Un'antologia a cura di Riccardo Venturi / Mark Rothko: vivere l'arte

5 Aprile 2022

Esistono dei colori dall’apparenza spettrale detti “della lontananza” perché localizzati a distanze imprecisabili. Nella pittura di Mark Rothko questi colori si manifestano, occupando progressivamente l’intero campo visivo, in corrispondenza a una svolta stilistica (signature style) avvenuta dopo un periodo d’inattività. Per un anno intero l’artista americano di origini lituane Mark Rothko smise di dipingere dedicandosi esclusivamente alla scrittura, in seguito o in coincidenza con la morte della madre. Questo periodo di inattività sembra aver influito sulla svolta che lo porterà ad elaborare il suo stile distintivo.

 

Scrutando dentro se stesso attraverso la scrittura, Rothko avrà scoperto un legame tra la sua “preoccupazione manifesta per la morte” e quella del colore che si dilata fluttuando sulla superficie della tela? L'idea che uno scambio tra pittura e scrittura porti al cuore dell’esperienza umana è dichiarata in un’intervista rilasciata a William Seitz il 22 gennaio 1952: “Il tipo di scrittura di cui abbiamo bisogno oggi è quella in cui le persone trascrivono le loro reazioni davanti alla pittura, scrutare dentro loro stesse per essere in grado di verbalizzare quale senso i dipinti rivestono veramente per loro in quanto esseri umani”.

È stata recentemente pubblicata da Donzelli (Roma 2021) una raccolta dei testi dell’artista: Mark Rothko. Vivere l’Arte. Scritti (1934-1969). Riccardo Venturi, curatore di questa terza edizione italiana riveduta e aggiornata, ha integrato la raccolta con una selezione di opere che accompagnano cronologicamente gli scritti.

 

Mark Rothko, Red on Maroon, 1959, Seagram Murales, Tate Britain, Londra.

 

Nella pittura di Rothko il colore fluttua come quello filmare, trapassando da una tonalità all’altra. Il colore filmare è quello impalpabile della volta celeste, dell’arcobaleno e della nebbia fitta. Per percepirlo nelle opere dell’artista è necessario porsi a una distanza di 18 pollici (45,72 cm) dalla superficie della tela, in modo che il campo visivo sia totalmente occupato dalla campitura di colore (p. 134).

 

 

Lido di Ravenna nella nebbia, 31 dicembre 2021 / Rothko nel suo studio sulla 53a strada, davanti a No. 25, 1951. Foto di Kay Bell Reynal, 1952.

 

La tinta o tonalità è invece la sensazione visiva prodotta in noi da ciascuna lunghezza d’onda della luce dello spettro visibile. Per esempio vediamo il blu se la lunghezza d’onda è tra i 465 e i 482 nm, il rosso se la frequenza è tra i 620 e i 680 nm. Il passaggio da una tonalità all’altra corrisponde a una variazione della lunghezza d’onda della luce, che è repentina nella regione centrale dello spettro visivo e lenta ai suoi lati (sopra i 600 nm: arancione rossastro, rosso, rosso profondo; sotto i 500 nm: verde bluastro, blu verdastro, blu, indaco, violetto). In queste regioni periferiche dello spettro visivo la tonalità del colore cambia lentamente mentre diminuisce rapidamente la sua luminosità o brillanza, come i colori cupi dei 14 dipinti site-specific della Rothko Chapel, commissionati da John e Dominique de Ménil. La lentezza con la quale un tono trascorre nell’altro induce un atteggiamento meditativo.

 

 

Rothko Chapel, interno, 1971. Foto di Hickey-Robertson, Houston, Courtesy The Rothko Chapel.

 

Non si può ridurre tutto alle reazioni fotochimiche dei recettori stimolati dalla radiazione elettromagnetica che interagisce con la materia e al calcolo neuronale, mette sull’avviso Venturi nella postfazione. In cinque paragrafi, il curatore degli Scritti esplora la pittura di Rothko confrontandosi direttamente con le opere, sulla base dei numerosi studi dedicati a questo autore che rinnovò la pittura americana del secondo dopoguerra. Venturi ci guida tra le varie letture critiche dell’opera dell’artista precisando che ogni interpretazione alimenta la speranza di “cogliere quello che continua a sfuggirci” (p. 248). Ciò che “sfugge sempre in questa pittura”, bisogna cercarlo nella pittura stessa.

 

Sommando la variazione di tono all’aspetto filmare, Rothko anima il colore che galleggia sulla superficie della tela, lo rende vivo, pulsante e al tempo stesso inafferrabile. A proposito di questa pulsazione spesso si cita quello che l’artista dichiara in una conversazione con il collega Alfred Jensen: “nei miei dipinti vi sono due caratteristiche: o le loro superfici si dilatano e spingono verso l’esterno in ogni direzione, oppure si contraggono e precipitano all’interno in ogni direzione” (p. 256). Giuseppe Di Napoli analizza in modo esaustivo e puntuale questo aspetto fenomenico del colore nel saggio Il colore dipinto (Einaudi, Torino 2006, pp. 146-148).

