Uomo diventa lupo / Robert Eisler: Anatomia della licantropia

6 Agosto 2019

L’eccedenza è sempre problematica, anche se è di cultura, intelligenza, capacità interpretative, tanto più per le istituzioni che su tali disposizioni dovrebbero fondarsi. È noto il commento di Erich Rothacker alla bocciatura di Walter Benjamin all’abilitazione alla libera docenza, “Geist kann man nicht habilitieren”, non si può concedere l’abilitazione allo Spirito. Robert Eisler, di cui vengo a presentare la nuova edizione di Man into wolf  (Uomo diventa lupo, Adelphi, 2019) è un’iperbole di tale travalicazione continua e sistematica di ogni steccato disciplinare accademico, nella sua vita e nella sua ricerca, è coerentemente pervicace nel negarsi alla collocazione rassicurante in un luogo definito, inscrivendosi nella categoria perturbante del troppo. A fronte di una statura intellettuale impressionante, della frequentazione delle menti più brillanti del suo tempo, di un’erudizione oggi impensabile, Eisler ha scontato fino alle estreme conseguenze la marginalità a cui è stato costretto dalle istituzioni intellettuali del tempo.

Prima di affrontare il personaggio, due parole sulle vicende editoriali del testo, bizzarre a loro volta. Pubblicato per la prima volta nel 1951, Man into wolf è una conferenza tenuta presso la Psychiatric Section della Royal Society of Medicine di Londra nel 1948, ciò che rende assolutamente particolare il volume, è che è corredato di un apparato di note, 261 nell’edizione Adelphi (36 pagine la conferenza, 230 le note), che approfondiscono in modo specialistico ogni punto dell’argomentazione, lasciando trasparire un’erudizione e una vastità di dedizioni incredibile. Per sessant’anni il libro non è stato tradotto, fino all’apparizione di Uomo lupo, edito nel 2011 da Medusa con ottima traduzione, cura e introduzione di Martino Doni, e con una introduzione ulteriore di Enrico Giannetto. La recentissima edizione Adelphi, Uomo diventa lupo, con traduzione di Raul Montanari, perde le due introduzioni, ma propone un testo decisamente interessante, di cui Giannetto, nel suo intervento, lamentava la mancanza, ovvero uno studio bio-bibliografico organico su Robert Eisler realizzato da Brian Collins, Un pezzo troppo quadrato: La vita e l’opera di Robert Eisler.

Detesto il biografismo, la riduzione dell’opera alla vita dell’autore, non di meno, in questo caso è abbastanza essenziale approfondire le circostanze che hanno portato alla genesi del libro, seguendo alcune tracce, in primo luogo le più note, ovvero quelle lasciate dall’“amico” Gershom Scholem. Il ritratto che ne traccia in Da Berlino a Gerusalemme e in Walter Benjamin: Storia di un’amicizia è a tratti macchiettistico, lo fa apparire uno “svitato”, sostiene Collins, non di meno ci aiuta ad approssimarci all’autore.

 

Nell’introdurne la figura, Scholem raccoglie puntualmente i giudizi ricorrenti su Eisler, brillante, spaventosamente erudito, carente in rigore ed eccedente in fantasia, e così riepiloga quella che definisce “una delle relazioni più assurde della mia vita”, iniziata per mediazione di Martin Buber e legata alla comune dedizione alla qabbalah, quantunque con intenti divergenti. “Eisler era figlio di un milionario ebreo di Vienna e, come diceva lui stesso, venne educato a disprezzare l’ebraismo, tanto che fu spinto a convertirsi all’età di circa vent’anni. Era una personalità poliedrica di un certo talento, brillante, sveglio e molto ambizioso. I suoi interessi scientifici comprendevano molteplici discipline, ed era dotato di notevoli capacità espressive e descrittive. Nel 1909, quando ancora non aveva trent’anni, aveva pubblicato un’opera in due volumi dal titolo attraente Weltenmantel und Himmelszelt (Mantello dei mondi e tenda del cielo), un libro audace nelle sue congetture azzardate e stracolmo di un’incredibile erudizione, che accreditò il suo autore come uno storico delle religioni assai originale. La sua fertile fantasia gli era però d’ostacolo, e impediva la formulazione di un ragionamento solido”, ne rimarca la marginalità e l’esclusione da ogni posizione accademica, per la vastità degli interessi, per l’eccesso di originalità delle posizioni, per la metodologia di ricerca eterodossa, e non ultimo per la difficoltà creata dall’apostasia, che lo rendeva sospetto ai cristiani e tanto più agli ebrei. Tutto il racconto di Scholem del rapporto con Eisler si gioca sulla sconcertante contrapposizione tra risorse intellettuali ed espressive straordinarie e la bizzarria di fondo del personaggio, che ne ha compromesso ogni possibilità di affermazione. “L’eloquenza di Eisler non era meno affascinante della sua cultura.

