Sulle scene, dietro le scene / Lo spettacolo dell'anno
Sono cinque anni che la rubrica di teatro esce su Doppiozero. Cinque anni di sguardi, cronache, dissezioni anatomiche e visioni di giardino nel corpo di questa fragile, forse inattuale arte. Di entusiasmi, polemiche, sconfitte, scoperte. Abbiamo pensato di regalarci un gioco: di farci i nostri “premi Ubu”, scrivendo cosa della stagione immediatamente trascorsa, dei tempi del teatro, ci è piaciuto, o immaginando cosa ci riserva l’immediato o prossimo futuro. Bisognava nominare uno spettacolo, un artista, o anche un problema, una crisi, o qualcosa che sta emergendo… Abbiamo coinvolto non solo quelli che scrivono più assiduamente, ma anche amici che sono intervenuti magari solo una volta e artisti cari, che in alcune occasioni ci hanno donato loro scritti, loro sguardi. Alcuni hanno risposto subito, altri, isolati in montagna o alle prove di qualche spettacolo, non hanno potuto aderire.
Ne è sortito il monstrum che leggerete, perché, naturalmente, molti hanno scantonato (ma neppure tanto) dal compito assegnato, tanto da creare un discordante collage di umori e visioni, componendo, piuttosto che il ritratto dello spettacolo migliore, un composito affresco dello stato dello spettacolo in quest’anno in Italia. Hanno risposto e qui pubblichiamo, più o meno rigorosamente in ordine di arrivo, Massimiliano Civica, Attilio Scarpellini, Lucia Calamaro, Rossella Menna, Matteo Brighenti, Massimo Marino, Roberta Ferraresi, Maddalena Giovannelli, Iside Moretti, Lorenzo Donati, Lorenzo Pavolini, Giuliano Scabia. Buon anno e grandi sogni a tutti (Ma. Ma.).
Con Amore (Massimiliano Civica)
L’opera fondamentale del 2016 è Amore di Spiro Scimone e Francesco Sframeli. I due artisti, il più grande drammaturgo e il più grande attore che abbiamo oggi in Italia, assieme ai loro collaboratori, sono riusciti a creare uno spettacolo che è un balsamo per l’anima. In spirito di verità, con crudele precisione, hanno portato in scena questioni umane che ci riguardano tutti: la difficoltà di amare fino in fondo, la paura di aprirsi all’altro, l’incapacità di comunicare i nostri sentimenti e di impegnarci in scelte di vita che richiedano sacrifici al nostro egocentrismo, il nostro essere sconosciuti a noi stessi, la nostra mancanza di ideali e il nostro tirare a campare con italica furbizia.
Ma in questa nostro tempo post-ideologico e post-moderno – in cui il sorrentiniano “hanno tutti ragione” è solo l’eufemistico risvolto del condiviso credo che “facciamo tutti schifo” con cui ci legittimiamo a partecipare alla gara di chi riesce a “fregare” meglio e prima gli altri – Sframeli e Scimone hanno avuto il coraggio di concepire uno spettacolo che non si ferma alla solita autocompiaciuta pars destruens, ma che si apre a un “oltre”, a una dimensione ultramondana che recupera e ricompone i Valori.
Tutti i personaggi di Amore sono infatti morti e si rincontrano in un aldilà in cui riescono finalmente a capirsi. Uno spettacolo religioso dunque, ma di una religiosità aperta alla Aldo Capitini, in cui la fede nella compresenza dei vivi e dei morti e la fede nel fatto che ogni vita, anche la più piccola e misera, costituisce sempre un’aggiunta fondamentale a tutti noi, è vissuta non come certezza ma come una speranza a cui è doveroso abbandonarsi.
Amore ci dice che dobbiamo sperare che, in un altro tempo e in un altro luogo, ci rincontreremo, per perdonare e perdonarci. Uno spettacolo pieno d’amore, compassione e speranza. E tutto questo realizzato senza effetti speciali, ma con i mezzi poverissimi del più puro teatro: la parola e quattro grandi attori a incarnarla.
Nessun teatro italiano ha reputato opportuno produrre questo spettacolo, il cui costo di realizzazione è ricaduto unicamente sulla Compagnia Scimone-Sframeli. L’anno scorso lo spettacolo ha avuto meno di dieci repliche, e, a quanto ne so, l’anno prossimo ne avrà ancora meno. Eppure è in lizza, tra gli altri riconoscimenti, per il Premio Ubu come miglior spettacolo, senza, come già detto, un grande teatro “pubblico” dietro a produrlo e a farlo circuitare tramite il sistema degli “scambi”. Tutto ciò dice molto di quanto in Italia i produttori tengano in conto la Critica e il Pubblico, e il loro dovere di produrre la “qualità”.