 

Mark Rothko, No. 5, 1964, National Gallery of Art, Washington.

 

Anche Venturi rileva la natura vibratile di questi colori e, nella Rothko Chapel, la riduzione degli intervalli tonali (p. 238), che estremizza quanto accade in termini di apparenza del colore nelle regioni periferiche dello spettro visivo. 

 

Lo storico dell’arte nota anche una polarità tra la pulsazione del colore e la struttura compositiva dell’opera, ponendola in rapporto a due “geometrie dello sguardo”: la visione ravvicinata e a distanza, la prima esemplificata dalla fotografia scattata da Kay Bell Reynal, dove Rothko sembra affacciarsi a una finestra aperta sull’infinito, la seconda dalla fotografia scattata da Hans Namuth, che mostra l’artista seduto su una poltrona mentre contempla una sua opera da alcuni metri di distanza. Rothko si allontana per cogliere la struttura compositiva, o si avvicina per immergersi nel colore che si espande, fluttua, palpita e respira.

 

Mark Rothko nel suo studio nell’East Hampton, 1964. Foto di Hans Namuth, National Portrait Gallery, Smithsonian Institution, © Hans Namuth Ltd.

 

Intangibili, eterei e al tempo stesso vivi, i colori filmari palpitano come le parole in musica di Metastasio nei momenti di addio e perdita (Olimpiade, Atto II, sc.2. Aria di Megacle). Il desiderio di qualcosa che sfugge pulsa nelle opere di Metastasio e in quelle di Rothko. Nel caso del pittore americano, questo desiderio ha un rapporto col “bisogno pressante di un’esperienza trascendente” (p. 101). L’aspetto fenomenico del colore che trasfigura, perdendo la sua consistenza materiale, può assumere un significato spirituale in rapporto alla sensibilità di chi lo osserva. “Quanti piangono davanti ai miei quadri vivono la stessa esperienza religiosa che ho vissuto io quando li ho dipinti”, confessa allo scrittore Selden Rodman (p. 179). Riferendolo alla cultura religiosa dell’ebraismo, una parte della critica porta l’attenzione sull’aspetto aniconico della sua pittura, che si manifesterebbe con la dissoluzione della figurazione in campiture di colore etereo e pulsante. 

 

La sensazione di addio e perdita è evidente anche nella “preoccupazione manifesta per la morte”, uno degli “ingredienti” che il pittore combina insieme ad altri per comporre le sue opere. Questa preoccupazione ha un aspetto romantico e insieme tragico: “Arte tragica, arte romantica ecc. hanno tutte a che fare con la consapevolezza della morte” (p. 184). Dalla lettura degli Scritti, il sentimento romantico e l’afflato religioso sembrano convergere nella sua opera in un modo problematico.

A questo riguardo è necessaria una digressione.

Quando si pensa all’arte sacra vengono subito in mente le interdizioni post-tridentine sulle immagini del cardinale Federico Paleotti (Discorso intorno alle immagini sacre e profane, Bologna 1582). Raffinato intenditore d’arte, Paleotti guida sapientemente l’artista nell’interpretazione figurativa delle indicazioni conciliari, con la consapevolezza che cultura artistica e committenza ecclesiastica sono ormai giunte a confrontarsi alla pari. La Controriforma assegna all’immagine la funzione di rappresentare la storia e il dogma, ma al tempo stesso concede all’artista sempre maggiore autonomia. L’immagine sacra viene estetizzata in rapporto alla nozione di personalità (che prepara quella di proprietà) artistica ed intellettuale, nel contesto di una capitalizzazione dei “prodotti dello spirito”.

 

Mark Rothko, Untitled (Violet, Black, Orange, Yellow on White and Red), 1949, Solomon Guggenheim Museum, New York.

 

“Secondo me tu quel Rothko lo vuoi. Costoso. Ma sì. Ne hai assolutamente bisogno” scrive Don DeLillo nel romanzo Cosmopolis, riferendosi a un dipinto dell’artista americano. Eric Packer, il ventottenne miliardario protagonista di Cosmopolis non vuole il mistero della trascendenza, ma un Rothko. Vorrebbe addirittura acquistare l’intera Rothko Chapel

 

“Ma la cappella Rothko appartiene al mondo.”

“È mia se la compero.”

 

Davanti ai dipinti della Rothko Chapel, così come davanti a un’opera di Raffaello, che in un sonetto del 1533 l’Aretino definisce “Divino”, non sostiamo in adorazione del soggetto rappresentato, ma dell’opera o dell’artista stesso. 

