Ipotiposi / Fra la terra e il mare
“C’è su questa terra una condizione di vita, ci sono circostanze paesistiche (se di ‘paesaggio’ è lecito parlare nel caso che abbiamo in mente) nelle quali una siffatta confusione e l’eliminazione delle distanze di tempo e spazio fino alla vertiginosa uniformità hanno luogo, si può dire, per natura e di diritto, sicché l’abbandono al loro fascino in ore di vacanza può in ogni caso considerarsi lecito. Alludiamo alla passeggiata in riva al mare”. Hans Castorp, il protagonista della Montagna incantata di Thomas Mann, dal suo “esilio” nel sanatorio sulle Alpi svizzere, evoca con piacere nostalgico l’esperienza “disturbante” di una passeggiata sulla spiaggia. Lì consolidate distinzioni si con-fondono, vengono meno i nostri abituali riferimenti, le coordinate di quella coppia benedetta o maledetta della storia del pensiero occidentale, lo spazio e il tempo, i kantiani a priori della sensibilità, perdono valore. Dalla passeggiata non si giunge mai a casa in tempo, perché il tempo ci ha perduto o noi lo abbiamo smarrito; i criteri con cui abitualmente misuriamo distanza e profondità si fanno incerti: quali dimensioni possiede la vela che si perde nella “schiumosa lontananza verdegrigia”, di quante miglia è lontana dalla riva? Tutto si è fatto indeciso. “Nulla muta col nostro passo, là è come qui, dianzi come ora e dopo; il tempo annega nella non misurata monotonia dello spazio, il moto da un punto all’altro non è più moto quando domina l’uniformità, e dove il moto non è più moto non c’è il tempo”, prosegue Thomas Mann.
Sulla riva del mare abitiamo lo spazio del tra, luogo dell’indistinto fra l’acqua e la terra, fra l’umido e il secco: la nostra cultura, almeno dal tempo di Platone, ha cercato certezza nel gioco in cui gli opposti si escludono, fatica dunque a pensare il “misto” in cui si mescola quel che la logica vorrebbe separare. Nei punti di transizione si apre una soglia che non costituisce linea di demarcazione: “ogni onda non arriva mai esattamente nello stesso punto a deporre la sua riga di schiuma sulla riva: lascia una frangia incerta alla transizione da un elemento all’altro, dalla terra all’acqua. Così stanno le cose più in generale in relazione a tutto il paesaggio”, scrive François Jullien. Qual è il punto, tracciabile con gli strumenti euclidei della riga o del compasso, dove il mare si separa dalla spiaggia? Le mappe tracciano le coordinate stabili del territorio, dividono e separano, come fanno i confini catastali delle proprietà e le frontiere delle nazioni, ma il paesaggio non si lascia scomporre, smembrare. È vero, la mappa non è il territorio, diceva Gregory Bateson sulla scia dell’ingegnere filosofo Alfred Korzybski, ma forse è proprio il paesaggio la mappa più adeguata, il miglior modello della realtà? Quello che meglio restituisce la grana ultrafine delle cose, le pieghe barocche del mondo? Dove comincia il Mezzogiorno e termina il Nord? Facile rispondere ricorrendo alla convenzione delle righe tracciate sul mappamondo, ai gradi di latitudine, ma quando percorriamo quei sentieri nessuna pietra miliare ci suggerisce che il cielo ha assunto un’altra luminosità, che i colori si sono fatti più intensi. “Non sono certo gli ulivi o le cicale a fare il Mezzogiorno … E nemmeno il calore incrostato nella pietra o sul tetto delle case. Non c’è una cosa-sostrato – possibile ‘soggetto’ di un discorso – che ‘sia’ il Mezzogiorno”. La trasformazione è d’ambiente, suggerisce Jullien, forma un complesso di tratti intrecciati, che si colgono globalmente, senza che sia possibile sommare determinazioni chiare e distinte; la transizione è troppo continua per tradursi nelle tracce separatrici disegnabili sulla carta.