Mi auguro che Amore vinca il Premio Ubu per il miglior spettacolo. Non me lo auguro per Scimone e Sframeli, che di certo non hanno bisogno di un ulteriore riconoscimento per certificare la validità e il senso del loro fare teatro. Me lo auguro per il pubblico. Perché forse, grazie a questo premio, un paio di piccoli teatri decideranno di comprare un paio di repliche a testa di Amore, e così qualche centinaio di spettatori avranno la possibilità di riscoprire cosa è il Teatro.
Didascalia (Attilio Scarpellini)
Magro, elegante, di profilo come una sagoma ritagliata, i pantaloni che gli ricadono sulle scarpe, nere come il completo che indossa, l’uomo della fotografia incurva appena un po’ le spalle per impugnare la pistola con due mani in una posa da manuale, nella quale si è a lungo esercitato per mestiere, che inesorabilmente è una posa da film. È immobile e ancora pronto all’azione, le sue braccia si tendono parallelamente alla linea di una serie di fotografie appese a una lunga parete bianca che al pari del pavimento, lucido e anch’esso bianco, spara una luce algida e incantata su tutta l’immagine. In primo piano, poco distante da lui, un altro uomo, anch’egli in abiti scuri, è steso a terra con le braccia aperte e i piedi divaricati: morto, come poi si apprenderà, ma senza che sul suo corpo imponente si intraveda una sola goccia di sangue.
Ricorderemo questa scena, ma la cosa peggiore è che appena l’abbiamo vista, sulle prime pagine dei giornali, il 20 dicembre di quest’anno, l’avevamo già ricordata: il suo déjà vu richiamava irresistibilmente quella ridda di cliché e di analogie che si ammassano nella nostra percezione di una realtà viziata da un eccesso di immaginario. Era “cinema”, e “arte contemporanea”, era addirittura “teatro” – misconosciuto paradigma di ogni rappresentazione di cui una spettacolarità ormai installata nel sistema nervoso del mondo cancella, quasi con vergogna, le tracce. Mai come oggi è vero quel che scriveva Walter Benjamin nella sua Piccola storia della fotografia: che le immagini sono destinate a non comprendere più se stesse senza la propria didascalia. E la didascalia recitava che il ventiduenne poliziotto turco Mevlüt Mert Altintas (l’uomo in piedi) aveva ucciso a colpi di pistola l’ambasciatore russo ad Ankara Andrej Karlov (l’uomo a terra) e che poi, secondo una parabola ormai nota, e nota soprattutto all’attentatore, era stato ucciso, e si era lasciato uccidere, a sua volta. Sarebbe bastato poco per comprendere che questo atto di morte, subito rubricato alla voce sommaria “terrorismo”, ripeteva un rito più antico di quello dello stragismo jihadista – e di chi rade al suolo città per liberarle – l’anacronistico rito dell’omicidio politico di cui hanno parlato André Malraux e soprattutto Albert Camus, in una pièce, Les Justes, che non viene quasi mai rappresentata.
Ma, con la didascalia, anche l’urlo di memoria e di vendetta lanciato da Mevlüt dopo il suo assassinio (“ricordatevi di Aleppo!”) si spegneva nella sua gola soffocato dalla “potenza dell’immagine”. Un’altra fotografia, scattata dallo stesso fotografo ma in un’altra prospettiva, vedeva quell’urlo esplodere, muto e oscuro, allungando il viso lungo dell’assassino, con un braccio alzato e il dito (un lungo dito) minacciosamente puntato verso l’alto: questa figura plastica di killer con accanto il suo cadavere, che, svettando al centro del whitecube, ricordava le statue di cera iperrealiste di Duane Hanson o – suggeriva a precipizio il web – Cattelan, o Matrix, o La febbre del sabato sera, o Castellucci, o… o…, questa imitazione vivente di qualcosa di già noto e mai conosciuto, avrebbe potuto urlare qualunque cosa. Entrava in un possibile atlante warburghiano delle urla e delle lamentazioni. Avrebbe potuto, persino, intonare un acuto da rockstar. Perché Mevlüt Mert Altintas, in fondo, era un uomo del nostro tempo, cioè, essenzialmente, un attore. Anche se cosa o chi sia realmente un attore, questa creatura sospesa ai limiti del visibile, continua a non saperlo nessuno.
