata, colpevole.

Eppure Violet non odia nessuno e non smetterà mai di tentare un avvicinamento, un ritorno. Lei non ha nessuno da perdonare, vorrebbe essere perdonata. Oates con la sua prosa straordinaria ci mostra l’America per quello che è. Per farlo, non ha bisogno di descrivere il sangue, la violenza sessuale, la violenza psicologica, le basta portarci nel cuore di ogni personaggio, ce lo mostra. Buoni e cattivi non possono nascondersi, i primi – qualche volta – possono tentare la via della salvezza.

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