La scienza costruisce immagini dei fatti, elabora modelli, ricostruzioni ridotte, schemi o rappresentazioni che consentono di simulare frammenti di realtà, per poter intervenire su di essi, in obbedienza, avrebbe detto Bergson, alle esigenze dell’homo faber. Ma la rappresentazione grafica, il ricorso ad un modello teorico, non si limita a semplificare il reale, spesso finisce per falsificarlo. Se cerchiamo di trovare la tangente ad un punto confidando nella mappa del litorale della Bretagna, scopriamo che essa cambia a seconda della grandezza della scala geografica che riproduce la costa. Quando, abbandonata la carta, guardiamo sempre più da vicino il litorale, allora vediamo apparire anfrattuosità sempre nuove, dettagli cavernosi che impediscono di fissare una tangente. L’esempio è proposto da Jean Perrin, premio Nobel per la Fisica nel 1926 per le sue ricerche sulla struttura discontinua della materia, in apertura del libro dedicato agli Atomi (1912). L’ideale pitagorico-platonico di una Natura obbediente al “suggerimento cristallografico di Dio” (Gadda), fatto proprio dalla scienza moderna, ha steso sul mondo il velo geometrico dei poliedri regolari o la compiuta precisione delle funzioni continue derivabili. Nella realtà, tuttavia, tali funzioni rappresentano l’eccezione, le curve regolari come il cerchio restano casi interessanti ma particolari. La carta del litorale della Bretagna è un disegno convenzionale i cui tratti, economizzando la realtà, rimpiazzano ciò che è frammentato e irregolare, sostituiscono il finito all’infinito, il razionale al reale. Quanto più fine e precisa si fa la scala della mappa, tanto più aumenta la lunghezza della costa, si approssima all’infinito se prende in esame le miriadi di sinuosità intercalate tra golfi e promontori. Rari sono gli esempi di materia regolarmente continua, nota Perrin, cristalli come i diamanti, liquidi come l’acqua o i gas, per i quali mantiene un senso l’idea classica che si possa scomporre un oggetto in piccole parti omogenee fra loro, componenti locali che si ripetono identiche. È sufficiente che mi avvicini sempre più ad un frammento di materia in apparenza omogeneo o che utilizzi un microscopio, ad esempio per osservare una cellula vivente, perché il frammento si sveli indefinitamente spugnoso, granuloso e lacunoso. L’equilibrio e l’omogeneità sono l’apparenza che scompare se si modifica l’ingrandimento col quale si osserva la materia: sotto quel che appare alla ricostruzione grossolana del nostro sguardo si nasconde un regime permanente di agitazione disordinata, anche in molti oggetti naturali che ci sono familiari, ma estranei agli schemi semplificanti della geometria classica. Il reale è un intrico labirintico di particelle spugnose, in preda ad un disordinato moto browniano.
Non si tratta di rinunciare a matematizzare il mondo, occorre affidarsi ad una geometria diversa dalla metrica euclidea, ad un calcolo che non ci illuda di poter sempre estendere il locale al globale come fa l’analisi infinitesimale. Nell’introduzione a Gli oggetti frattali il matematico francese Benoît Mandelbrot scrive di aver letto Gli atomi di Perrin solo poco prima di dare alle stampe il proprio libro: “senza saperlo, da anni lavoravo a rianimare, realizzare e continuare un programma di ricerca […] che risaliva al 1912”. Oltre a cercare di misurare con precisione il litorale della Bretagna, Mandelbrot ha stabilito la frequenza di certi errori nella trasmissione telefonica, calcolato la superficie della luna ricoperta di crateri, la distribuzione della materia stellare o il rilievo terrestre, elaborato una geometria della turbolenza: si è ingegnato cioè a fornire l’andamento grafico ed il valore numerico per oggetti fisici nel cui processo di frammentazione è essenziale, già a livello microscopico, l’intervento del caso. Per delineare il loro andamento, Mandelbrot adotta curve prive di tangente, funzioni continue prive di derivata: modello semplificato di tali oggetti è la curva di von Koch, dotata di omotetia interna, la cui dimensione non corrisponde a un valore intero ma a una frazione. In termini più intuitivi, la curva si colloca in uno spazio di dimensione intermedia tra 1 e 2, tra linea e superficie, è un oggetto appunto frattale.