 

Entrambe erano impressionanti ma non del tutto serie. Io, in ogni caso, non avevo mai visto un fenomeno simile: uno studioso di genialità accattivante e allo stesso tempo arguta in modo sospetto”. Scholem si sofferma sull’“arte combinatoria” attraverso cui raccorda i più arcani frammenti del simbolico, con dedizione specialistica a saperi tanto diversi quali “le iscrizioni protosemitiche del Sinai, i misteri greci, l’origine degli zingari, [la storia del denaro] o l’origine del cristianesimo, che lo impegnò per molti anni. Tutti questi argomenti avevano un elemento in comune: erano pieni di problemi irrisolti, che lasciavano ampio spazio al genio combinatorio. A sentirlo parlare in pubblico si restava travolti dal suo talento di oratore. A leggerne gli scritti si restava interdetti davanti alla ricchezza delle citazioni, basate sulle fonti più incredibili e astruse”. Racconta poi dei rapporti di Eisler con il circolo di Aby Warburg, con Buber, di quelli, disastrosi per la continua revisione-integrazione dei testi, con gli editori, e infine dell’epilogo infelice dei loro rapporti, quando dopo la guerra Eisler, espatriato a Londra dopo un internamento di più di un anno tra Dachau e Buchenwald, gli propone un testo di duecento pagine con la sua soluzione, decisamente originale, alla questione sionista. La risposta di Scholem fu sintetica e definitiva, “Genug”, basta.

 

 

Ancora due parole sull’autore, per andare oltre la rappresentazione, evidentemente non esattamente agiografica, offerta da Scholem. Viene qui in aiuto la biografia di Brian Collins che chiude il volume Adelphi, esito di un’accurata ricerca d’archivio. La formazione di Eisler è sulle orme della figura egemone della filosofia austriaca della seconda metà dell’Ottocento, Franz Brentano, e dei suoi geniali allevi Alexius Meinong e Christian von Ehrenfels, in seguito consegue due dottorati, di cui uno in economia, e la teoria della moneta resterà una delle sue dedizioni costanti durante tutta la vita, e uno in teoria dell’arte, sotto la direzione di Alois Riegl e Franz Wickhoff.

Un evento segnò la vita del giovane studioso, e rimase come marchio a discredito futuro, quando a Udine, nel 1907, fu protagonista del furto di un codice miniato. Venne riconosciuto colpevole, ma a testimoniare in sua difesa e sul suo genio, instabilità di carattere e fervida immaginazione, si offrirono Benedetto Croce e Hugo von Hofmannsthal. In carcere tentò due volte, pare senza particolare determinazione, il suicidio.

Nel 1910 comincia la sua carriera di saggista eclettico con il testo in due volumi di cui parlava Scholem, Weltmantel und Himmelzelt, (Manto del mondo e Padiglione celeste: Ricerche storico-religiose sull’antica visione del mondo), “una smisurata storia della cosmologia religiosa”, a seguire pubblica in inglese Orpheus the Fisher: Comparative Studies in Orphic and Early Christian Symbolism (Orfeo il pescatore: Studi comparativi sul simbolismo orfico e paleocristiano).

