Speciale
La stanza / Quaderno blu notte (2)
La stanza. Era in opposizione all’aperto, alla strada, al luogo pubblico e comune che la stanza definiva il suo spazio, la sua stessa ragion d’essere. Ora, in questo nuovo oscuro orizzonte, la stanza prende nel suo recinto tutto il tempo dell’agire, e del vivere. Come l’incontro – altra figura del vivere sociale– perde ora la sua fisicità e prossimità, e nella lontananza dei corpi pratica forme sostitutive e telematiche di relazioni, così la stanza riporta nel suo chiuso quel che non le era proprio, come per esempio il passeggiare. Che, trasformato in un modesto andirivieni, è costretto a privarsi della vista, dei suoni, dei profumi, delle variazioni di luce, cioè di tutto quello che definiva la sua natura di cammino, il suo ritmo. Privazione che l’accendersi della primavera amaramente accentua: privazione necessaria perché ancora per noi primavera rinasca.
Intorno alla stanza, alcuni passaggi che ci giungono dalla rappresentazione letteraria e che qualcosa suggeriscono, per via immaginativa, alla nostra nuova condizione “claustrale” (parola sul piano letterale impropria, perché il chiostro monastico comprendeva anche portici e giardini e corridoi, e tuttavia esemplare perché ci può indicare modi e forme di un raccogliersi presso di sé).
La stanza, dunque, come luogo del raccoglimento. Pascal, dinanzi all’ansia data dal divertissement, dalla diversione da sé, è perentorio: “ho detto spesso che l’infelicità degli uomini deriva da una sola cosa, il non saper stare quieti in una stanza”. È l’opposizione, un poco moralista, tra la stanza e il mondo, tra il raccoglimento e le passioni. La stanza è il luogo che può dare una provvisoria felicità: per questo Rousseau evocherà spesso le bonheur d’une chambre, la felicità di una stanza. E Baudelaire, riferendosi anch’egli a Pascal, in una sua nota chiamerà “forsennati” quelli che cercano la felicità nel movimento e “in una forma di prostituzione fraternitaria …”. Singolare, questa ipocrita e svenduta fraternità, questa vicinanza dei corpi che distrae da sé, questa incapacità di raccogliersi presso di sé. Raccoglimento che Baudelaire così definisce in apertura del diario intimo Il mio cuore messo a nudo: “Concentrazione e vaporizzazione dell’io. Tutto consiste in questo”. Un respiro che è conoscenza e immaginazione, interrogazione di sé e relazione interiore con l’altrove.
Né Rousseau né Baudelaire, riprendendo il tema pascaliano della stanza, del “bonheur” d’una stanza, intendevano negare il fatto che, pur nella solitudine della stanza, nel segreto del raccoglimento, si è abitati dall’altrove. Montaigne, proprio dicendo della solitudine, aveva annotato negli Essais: “Noi non siamo mai in noi, siamo sempre al di là. Il timore, il desiderio, la speranza ci lanciano verso l’avvenire”. L’animale, diceva Montaigne, sta nel presente, mentre per l’uomo il qui e ora si dissipa e vanifica nell’altrove. Proprio per questo la solitudine può essere l’occasione per difendersi dal fascino dissipativo dell’altrove, per “pensare qui” (Starobinski nel saggio su Montaigne ha dato molto rilievo a questo “pensare qui” del filosofo). Questo può accadere se la stanza diventa il luogo di una conversazione con se stesso che si nutre della conversazione con altre presenze consegnate al libro. La biblioteca, la sua austera torre-biblioteca, per Montaigne diventa figura della stanza interiore. Come lo era stato l’Albergaccio per Machiavelli: “Venuta la sera, mi ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; e in su l’uscio mi spoglio della veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali et curiali; e rivestito condecentemente entro nelle antique corti delli antiqui uomini…”.
Certo, la stanza ha suggerito scritture narrative austere, interrogative, sontuose, divaganti e fortemente dialogiche con immaginarie presenze. Una tra le narrazioni più note, Viaggio intorno alla mia camera di Xavier De Maistre, del 1794: un arresto domiciliare di quarantadue giorni diventa l’occasione per l’autore, ufficiale savoiardo, di un’escursione minuziosa tra oggetti, quadri, ricordi, dialoghi con un suo doppio (molti anni dopo De Maistre riprese il tema nella Spedizione notturna intorno alla mia stanza, libro alla cui traduzione italiana si applicò una giovane appassionata lettrice, “reclusa” in un palazzo della marchigiana nobiltà papalina, Paolina Leopardi).
Ma, soprattutto, la stanza è figura di una ricerca di sé che è presa di parola, affermazione di presenza, riscossa necessaria. Una stanza tutta per sé: un grido femminile, dall’ombra.
Per finire, una sosta tra i versi di Baudelaire. Le stanze nei Fiori del male hanno finestre socchiuse, che lasciano filtrare una luce obliqua, calda, una luce che allo stesso tempo rivela e vela lo stare misterioso delle cose, chiuse in un loro tempo. C’è la stanza dal lusso orientale, ripresa da Poe, nell’Invito al viaggio, c’è la stanza di Morte degli amanti, in cui nella sera “color rosa e blu mistico” l’angelo dischiuderà le porte ravvivando “gli specchi opachi e le fiamme morte”, c’è la stanza nella quale penetra lo sguardo della “luna offesa” sorprendendo il disfacimento del corpo materno, c’è la stanza tropicale della bella Dorotea, con i fiori, nell’angolo, languenti, c’è la stanza di Una martire, con i bouquets morenti nelle loro “bare di vetro”, c’è infine la stanza di I gioielli , con il nudo femminile tizianesco, e l’amore “profondo e dolce come il mare”. Per non dire delle finestre, descritte nei pometti in prosa: “in quel buco oscuro o luminoso vive la vita, sogna la vita, soffre la vita”. E una delle più belle poesie dei Fiori, per intreccio di intimità e sogno, di ricordo e desiderio, ha per titolo Il balcone. La sezione che è il cuore dei Fiori del male, Quadri parigini, si apre con una poesia che ha la stanza come scena, anche se il titolo è dichiaratamente “esterno”: Paesaggio. Perché è proprio nella stanza del poeta che prende luce e forme il paesaggio. Il poeta è nella sua mansarda: lo sguardo va sulla città che si sveglia, sui camini e le guglie “simili a alberi e velieri”, sui cieli immensi. Nel chiuso della stanza è all’opera la lingua della poesia, è lei che fa sorgere le stagioni, i loro profumi, il loro stesso ritmo. Ecco, nella mia traduzione, la seconda strofe, o meglio, “stanza” della poesia:
Dolce è veder fiorire, attraverso le brume,
nell’azzurro la stella, alla finestra il lume,
i fiumi di carbone salire al firmamento,
la luna ovunque effondere un bianco incantamento.
Primavera ed estate, poi autunno si levi,
quando verrà l’inverno, con le torpide nevi,
ben protetto da porte ed usci inchiavardati
costruirò nella notte edifici fatati.
E sognerò orizzonti dal colore bluastro,
giardini, getti d’acqua piangenti in alabastro,
baci, uccelli che cantano con un trillio strenuo,
tutto quel che l’Idillio possiede di più ingenuo.
La Sommossa alle porte busserà vanamente:
io non distoglierò dal tavolo la mente,
poiché sono immerso nell’immenso piacere
d’evocar Primavera col mio solo volere,
trarre dal cuore un sole, e questi miei infocati
pensieri in atmosfere miti veder mutati.
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