Sulla scena della galleria di Ankara, l’effetto precede la causa e la nasconde. Le foto di Buran Ozbilici, un virtuoso del momento decisivo, appartengono al novero delle immagini che la studiosa Dorota Semenowicz ha definito (parlando proprio del teatro di Romeo Castellucci) “fuori controllo”. Spero che nessun teatro contemporaneo si stia preparando a imitarle. Non per un limite morale. Ma per un limite di senso che lo spettacolare visibile pone ormai all’arte. È su quello che nelle immagini non c’è (e sull’ “immagine di quello che non è”, come voleva Artaud) che, credo, il teatro di oggi si dovrebbe ripiegare.
Ritratto di Assistente (Lucia Calamaro)
Nella sua forma ideale l’ho trovato di recente. Se ci fosse un Ubu per l’Assistente alla regia se lo meriterebbe. La ritratto qui, perché nel tempo, incontrare questo ruolo è stato difficile. La persona giusta, che può stare vari mesi al tuo fianco senza urtarti troppo ed essere utile sia a te che al progetto è rara. Ma avendola trovata, finalmente, le sue qualità mi piacerebbe innalzarle a categoria, e rendere i suoi modi naturali, la norma del mestiere.
Per comodità di genere, intesa naturale, prossemica non invasiva e clima da vestuario, io la preferisco donna. La mia candidata lo è, ma la declinerò in neutro, perché le sue qualità sono adatte a qualsiasi forma di Assistente.
È di poche parole. Taciturno e osservatore. Uno che anticipa. Scatta. Si esige. Intelligente, veloce, stakanovista, privo della nozione di lamento. Colto. Se si può un tantino viaggiato e cosmopolita. La pratica di varie lingue non guasterebbe. L’Assistente alla regia non può essere uno che non sa niente e vuole imparare tutto, deve essere al contrario uno preparatissimo su diversi versanti ma ancora nuovo, un po’ impaurito, privo di pratica di palco. Sensibile, cerca di capire i bisogni senza chiederli. Il più delle volte ci azzecca. All’inizio meno, ma dopo un due settimane è operativo. Giudizioso. Giudicante. Ancora dogmatico.
A parole ha spesso torto ma si ricrede volentieri. Di suo, ancora insicuro; ma fiancheggiando altri, un Caterpillar. Non necessariamente solare, quasi mai di ottimo umore, l’Assistente alla regia è il luogo dove la preoccupazione diventa occupazione, per questo sorride poco e fa tanto.
Si muove nell’universo delle liste. Ogni giorno cancella più cose fatte possibile e slitta quelle ancora da fare nella nuova lista. La lista è tutto. Sta spesso inchinato, inginocchiato, messo storto, dietro i fili, sulla scala, sotto il palco, in posizioni limite, scomode, sbilenche, risolvendo di suo l’assenza di macchinista, fonico, luciaio. E poi a: ma ti serve uno mano? Risponde sempre: no, no, ho quasi fatto.
È in pratica un tuttologo dell’al di qua del teatro. Non deve fare il regista, deve voler far reggere la cosa spettacolo, è diverso. E gli attori e io sappiamo che se se ne andasse sarebbe una mancanza sensibile, un vuoto definito, insomma un bel buco.
Ti ascolta. Sente anche quando non parli. Dopo un po’ agisce in osmosi. Ti sa. Ti potrebbe sapere. Ha capito l’antifona e questo è un grande, grandissimo sollievo e aiuto per te. Se tu non cambiassi idea continuamente aiuterebbe a finire la cosa in baleno. Ma tu cambi idea. Varie volte al giorno purtroppo. In una settimana di prove quante? Quante volte? Lasciamo perdere va. E allora, con un minimo di stupore oramai, che si manifesta in un fermo dello sguardo di pochi secondi, incassa e si adegua, senza il minimo lamento. Nel mio ideale la conversazione va cosi: – Ma ieri avevi detto così. – Sì ma ho cambiato idea. – Ah, ok.
Sulla sua persona ci conti ma non ingombra, è come se non ci fosse in sala prove proprio perché c’è tantissimo e si mischia nel lavoro attivamente, senza appoggiarsi su nessuno. Ha declinato da solo il suo dominio, che è vasto; e solo a volte, in casi rari di assoluta stanchezza, ti invita a collaborare alle sue mansioni
L’Assistente ideale sa cosa deve fare, perché sa che tu non ti aspetti da lui che sia come te, ma semplicemente che sia come lui è e arrivi dove te, per mancanze, derive e noia, non arrivi. E soprattutto sa che il silenzio è la condizione giusta per fare.
