Transitions, 1962-1981 / Joel Meyerowitz: l’elemento misterioso dell’immagine

7 Giugno 2018

 

Una bambina sta piangendo. Siamo a New York, in strada. Sono aperte due portiere di un’auto, e la bimba è inquadrata oltre il vetro del secondo finestrino. Mentre piange guarda in alto verso un uomo, che le tende la mano. Non si capisce se sia suo padre, o un autista o un estraneo. Non si capisce nemmeno se la bimba debba salire in auto o se sia appena scesa e non vuole andare con la persona adulta. S’è persa? È stata sgridata dal genitore? La fotografia scattata da Joel Meyerowitz nel 1963 lascia molto spazio all’interpretazione. Oltre ciò che si vede immediatamente, questa immagine può rivelare anche e soprattutto qualcosa di più espanso.

 

Joel Meyerowitz, New York City, 1963.


Secondo le intenzioni del fotografo americano uno scatto non deve per forza dire tutto, e se in esso vi è custodito un elemento misterioso l’immagine riesce a sopravvivere agli anni e mantenere vivo un rapporto con i fruitori: «All’inizio non avevo questa abitudine a espandere ciò che si poteva vedere, registravo solo persone, o momenti, di qualcosa che semplicemente stava avvenendo. Questo mi ha dato modo di imparare, pensavo fosse necessario dare un centro alle fotografie ma dopo un po’ di tempo ho cominciato a credere abbastanza nelle mie capacità e nella mia esperienza e ho cominciato a capire che più cose, allo stesso tempo, possono avere un significato diverso. È stato un esperimento, come quello di dirsi ho più cose in testa in questo momento e voglio fare delle fotografie che possano rappresentare questo mio tipo di curiosità. Credo di poter dire in questo modo che la fotografia mi ha incoraggiato ad aprirmi e a vedere oltre, piuttosto di continuare ad accontentarmi di ciò che si vede immediatamente» (Joel Meyerowitz).

 

Joel Meyerowitz, Paris, France, 1967, courtesy Polka Gallery.

 

In Paris, France (1967) un uomo giace riverso in strada. È vicino alle scale che discendono verso il Metrò. Un gruppo di persone guarda, a poca distanza, ma nessuno lo soccorre. Un muratore, con un martello in mano, pare che gli stia passando accanto, senza fermarsi. L’ha colpito lui o è solo un indifferente che ha premura e non si ferma? L’uomo a terra sull’asfalto ha perso conoscenza o è morto? Intanto il traffico parigino ingolfa la strada e un garzone spinge un carrello con un carico di alcuni cartoni di merce. I curiosi guardano. Nessuno soccorre. Quale è qui il centro della fotografia? L’autore ha colto semplicemente quello che stava accadendo in quel preciso istante dello scatto, ma la stampa della fotografia ha reso visibile un clima ulteriore, un momento denso di mistero.

 

Joel Meyerowitz, Mexico, 1971.


Anche in Mexico (1971) l’atmosfera è straniante. Un neonato piange in una culla, rimediata all’interno di una cassa di legno, vicino ai fucili allineati dentro un tiro a segno del Luna Park. L’assenza di altre persone nella scena lascia spazio al collegamento tra il bimbo lasciato solo, i suoi vagiti, i fucili, i bersagli, creando un cortocircuito.

 

Joel Meyerowitz, Malaga, Spain, 1966.

 

Joel Meyerowitz, Malaga, Spain, 1967.


In Malaga, Spain (1967) terribile e attraente al contempo è l’immagine del cavallo caduto accanto al carretto, con la corda che è tesa e impigliata a qualcosa che non si vede perché è fuori campo, e che stringe il morso sulla bocca procurandogli una torsione dolorosa al collo. L’animale occupa il primo piano, in una zona che è in ombra e che conferisce toni da bianco e nero. Il secondo piano è invece illuminato dal sole, e il colore spicca sugli spettatori. L’autore ha colto un efficace “trovato”, un momento che contiene il mistero e l’indifferenza della natura, il confine tra la vita e la morte, un istante che non è solo un istante, un accadimento che può essere compreso solo se legato al significato di altre centinaia di istanti che hanno rivelato qualcosa nel corso della storia: “Quel cavallo che cade è solo un cavallo che cade e le persone che lo stanno guardando morire sono solo quelle persone che si trovavano lì a osservarlo in quel momento. Questa foto non dice nulla a proposito del regime franchista, ma se viene guardata fra le centinaia di foto che costituiscono Out of Darkness, avremo una comprensione più precisa di ciò che significava”. Se ogni fotografia è testimonianza di un determinato momento ma anche un frammento di un percorso di continua scoperta, per Meyerowitz ha molta importanza ciò che appartiene anche alla dimensione inconscia di ciò che è simbolico. Nel cammino di ogni fotografo, in ciò che lascia alle sue spalle e negli scatti che deve ancora realizzare, la narrazione di uno sguardo personale entra in un più articolato intreccio, come se dovesse permettere alla coscienza di muoversi in direzione di scoperte e di evoluzioni sempre rinnovabili: “Ho sempre cercato un accordo con il tempo e le percezioni, queste due cose intangibili e sempre in continuo mutamento. Il tempo scorre, non si ferma e le nostre percezioni fanno di noi ciò che siamo”.