La Matematica svolge qui la funzione di dare rappresentanza alle forme lavorate dal caso: quanto più il modello si fa irregolare, tanto più le sue proprietà si fanno realistiche, meglio approssimano la complessità del reale. Il rapporto di omotetia interna che caratterizza gli oggetti frattali consente di iterare l’operazione di divisione aleatoria delle loro parti fino a giungere ad un insieme cavernoso, localmente frantumato, simile ad una spugna. Il reale è frattale, pullulante di frammenti, è una nuvola polverosa di cui la scienza classica e la tecnologia hanno descritto solo simulacri, rendendo la materia liscia e razionale, quasi sovrapponendo un sacchetto di plastica a una spugna. La materia ha una struttura infinitamente cavernosa, indefinitamente differenziata, ben diversa da quell’essere regolarmente continuo che costituiva l’oggetto prediletto dai saperi classici, il cristallo. Mondo lacunoso, poroso come la terra-vaso di Lucrezio nel VI libro del De rerum natura, il libro delle Meteore: corpo cavo, composto di pieni e vuoti, intrico di caverne che si addentrano le une nelle altre, il suolo e il sottosuolo riproducono la struttura elementare dell’intero universo, atomi dispersi nel vuoto. Non una massa inerte in balia di forze esterne, ma un sistema fluttuante, sospinto dai flussi dei venti turbinosi, dai moti ondosi del mare, dalle piene dei fiumi. “Ogni corpo è cavo: ogni corpo è pozzo e ogni corpo è fontana”: metafora, o meglio modello, di una dinamica dei fluidi, di una fisica della turbolenza. Il mondo-vaso lascia fluire qualcosa fuori di sé, è un sistema aperto in cui flussi in entrata compensano per un certo tempo quelli in uscita: omeostasi locale nell’omeoresi globale, stabilità precaria del sistema nella variazione degli scorrimenti. La fisica dell’atomismo è scritta in linguaggio idraulico, è una meccanica dei fluidi generalizzata: così doveva essere per una civiltà sorta sulle rive del Mediterraneo, ricettacolo di fiumi talvolta in piena, di piogge e tempeste, da cui l’acqua evapora dispersa dai venti. Anche l’organismo è un vaso con lacune, corpo cavo dove transitano flussi liquidi e solidi, ricco di canali, vene, pori, reti di trasmissioni idrauliche: tutto scorre attraverso tutto, ma ogni corpo ha i suoi percorsi specifici, quel che cola in un tessuto trova la via ostruita in un altro, ed il vuoto circola come fa l’acqua del mare all’interno di una spugna. Forse l’universo intero, sospettano alcuni astrofisici, è un’immensa spugna, traforata da miliardi di buchi e gallerie; così appare quando lo si osserva non con una mappa bidimensionale ma attraverso una struttura topologica a tre dimensioni, dove il pieno delle galassie ed il vuoto di una materia a bassissima densità si alternano simmetricamente.
In un capitolo della Formazione dello spirito scientifico, Bachelard indicava l’immagine della spugna nella prescienza del Settecento come esempio eminente di “ostacolo epistemologico”: la metafora frena il costituirsi di un’indagine positiva e di una effettiva comprensione dei fenomeni. La materia considerata come una spugna in cui penetra il fluido elettrico, la terra come spugna che riceve gli altri elementi: immagini per suggerire l’attitudine a ricevere, ad assorbire, metafore che danno l’illusione di aver compreso un fenomeno, ma che, in realtà, hanno solo prodotto un arresto conoscitivo. Forse, suggeriva Serres, dovremmo cercare nel Bachelard studioso dell’immaginario, più che nell’epistemologo, gli annunci delle scienze contemporanee, gli oggetti delle scienze della vita e della terra, di quella Biogea che è un sistema aperto di flussi interagenti regolati dalle variabili ambientali e climatiche. È il ritorno delle spugne, oggetti rimossi nella storia della scienza, come le nubi e le intemperie, relegati nella rêverie delle pagine letterarie. Che sia anche l’annuncio di un ritorno alle cose stesse da parte della scienza, che aveva smarrito il contatto con il mondo nella clausura dei laboratori? “Si erano così spesso relegati nella poesia intimista o in un vacanziero arcadismo i detti del mare, dell’aria o delle isole, che ritrovarli, di colpo, nelle matematiche e nella storia mi aveva dato un senso di soffocamento. Era da gran tempo, da Perrin, da Lucrezio, che la scienza non mi aveva spinto fuori. Fuori, per rivedere ciò che non avevo mai visto. Fuori, come facevano senza dubbio i fisici della Ionia. Usciamo, lasciamoci condurre da Benoît Mandelbrot. Il mondo terracqueo torna a noi, grazie a lui, per immensi pezzi, il vento, l’oceano, la riva. Sarà presto la festa del mondo o il ritorno del dimenticato” (Serres, Passaggio a Nord-Ovest).