Per tutto questo e altro ancora, è un ruolo, se ben fatto, di altissima complessità, un ruolo sofisticato sia nella gestione umana che nella gestione del dettaglio tecnico. Un ruolo che merita.
Il teatro mi delude sempre (Rossella Menna)
Il teatro mi delude sempre, forse perché ne ho travisato il senso piegandolo a una ortodossia drastica inventata e impraticabile. Di fronte a un’opera, io mi aspetto di sprofondare in una architettura siderale che riassuma ogni variabile di ogni tempo, spazio, discorso e dimensione, in una lingua necessaria, lieve, chiara e marziale: il presente politico e privato, il futuro nell’inattuale senza teleologismo; e poi il giudizio, l’autoinganno, la confessione, l’impotenza, l’origine, il destino, le tracce storiche sociali e culturali, le stratificazioni reali, mimate, alterate; i buchi per le sovrainterpretazioni e gli ipercorrettismi, l’universo mondo e l’individualismo; il rito ancestrale e il postmoderno; la disinvoltura della composizione e l’artigianato faticoso; le rette verso infiniti punti, e le infinite rette in un punto solo; il rigore e il ridicolo; il comico e le analogie struggenti; la fiducia e il cinismo; le tracce nascoste di una conoscenza illimitata, il peso dell’ignoranza, il peso dei millenni, l’eredità, lo scarto, il tentativo, la vergogna e il compiacimento, la disperazione, la resa, l’oblio e i nuovi tentativi; l’insoddisfazione sincera, la reticenza poetica; gli innumerevoli sofisticati risvolti di ogni segno; l’intuizione linguistica felice e facile; tutte le stagioni dello spirito; tutte le direzioni, gli slanci e le stasi; tutte le giunture della stanchezza; la sacra tristezza dell’occidente e la quiete orientale; il prima e il dopo la morte dell’arte; la misantropia e l’accoglienza, il risentimento, il rancore; guerrieri, principesse e principesse guerriere, animali e foreste, robot, droni, particelle, microrganismi, pianeti; le ossessioni falsamente eterne, la precisione, la vastità, il minuscolo, la biografia, il senso del tempo, tutte le teorie sul tempo, tutte le teorie su tutto; tutte le filosofie, le correnti e le contaminazioni; tutte le passeggiate, le divagazioni, le tirate; l’intenzione, l’esito dei propositi, le casualità vere e artefatte, le simmetrie, i simboli magici, i trucchi, le illusioni, la nausea delle parole; i radicalismi e gli equilibri, i parossismi sobri; le angosce e le esaltazioni, le seduzioni degli incontri; le più irragionevoli disposizioni del cuore e della mente, e l’imbattersi del sopravvissuto in un’altra prigione, in un’altra miseria, un’altra passione, un’altra nausea, e l’urto immediato in un nuovo aborto, una nuova parola già morta. La pace, l’inconsistenza, la nuova strategia di sopravvivenza. Mi aspetto di scandalizzarmi ogni volta di fronte al pornografico sadico rotolarsi nell’impossibilità di dire, e all’ansia untuosa di strappare, rubare, stillare, secernere senso di chi lacera sul lacerato, spremendo umanità dall’umano, precisando i dolori. E mi aspetto di diffidare di nuovo anche delle rispondenze più nobili, contrastando la naturale inclinazione al ritrovamento, alla conclusione esaustiva di uno slancio, rinunciando alla felicità della consonanza perché – nel momento stesso in cui si consuma – il riconoscimento tradisce l’antico fallimento del trovare qualcosa di già trovato. E non basterebbe, perché ancor più davanti a un capolavoro che riuscisse a contenere l'intero sconfinato esistere che già posso pensare e mi somiglia, mi aspetterei qualcosa di assolutamente nuovo, sconvolgente, che rovesciasse tutto il resto. Questo conta più di ogni altra cosa: un’idea che mi allarghi nella mia natura. Un sogno mai sognato, inaspettato, che sposti me contro di me e mi sorprenda contro la mia volontà. Nel 2017 mi aspetto allora di vedere sul palcoscenico e ovunque, opere forgiate nel desiderio di stravolgimenti epocali impensabili, che sappiano trascinare a forza di sintassi della scena, di prosa, versi e passi, me, e tutta l’umanità – se non verso la piena salute, almeno un po’ più lontano dalla malattia.