Dal Rinascimento in poi l’arte si emanciperà dal contenuto dottrinale per giungere con il Romanticismo a una svolta decisiva. Per Wilhelm Heinrich Wackenroder, uno dei fondatori del Romanticismo tedesco, il sublime dell’arte è il punto d’arrivo della religione. L’arte diventa cioè una nuova religione. Il fatto che Wackenroder prenda ad esempio Raffaello come artista ispirato da ciò che lo trascende, tradisce la sottile connessione tra la “capitalizzazione dei prodotti dello spirito” e il sentimento neo-romantico dell’irrazionale, che troverà nell’estetizzazione del mondo neoliberista, che è anche quello di Rothko, la sua forma compiuta.

Nel saggio Il sensibile e l’inatteso. Lezioni di estetica teologica (Queriniana, Brescia, 2016), il teologo Pierangelo Sequeri analizza il riversarsi dell’estetica all’interno del sistema di produzione dei beni e della comunicazione di massa, consegnandola alla sfera dell’emozione, del sentire e dell’irrazionale, in una misura maggiore rispetto alla modernità romantica. La Rothko Chapel è un tempio dedicato al culto dell’arte, promosso e finanziato dai “più ricchi bastardi di New York [e di Houston]” (p. 195). 

Verrà da qui il senso del tragico che l’artista avvertiva nella sua pittura? 

 

Untitled, 1970, National Gallery of Art, Washington (tela incompiuta trovata sul cavalletto del suo studio la mattina del 25 febbraio 1970, quando Rothko si tolse la vita).

 

E’ proprio come scrive Venturi: ogni interpretazione dell’opera di Rothko alimenta la speranza di “cogliere quello che continua a sfuggirci”. I discorsi sull’arte sono fluttuanti, atmosferici e aerei quanto lo sono i colori filmari

 

Per questa ragione è necessario esaminare il colore nel suo aspetto fenomenico. A tal riguardo è interessante la testimonianza di Bryan Robertson, direttore della Whitechapel Gallery di Londra dove, nel 1961, era stata allestita una mostra dedicata all’artista americano. Spegnendo le luci: “il colore di Rothko si illuminò da solo: l’effetto, una volta adattata la retina, era indimenticabile, ardente, risplendente e raggiante delicatamente dal muro” (p. 170). 

 

Veduta della mostra personale di Mark Rothko alla Whitechapel Gallery di Londra, 1961.

 

Il colore si “illuminò” a causa della chimica dei pigmenti in polvere che Rothko mescolava con albume, acqua e vernice di resina damar? Oppure a causa del fenomeno conosciuto come spostamento di Purkinje, che si verifica nel passaggio dalla visione fotopica (diurna) a quella scotopica (crepuscolare e notturna)? L’adattamento all’oscurità si accompagna a diversi processi nervosi, tra i quali l’accumularsi dei prodotti della reazione fotochimica per un tempo più lungo. Si potrebbe altresì ipotizzare che allo spegnersi delle luci, nella semioscurità di un tardo pomeriggio invernale, siano apparsi dei colori consecutivi negativi, colori impalpabili, eterei quanto quelli filmari. L’immagine consecutiva è generata dal perdurare dell’attività dei fotorecettori e delle cellule del corpo genicolato laterale dopo la cessazione dello stimolo. Se così fosse Robertson avrebbe dovuto vedere i colori contrari e per pochi secondi, cosa che non corrisponde alla durata del fenomeno testimoniata dal direttore della Whitechapel. Probabilmente i colori si “illuminarono” per un concorso di cause difficili da accertare, nonostante Venturi fornisca tutte le informazioni reperibili sull’evento nella tesi sostenuta a l’Université de Paris X nel 2010 (Mark Rothko et l’expérience du tableau moderniste, pp. 534-537). Quali siano stati i processi adattativi, compensativi e rigenerativi attivati dallo spegnimento delle luci alla Whitechapel resta un enigma, ma trovo suggestiva l’idea che transitando dalla visione diurna a quella crepuscolare, caratterizzata da una risposta percettiva prevalentemente automatica e inconsapevole, Rothko e Robertson, così come anche Rothko e Philippe Guston alla galleria di Sidney Janis (p. 170), siano penetrati in una zona opaca alla coscienza, che ha a che fare con la materia e l’energia.

 

“Sono un materialista. I miei quadri sono fatti di cose [si riferisce al colore disteso sulla superficie della tela]”, dichiara Rothko, affiancando al lavoro di pittura quello di scrittura. Come suggerisce Venturi nella premessa: “I testi che accompagnano le opere possono essere letti o isolatamente o come tappe di un unico discorso in cui si tenta di pensare con le immagini piuttosto che, più tradizionalmente, di pensare le immagini” (p. XV). Quello del curatore della terza edizione italiana degli Scritti è un discorso che aderisce alla specificità visuale dell’opera senza irrigidirsi in modelli precostituiti. 

Mark Rothko. Vivere l’Arte è un’ottima occasione per conoscere l’opera di Rothko e al tempo stesso per pensare con le immagini.

 

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