Sulla riva del mare lo sguardo si adagia nella contemplazione sognante, intrisa di malinconia quando il sole vi deposita le sue ultime luci; avverte il sentimento del sublime, inseguendo un orizzonte che, nella lontananza inattingibile, suggerisce il varco verso l’infinito. Ma sulla riva ci vengono offerti anche tutti gli ingredienti sensibili dai quali il pensiero ha tratto ispirazione, luce e spazio, libertà e ritmo, trasparenza e profondità, gli attributi che permettono al sapere di costituirsi, chiarezza, vastità e misura. È questo il motivo per cui Paul Valéry può scrivere, nel saggio Ispirazioni mediterranee: “uno sguardo sul mare è uno sguardo sul possibile”. Come le parole del pensiero più astratto sono tratte dall’uso corrente – pensare, comprendere, spirito, idea, derivano da pesare, afferrare, respirare, vedere –, così il cielo, il mare, il sole hanno suggerito alle menti contemplative quelle nozioni di infinito, di profondità, di conoscenza che costituiscono gli oggetti della riflessione fisica e filosofica. La funzione che il Mediterraneo ha svolto nella formazione dello spirito europeo è stata, per Valéry, quella di offrire il cammino originario per la trasformazione psicologica e tecnica dell’Europa, una trasformazione che si esprime “in un allontanamento sempre più accentuato dalle condizioni iniziali o naturali della vita”: è sulle sponde del mare che, mediante la precisione dei metodi d’indagine, si è sviluppato l’uso della mente per la comprensione dei fenomeni.
In un breve scritto del 1931, Walter Benjamin scriveva a proposito di Paul Valéry: “Se volessimo fare una sorpresa all’autore di questa opera grandiosa, Eupalinos o l’architettura, per il suo sessantesimo compleanno, regalandogli un ex libris, esso potrebbe rappresentare un potente compasso con una gamba piantata sul fondo del mare e l’altra tesa lontano sull’orizzonte”. Nel dialogo Eupalinos, Fedro incontra il suo maestro Socrate nell’aldilà e rievoca la figura del mitico architetto in cui l’operare artistico nasceva in accordo con il produrre della natura; nei discorsi agli operai egli “parlava per ordine e numeri”, “al modo stesso di Dio”, aggiunge Socrate. Ma il Fedro di Valéry è un critico dell’idealismo platonico, del dualismo orfico che Socrate, custode dell’anima, aveva riaffermato; accusa il suo maestro di aver mancato il gusto per le bellezze materiali – “Ciò che vi è di bello non sta nell’eterno” –, per quelle gioie del costruire che non separano l’idea di un tempio dalla sua edificazione. Dedicandosi all’architettura, Eupalino ha costruito anche se stesso; come nel modello rinascimentale dell’homo faber, corpo e spirito si sono accordati e compresi per il tramite dell’azione sulla materia.