Gogol’ e l’arte del sogno (Matteo Brighenti)
Il Teatro, finalmente. Il Teatro che toglie abitudine all’abitudine, per difendere immaginazione e bellezza. In contatto aperto e diretto con il pubblico. Appunti di un pazzo di Alessio Bergamo, dal racconto di Gogol’ Le memorie di un pazzo, è un gioco attoriale guidato da una fantasia creatrice sempre più rara sui nostri palcoscenici. Un incanto di stili differenti che lancia un’accusa senza appello al grigiore omologante di tutti i sistemi chiusi, la burocrazia o anche la ricerca teatrale per la ricerca, tanto arbitrari e improbabili da rendere illusorio ciò che è evidente, e viceversa.
Così, nel divertente e mostruoso grottesco dello spettacolo, nell’imprevedibile fantasmagoria di attori cangianti e camaleontici, la vicenda dell’impiegato statale Aksentij Ivanovič Popriščin, che tempera inutilmente le matite al suo capo e aspira alla gloria di una rivalsa, ci restituisce la libertà di aprire i cassetti dei nostri sogni dimenticati. Quelli che il mercato dei modelli di successo ci ha fatto credere fossero inutili, inservibili.
Appunti di un pazzo ha debuttato in prima nazionale il 3 dicembre scorso nella sala del Circolo Arci “La Pace” di Compiobbi, Fiesole (provincia di Firenze), all’interno della rassegna “Il Sole d’Inverno”, promossa dal Teatro Solare di Fiesole. Il progetto nasce dall’incontro di tre gruppi, Teatro Dell’Elce, Cantiere Obraz, Postop, accomunati da un’unica origine (la scuola russa di matrice stanislavskijana) e convergenti nell’interesse per il lavoro del maestro Anatolij Vasil’ev. Il regista Alessio Bergamo, studioso, docente di Storia dello spettacolo, è il fondatore di Postop.
Domenico Cucinotta recita, impersona, vive Popriščin fin dal nostro arrivo. Attraversato l’antro di una grotta fatta di pagine di diario, ci ritroviamo dentro un ambiente completamente bianco, lo sbarco nel latte degli emigranti in America nel film Nuovomondo di Emanuele Crialese o lo spazio metafisico dell’Ubu Roi di Roberto Latini. La pagina non è ancora scritta, tutto è possibile in questo mondo che respira e parla in ogni angolo intorno al pubblico, seduto ai lati e di fronte alla scena. Cucinotta è affabile e cortese come una maschera di sala, ma nella manica nasconde la bacchetta da direttore di un’orchestra fervida di invenzioni suonate e cantate grazie a un lavoro d’attore e sull’attore come non si vede più.
Infatti, gli Appunti di un pazzo si scrivono con inchiostro straniante e si leggono al libro di Popriščin, un prestigiatore irrefrenabile che crea numeri di magia che (de)formano la realtà davanti ai nostri occhi. Daniele Caini, Alessandra Comanducci, Massimiliano Cutrera, Marco Di Costanzo, Erik Haglund, Stefano Parigi, sono parti della sua mente, maschere che parlano le sue parole e guardano attraverso i suoi occhi, sono burattini della sua frustata ambizione, che si squaderna davanti a noi appunto dopo appunto. La loro maestria risiede nella duttilità di pensiero e azione, come nuvole sospinte nel cielo del racconto dal vento del “realismo magico”. Cercano la “verità” scenica dall’essere e stare fino in fondo nel gioco della relazione e della situazione. Recitano: niente di più, ma soprattutto niente di meno.
La visione di Popriščin riflette il suo universo sociale fino a cadere nell’assurdo. È con la tragicità dell’epilogo in manicomio (e i personaggi scoloriti in matti, imponendo quindi di rivedere tutto da una prospettiva medico-coercitiva), che Alessio Bergamo gli restituisce la sua dignità di uomo. Popriščin si affranca dalla logica meschina della sua ‘normalità caricaturale’ per divenire un essere in carne e ossa, folle soltanto rispetto all’irreale classe di manichini a cui egli stesso apparteneva. Una liberazione pagata con il sangue che Appunti di un pazzo celebra come il nostro ultimo miglio da cui non indietreggiare, neanche di un sogno. Se ancora vogliamo essere umani. Tutti diversi e ugualmente unici.
Le stagioni delle Ariette (Massimo Marino)
A teatro sempre più mi distraggo. Sempre meno riesco a vedere oltre. Oggi sul palco mi mancano il vecchio mestiere e la furia immaginativa. Pochi spettacoli mi hanno entusiasmato, in questa stagione opaca e dolente. Agli Ubu ho votato quel piccolo grande capolavoro che è Amore e in varie categorie Santa Estasi di Latella, progetto pedagogico senza sussiego, senza accademismi, viaggio bruciante dentro la tragedia greca, vale a dire vivo confronto di un nutrito gruppo di giovani con l’essenza, la radice del teatro.