 

Tenne conferenze alla Scuola di Amburgo di Warburg, Cassirer, Panofsky e Saxl, intrattenendo col gruppo, ancora una volta, rapporti ambivalenti. All’inizio degli anni Trenta pubblicò uno dei suoi testi più controversi, Iesous basileus ou basileusas (Gesù, il re che non regnò: Il movimento di indipendenza messianico dall’apparizione di Giovanni il Battista alla caduta di Giacobbe il Giusto alla luce della “Conquista di Gerusalemme” di Flavio Giuseppe, recentemente scoperta, e delle fonti cristiane), apparso in inglese col titolo The Messiah Jesus and John the Baptist According to Flavius Josephus' Recently Rediscovered 'Capture of Jerusalem' and the Other Jewish and Christian Sources, tra le altre tesi teologicamente perturbanti, interpreta così l’immagine di Cristo, attraverso la lettura di Giuseppe: “aspetto semplice, età matura, pelle scura, bassa statura, alto tre cubiti, gobbo, con una faccia lunga, il naso lungo, sopracciglia unite sopra il naso, tale da mettere paura a chi lo vedeva, con pochi capelli ma con una linea in mezzo alla testa secondo il costume dei nazirei, e con una barba poco sviluppata”. Non esattamente corrispondente alla sua rappresentazione nella storia dell’iconografia cristiana, cosa che gli valse pertanto attacchi furibondi.

La grande depressione conseguente al crollo delle borse del 1929 lo spinse a promuovere una teoria della moneta, scrivendo vari volumi a tema. I suoi studi teologici procedono quindi con la dedizione al Quarto Vangelo, e nel 1935 venne invitato a parlarne alla conferenza di Eranos, dove conobbe Carl Gustav Jung e Károly Kerényi.

 

Nel 1938 venne internato nel campo di concentramento di Dachau, quindi inviato a Buchenwald. Dopo tredici mesi di prigionia riuscì a uscirne e a trasferirsi a Londra, dove rimase fino alla morte nel 1949.

Questa breve ricognizione biografica, utile a illustrare lo straordinario percorso di ricerca dell’autore, nel suo epilogo tocca due punti centrali all’elaborazione della conferenza a monte di Man into Wolf, Jung e la teoria degli archetipi e la violenza umana, vissuta in prima persona subendo la barbarie nazista.

La scelta di muovere il discorso dai temi del sadismo e del masochismo può essere legata al luogo in cui si è tenuta la prolusione, come detto, la Psychiatric Section della Royal Society of Medicine, e serve come causa occasionale per introdurre il discorso antropologico sulla violenza. Il masochismo, termine coniato da Richard von Krafft-Ebing, anziché “perversione”, è una forma particolarmente accentuata, per cui Eisler vanta il conio del termine “algobulia”, della naturale tendenza a mantenere attiva la sensibilità al dolore, di cui è evidente la funzione nella regolazione della condotta. A differenziare l’algobulia dall’“algolagnia”, è che la seconda, corrispondente propriamente al masochismo, è la ricerca del dolore come forma di soddisfazione sessuale. Ciò che non torna, in questa teoria generale, è come possa darsi nella forma opposta, il sadismo, la compossibilità della violenza e dell’amore, che in sé è ricerca del bene. Né torna, rispetto al masochismo, l’oggetto del desiderio, esemplificato compiutamente, per Leopold von Sacher-Masoch, dalla Venere in pelliccia. I tentativi di spiegare il sadismo in termini di “regressione”, in particolare dall’antropologia criminale di Lombroso, si negano al confronto con quanto possiamo sapere del “selvaggio” originario, che possiamo supporre, in omologia con i primati maggiori, frugivoro e non violento, il bon sauvage di Rousseau e delle tradizioni che rimandano a un’Età dell’oro. Secondo Eisler, “deve essersi verificato, in un certo stadio dell’evoluzione un cambiamento radicale nella sua dieta e nel suo modus vivendi, una mutazione […] quale quella ricordata nei miti, così diffusi fra tutte le popolazioni, che parlano di una “Caduta” o di un “peccato originale” dalle conseguenze disastrose e permanenti” (p. 31). L’innocuo abitatore delle selve, che gli fornivano in abbondanza frutta e vegetali commestibili, era comunitario e sessualmente non esclusivo. “Il carattere atavico o, per usare una terminologia junghiana “archetipico” di queste idee è particolarmente manifesto là dove il principio del libero amore è connesso all’etica di un severo vegetarianismo “paradisiaco” e all’assoluta proibizione di uccidere esseri viventi” (p. 35, il tema del vegetarianismo originario, nella sua dimensione etica, è approfondito da Enrico Giannetto nella sua introduzione a Uomo lupo).