 

Joel Meyerowitz, JFK airport, New York City, 1968.


In JFK Airport, New York City (1968) il design nel lato posteriore dell’automobile pare ispirarsi alle forme delle navicelle spaziali. Nel parcheggio innevato, in lontananza sullo sfondo, spicca un’alta scultura luminosa, come una stella che dirama raggi nello spazio, suggerendo un collegamento simbolico con l’aeromobile e la notte nevosa.

 

Joel Meyerowitz, New York City, 1975.


Molto intrigante è New York City (1975), scattata in una strada metropolitana, in un momento in cui una coppia cammina sul marciapiede, raggiunta da una coltre di fumo o vapore che giunge dalla parte sotterranea. Intanto sulle schiene di due donne – che stanno procedendo nella stessa direzione della coppia a braccetto – il sole proietta l’ombra di altre due persone che camminano dietro di loro, ma che non sono inquadrate nella fotografia. La bruma bianca ricrea una presenza “altra”, dà luogo a un volume etereo, a una geometria che viene attraversata dal movimento delle persone e delle ombre.

 

Joel Meyerowitz, Red interior provincetown, Massachusetts, 1977.


L’artista guarda attentamente il modo in cui qualcuno fa un gesto per la strada, la reazione derivata dalla coazione fra due persone, la simultaneità di due cose che avvengono all’unisono e la relazione che si crea tra loro. 

Meyerowitz, nato nel 1938 da una famiglia proletaria e cresciuto tra le case popolari dell’East Bronx, ama osservare le persone, l’energia e la spontaneità della vita nelle strade urbane. Colpito dal modo di scattare fotografie di Robert Frank, dal suo muoversi con la macchina fotografica in mezzo alla gente che cammina e sta nel flusso metropolitano, dal 1971 svolge ulteriormente la sua ricerca scegliendo di utilizzare il colore, in concomitanza con gli esperimenti di Eggleston.

 

Meyerowitz lascia campo al tempo e alle percezioni. È interessato costantemente alle nuove riflessioni che si innescano in conseguenza del suo interagire con la macchina fotografica e alle rivelazioni che potrebbero prendere corpo dopo la stampa delle fotografie. Il mentre del fare, la possibile rivelazione di qualcosa che non era ancora stata presa in considerazione, l’apparizione di un ulteriore punto di vista, tutto concorre a cercare di comprendere ciò che significa la vita. Prendono corpo anche una ricerca parallela, una consapevolezza dei propri mezzi e delle potenzialità dello sguardo. Non interessa che sia data voce solo al centro ma soprattutto alla rappresentazione di interessanti sottosignificati: “Il mondo non ha un centro, il mondo è dappertutto. Questo perché il modo in cui il mondo si spiega e ti istruisce è tutto ciò che ti serve per lavorare. A un certo punto capisci che quella è la tua strada, perché il modo che si ha di vedere le cose è tutto ciò che abbiamo, ed è l’unico modo con cui farlo”.

 

Joel Meyerowitz, Los Angeles airport, California, 1976.


Applica la tecnica dei tre passi indietro di Robert Frank, lascia più spazio e campo a ciò che entrerà nel suo scatto, anche solo con l’atto dell’arretrare col proprio corpo. Cerca di vivere con lucidità ciò che sta percependo prima di scattare, per catturare quanto più possibile, sia il visibile palese e contingente sia il visibile che apparirà in un secondo momento. Intende anche dare molta importanza al distacco che si frappone tra un immaginario e un altro.  Tutto questo concorre per dire qualcosa in modo originale e in una modalità che comprende il flusso del tempo e lo spazio, per unire un singolo frame alla complessità delle connessioni che legano il mondo alla vita: «Il linguaggio personale è tutto. Senza di quello non puoi fare nessuna fotografia che abbia un significato, è ciò che ne definisce l’identità, dove trova un senso fra un’immagine e l’altra. Non penso sia possibile realizzare una fotografia totalmente oggettiva, solo una telecamera a circuito chiuso che registra ogni cosa che accade può farlo ma la fotografia necessita di scelte soggettive. Sei tu a decidere ciò che finisce nel frame ed è una decisione consapevole, perché il frame taglia fuori per sempre ciò che continua a scorrere nel mondo. Devi essere consapevole che c’è qualcosa in quello che stai facendo e che in quel frame ci sia abbastanza per darti il senso di quella necessaria e immediata connessione che stai provando».


JOEL MEYEROWITZ: TRANSITIONS, 1962-1981

a cura di Francesco Zanot

Palazzo da Mosto, Fino al 17 giugno

https://www.fotografiaeuropea.it/fe2018/mostra/joel-meyerowitz/

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