Qui voglio ricordare un’esperienza più che uno spettacolo (ma altrettanto si potrebbe dire di Scimone-Sframeli e di Latella: sono esperienze, più che spettacoli). Voglio ricordare il Teatro delle Ariette, il loro ritrarsi in campagna, rinunciare apparentemente a tutto, in anni lontani, per poi riscoprire un teatro inscritto nella carne e nella terra, nelle emarginazioni dal “sistema”, nel dolore e nelle gioie delle vite, con amori, morti, distanze, sprechi, esaltazioni quotidiane. Un teatro intessuto dei colori e dei ritmi delle stagioni, del ciclo della crescita non forzata, biologica, uno stare in ascolto dell’esistere della vita inarrestabile nel fare, come quell’altra guerriera che è Ermanna Montanari, che in questo scorcio d’anno ci ha regalato un libro di raccontini memorie fervidi ritratti del presente, Miniature Campianesi. Stanno, interrogando attraverso lo scorrere, attraverso l’apparire, il profondo. Il teatro vivo, un teatro campo, orto, giardino selvaggio e rilucente, antro, caverna, grotta, paradiso, nave, per me oggi è questo.
Soli nel buio e nel freddo della notte di campagna come nel sole d’estate le Ariette cercano l’un l’altro consolazione e sfida, interrogano le persone che incontrano e quelle che gli stanno intorno, provando a disseminare in vite quotidiane teatro come grano (o come quei semi incontrollabili che disperde il vento). Insieme abbiamo preparato un libro che racconta questa storia, dai suoi inizi a oggi. Nel nuovo anno apparirà.
La riemersione del tragico (Roberta Ferraresi, Maddalena Giovannelli)
Fine dell’anno: si riaprono e si scorrono i quaderni di appunti della passata stagione teatrale, e si ripensa agli spettacoli che hanno ingaggiato in modo più forte pensiero e compassione. Difficile ignorare la riemersione potente del tragico: non solo riproposizione (più o meno stanca) di mito greco e di opere antiche, ma tentativi di confrontarsi con l’idea stessa del tragico, qualunque cosa questo significhi nella seconda decade del 2000.
Non a caso l'anno si è chiuso con la prima italiana di Orestea (una commedia organica?) della Socìetas Raffaello Sanzio, vent'anni dopo il debutto del 1996: uno dei vari importanti re-enactment che ultimamente popolano le scene internazionali, veri e propri monumenti live di spettacoli che hanno fatto la storia del teatro, che in questo caso testimonia il primo incontro della compagnia cesenate con la forma tragica – un incontro fatale per molti versi, snodo-chiave rispetto al rapporto col testo o al lavoro sull'attore. E se Orestea è stato visto da molti come un racconto all'origine della modernità di cui siamo eredi, Castellucci metteva in guardia già negli anni ‘90: l'assoluzione di Oreste e il tribunale di Atena, il diritto e la polis arrivano solo nel finale, mentre tutto il dramma è dominato dalla logica di quei valori di sangue e violenza che si vorrebbero superati. Lo spettacolo finisce con il braccio meccanico che fa compiere il matricidio al principe argivo, appeso a mezz'aria a funzionare da solo. È la sua eco a cadenzare il racconto delle origini della modernità nell'Orestea della Raffaello Sanzio (a maggior ragione nelle repliche italiane dello spettacolo, che per ragioni burocratiche è andato in scena senza la terza e ultima parte, senza catarsi né risoluzione finale).
Il testimone di Castellucci è stato raccolto da altri, in un progressivo allargamento delle possibilità di fruizione del tragico. Gli esempi più rilevanti di questa tendenza (certamente gli indimenticabili Mount Olympus di Jan Fabre e Santa Estasi di Antonio Latella) non si accontentano di una sola tragedia, e nemmeno di un solo autore: attraversano, assorbono, fagocitano un’ampia parte del corpus antico alla ricerca di un nucleo autenticamente tragico. Le loro estese e composite drammaturgie giocano con i registri, e volentieri indugiano nel comico: ma la profondità di pensiero con la quale obbligano a confrontarsi, lo sforzo di fruizione che richiedono allo spettatore, l’esperienza immersiva che propongono, hanno profondamente a che fare con il tragico. Così è anche per Materiali per una tragedia tedesca di Antonio Tarantino, diretto da Fabrizio Arcuri al CSS di Udine: anch'esso uno spettacolo debordante in molti sensi (dalla durata ai riferimenti extra-teatrali) che però va a cercare la materia tragica nel Novecento, coniugando il rimosso degli Anni di Piombo tedeschi e italiani e proponendo gli estremi degli anni ‘70 come narrazione fondante alla base del nostro passato recente.