 

 

Ciò che si tratta di considerare con la massima attenzione è il passaggio alla dieta carnivora/onnivora dell’uomo storico, e la soluzione proposta da Eisler è che sotto la pressione dell’ambiente, non più favorevole, e per imitazione, caratteristica fondamentale determinante della specie umana, degli animali da preda, il selvaggio imparò a cacciare e divorare le altre specie animali. La matrice imitativa si ritrova nella pratica ricorrente in molte culture di coprirsi di pelli in riti sacrificali cruenti. L’esempio cardine di Eisler è la confraternita mistica berbero-marocchina legata al sufismo degli Isawiyya (Aissawa), dedita a cerimonie in cui gli adepti vestono pelli di animali e giungono a sventrare e mangiare crude, in un’orgia sanguinaria, le bestie immolate.

Il lupo, animale simbolicamente surdeterminato, bestia da muta feroce per eccellenza, viene eletto a modello della trasformazione dell’uomo da pacifico primate frugivoro a cacciatore prevaricatore e violento, il termine che segna questo passaggio viene mutuato dalla psicopatologia, ed è licantropia, trasformazione dell’uomo in lupo, benché altre specie si siano prestate di volta in volta al ruolo, come per il berserker, l’uomo orso nordico.

Questa l’argomentazione della conferenza di Eisler, che nel seguito articola il pensiero in relazione a moltissime tracce culturali, dando sfogo alla sua strabiliante erudizione, che ulteriormente, come detto, saturerà di proliferazioni colte a margine l’imponente apparato di note.

In conclusione, Eisler si domanda se la violenza introiettata per imitazione dalla specie umana giungerà alle sue estreme conseguenze, come lascerebbe supporre la crudeltà istituzionale nazista, sperimentata in prima persona, oppure se si dia la possibilità eventuale di una regressione, di un ritorno allo stato edenico precedente al divenire lupo, e vede nella sua congettura una speranza, se c’è stata caduta, esiste la possibilità di “domare la belva ‘archetipica’ che è in noi e riportare l’umanità alla sua condizione primordiale di ahimsa o ‘in-nocenza’, realizzando la pace in terra fra gli uomini di buona volontà” (p. 57).

Conclusa la lettura, frastornati dall’impressionante mole dell’apparato di note esplicative e dalla loro ricchezza, si prova un confronto con l’argomentazione. 

 

Sarebbe da augurarsi che l’uomo avesse preso a modello da imitare il lupo, animale nella cui organizzazione sociale gli elementi differenziano la propria disposizione e le proprie capacità per massimizzare l’efficacia del gruppo. Non a caso Deleuze e Guattari scelgono quel modello, la muta di lupi, per contrapporlo in modo positivo al branco, la massa di individui indifferenziati, sempre più evidentemente modello presente dell’umanità. Poi il lupo non uccide per divertimento, e solo eccezionalmente i propri simili. L’uomo si è spinto oltre l’imitazione, la sua violenza non trova limiti razionali, e la sua potenza è giunta ormai da decenni a rendere la sterilizzazione nucleare del mondo una possibilità concreta. Eisler esclude poi a priori l’eventualità dell’ipotesi regressiva lombrosiana, barrata logicamente anche in senso virtuoso, per cui la sua aspirazione al ritorno all’aimsha trova la strada preclusa. Tocca rimanere lupi, e forse volersi più lupi, nel senso della dedizione al comune secondo le proprie capacità, nello spirito della muta. E confidare forse nell’ambivalenza dell’archetipo, nella speranza di divenire Loopy De Loop (da vero erudito, Eisler non disdegna del resto riferimenti pop, da Tarzan a John Barleycorn).

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