"La tragedia – secondo George Steiner – è un'educazione costante alla possibilità dell’incubo”. Non abbiamo forse bisogno di domandarci perché gli artisti oggi sentano l’esigenza di esplorare a fondo quella possibilità.
Uno sciopero generale del teatro (Iside Moretti)
Sotto Natale è tempo di regali. Anche per il teatro italiano: dopo aver aspettato praticamente un anno, il 7 novembre il Mibact ha pubblicato le assegnazioni 2016 giusto in tempo per infiocchettarle e metterle sotto l'albero. Circa 10 mesi di ritardo dovuti – si dice – al discusso ricorsone Elfo-Teatro Due che poteva far saltare tutto (poi così non è stato); ma in realtà ritardo dovuto anche all'inedito atteggiamento di comprensibilissima prudenza dell'amministrazione, fra l'attesa della sentenza del Consiglio di Stato sul ricorsone e il clima elettorale del referendum, il rallentamento dei lavori delle Commissioni e le varie modifiche in progress al Decreto (alcune delle quali a progetti già presentati, attività svolte e soldi spesi, come la norma del 7% arrivata in settembre).
Fatto sta che per coraggio, abitudine o incoscienza il teatro italiano ha tirato avanti lo stesso, facendo più o meno le sue normali attività. “Com'è triste la prudenza” recitava uno striscione appeso sui palchetti del fu Teatro Valle Occupato. Ed è così che la tendenza amministrativa ha contagiato di conseguenza anche teatri, festival, compagnie che nel 2016 hanno offerto programmazioni giustamente ridimensionate qua e là – alcuni aiutati dalla sensibilità degli enti locali a tappare il buco del mancato finanziamento ministeriale, altri meno –, scommettendo spesso – salvo rarissime instancabili eccezioni – sul grande nome di richiamo, sull'usato garantito, su progetti di costo contenuto o a basso rischio che possano il più possibile incontrare il gusto del pubblico (per vedere gli esiti di questa prudenza generalizzata, basta dare uno sguardo a vincitori e finalisti dei vari Premi teatrali di quest'anno). D'altra parte che si può fare in un momento del genere? Ma verrebbe da chiedersi cosa succederebbe se artisti, organizzatori, funzionari, tecnici, tutti avessero incrociato le braccia in attesa dei finanziamenti 2016. Uno sciopero generale e totale della scena dal più grande dei Teatri Nazionali alla più piccola delle compagnie. Forse come diceva – pare – Peter Brook già negli anni Settanta non se ne sarebbe accorto nessuno. Impossibile saperlo perché nessuno s'è mai azzardato a provare.
Ma niente paura, le feste sono ancora lunghe e di sorprese sotto l'albero potrebbero essercene ancora un bel po'. A parte una serie di elargizioni con fondi del Ministro a favore di alcuni soggetti dello spettacolo dal vivo Fus e non Fus (di cui ha dato notizia la webzine Ateatro nei giorni scorsi), c'è la sorpresa della nuova Legge sullo spettacolo di cui tanto s'è parlato negli ultimi mesi. Se non è possibile incrociare le braccia tutti insieme in uno sciopero generale, almeno ci sarebbe tutti da rimboccarsi quelle stesse maniche per ottenere una normativa che metta finalmente ordine in un sistema rimasto agli anni Ottanta e provare ad avere qualche voce in capitolo. C'è da ben sperare, anche se la promessa di una nuova Legge sul teatro riecheggia lungo tutto il Novecento italiano. Era proprio quello che chiedeva Paolo Grassi alla fondazione del Piccolo di Milano nel 1947. Tranquillo, gli risposero, ci stiamo già lavorando.
Teatro frattale (Lorenzo Donati)
Di che cosa avrebbe bisogno il teatro? Nella progettazione culturale uno dei totem è la trasferibilità: inventarsi strategie che fungano da tattiche, pensieri preventivi da misurare sul campo affinché le buone idee possano essere replicate altrove. Strada per una rinascita o preludio alla normalizzazione? Sottostiamo a regole che non abbiamo scritto e anche quelle inventate dalla nostra stessa area culturale spesso si svuotano, quando se ne prendono gli esiti senza reinventarne i presupposti. Di che cosa avrebbe bisogno il teatro? Forse di un principio autoriflessivo che ripensi a formati, dispositivi, layout: dall'idea di festival a quella di stagione, dalla norma registica che tutto ordina a quella antirappresentativa che molto scompagina, e così via. Di un metodo largo accomunato dalla vocazione al mettersi in discussione, diffuso e rintracciabile nell'intero e nelle singole parti come un frattale, capace di contestare ogni rigidità, ogni forma data per acquisita. Siamo disposti a tanto, fino a disciogliere il teatro fuori dal teatro? Qualche esempio dal 2016. I laboratori con adolescenti e adulti del Teatro delle Ariette che fanno rinascere il peso culturale del teatro con non professionisti in circoli sportivi e bar in Valsamoggia; l'ostinazione visionaria immaginifica di Mimmo Cuticchio e Figli che insegna agli adulti la necessità di Orlando e dei paladini, così chiara ai bambini, a Palermo; il fare danzare più persone possibili di Virgilio Sieni; le storie di Oscar De Summa, che si possono raccontare stando seduti su casse acustiche e sedie, di poco altro c'è bisogno se il racconto scava nelle debolezze private e collettive; i tanti teatri che dal dialogo con i giovanissimi fondano un senso che abita le città e le scuole (dalle Briciole di Parma al Nucleo di Ferrara); l'idea di laboratorio come incontro non conciliato, come messa alla prova necessaria per ridefinire l'idea stessa di attore oggi, nel percorso recente di Fanny & Alexander; le domande che gli attori non professionisti di Archivio Zeta pongono alla formazione teatrale; le poetiche che dall'incontro con gli adolescenti si nutrono e si spostano, cercando una “lingua” che esce dal teatro per non morire, obbligando così il teatro stesso a guardare fuori da sé (il CollettivO CineticO, il Teatro Sotterraneo).
Lo spazio vuoto (Lorenzo Pavolini)
Una dozzina di spettatori che sciamano borbottando tra le poltrone rosse del Teatro India, Roma. Con questa bella scena si chiude il mio 2016 da spettatore. La breve mirabile conferenza spettacolo To Be or Not To Be Roger Bernat dei Fanny & Alexander aveva sì condotto me e il resto del pubblico attraverso le sue botole fino al cospetto del nodo sfuggente dell’attore-attore, ma con il costante retrogusto della nostra inadeguatezza numerica, nella preoccupazione insomma della nostra scarsità.
Chiamati a comandare i movimenti dell’impareggiabile Marco Cavalcoli, come scegliendo di applaudire convinti e grati in conclusione, ecco che il suono delle nostre mani e il calore dei nostri commenti risuonava grottesco nell’immensità dei capannoni e nel tempo fermo, come pure quel vibrante “stronzi!” che ci aveva rivolto da immancabile copione l’interprete. Il riverbero svaniva immediatamente in fondo al corridoio di un quindicennio a singhiozzo, impalcato di utopie civili per maldestri carrieristi. Ma questo non era forse lo stesso luogo remoto alla città dove un tempo accorrevano frotte di esploratori per trilogie scespiriane memorabili, mesi di Odin o l’esordio di quel pischello di Ostermeier?! Come succede in tante cose, e il teatro non fa certo eccezione, è dal confronto con il troppo vuoto o con il troppo pieno che escono rafforzate le incertezze di fondo e l’ambiguità delle risposte a vecchie domande, se è vero che nessun terreno vago può dirsi conquistato all’avventura teatrale cittadina per sempre, se è peraltro vero che un teatro dalle ripetute stagioni gloriose dal Settecento fino all’altro ieri può tranquillamente restare chiuso a due passi da Piazza Navona. E se la sera precedente con Lehman Trilogy all’Argentina avevo assistito al trionfo del teatro-teatro “che non se ne farà mai più così!” (e ci credo) registrando picchi di entusiasmo condiviso come non se ne vedevano da tempo… e allora cosa volete? Cosa state sempre a lamentarvi? Non vedete anche voi di quale teatro abbiamo ancora bisogno!?
Il teatro del futuro (Giuliano Scabia)
Dopo Guerre stellari, Luke, Dart Fener e Leila aprono una scuola di teatro e accolgono tutti – vivi e morti – e fanno le prove della resurrezione e della reviviscenza. Prende parte, come responsabile delle musiche, anche il poeta Orfeo. Anche gli dei si iscrivono. Anche Allah, benché riluttante.