Socrate replica ricordando un episodio dell’adolescenza, quando sulla riva del mare gli capitò sotto gli occhi “l’oggetto più ambiguo del mondo”. Furono le riflessioni suscitate da quell’oggetto ad indurlo a seguire il cammino della filosofia, fu quella circostanza a fargli abbandonare l’architetto che pure era in lui. L’oggetto portato dal mare era una cosa bianca, fatta della stessa materia della sua forma, “materia d’incertezza”. Dal mare incontaminato, memoria di una condizione di felicità perduta, emergono oggetti levigati, montaliani ossi di seppia, residui calcarei deposti sulla spiaggia della desolazione del vivere terreno; relitti inutili, segni dell’arido decomporsi del vivere, ma anche spiragli che aprono il varco in cui le cose tradiscono il loro segreto. La vastità del mare sa decantare tutte le imperfezioni del fondo, ripulisce e leviga grazie all’azione corrosiva della salsedine. Quell’ambiguo oggetto era “un’opera della vita, dell’arte, o del tempo, e gioco di natura?”, si chiede Socrate. Poteva essere un osso di pesce bizzarramente consumato dallo scorrere della sabbia sotto le acque, oppure avorio intagliato da un artigiano d’oltremare; un pezzo di marmo o un frammento di roccia lavorato dal moto ondoso fino a fargli assumere le parvenze di una divinità scolpita, oppure l’opera di un organismo che ciecamente forma i suoi organi e nutrendosi si costruisce un guscio. Era l’opera di un mortale obbediente ad un’idea che con l’intervento delle mani e di un pensiero progettuale ha imposto alla materia uno scopo ad essa estraneo, per poi separarsi dall’oggetto che ha costruito? Oppure sono stati i capricci delle circostanze a condurre a termine nel corso dei secoli o dei millenni quel che l’artista avrebbe saputo produrre in breve tempo? Il poiein dell’uomo artefice, l’atto rischiarato da un pensiero, appare a Socrate come l’abbreviazione del corso della natura. “E può dirsi con sicurezza che un artista valga mille secoli o centomila o anche di più. Cioè, questo tempo quasi inconcepibile sarebbe occorso all’ignorante, o al caso, per ottenere la stessa cosa che il nostro uomo eccellente ha potuto compiere in pochi giorni”.
Tornano alla mente certi quadri di Yves Tanguy: paesaggi piatti, silenziosi e malinconici, in cui il terreno conserva tracce di orme indefinibili, stadio magmatico della genesi, con escrescenze materiche simili ad embrioni. L’impressione è di trovarsi su spiagge di epoche geologiche antichissime dalle quali il mare si è ritirato, lasciando corpi disegnati dalle correnti, detriti arenati di un misterioso naufragio. Dal mare, luogo delle origini e dell’irrazionale, dell’inconscio tanto caro ai surrealisti, emanazioni gassose, formazioni nebulose, colate laviche tendono progressivamente a pietrificarsi; dal fluido indeterminato emergono forme solide e indurite, che si fanno regolari e compiute, fino alle agglomerazioni quasi monumentali di “Palazzo promontorio”. Scriveva Breton a proposito di Tanguy: “Con lui entriamo per la prima volta in un mondo di latenza totale. L’elisir di vita tende qui a decantarsi di tutto ciò che di torbido gli porta la nostra provvisoria esistenza individuale, il mare s’abbassa scoprendo a perdita d’occhio la spiaggia dove strisciano, si alzano e si chinano e a volte sprofondano o spiccano il volo, formazioni di tipo del tutto nuovo, che non hanno immediati equivalenti in natura”.
Per il Socrate di Valéry, fra le cose del mondo sensibile esistono distinzioni nette nei modi di produzione. Una roccia o un paesaggio sono opera del caso, mentre le piante e gli animali, i kantiani “fini della natura”, si sviluppano secondo un programma interno, per un accrescimento che già è contenuto in potenza in essi. La natura non divide il progetto dall’esecuzione, mentre le opere dell’uomo sono dovute agli atti di un pensiero i cui principi sono separati dalla costruzione. L’architettura è quell’operare completo in cui si tiene conto dell’esigenza del corpo, che cerca l’utile, dell’anima, che insegue la bellezza, infine del mondo, che ci impone di dare solidità e durata alle opere umane. Ma se in un albero il grado di complessità del tutto è più elevato di quello delle sue parti, gli oggetti prodotti dall’uomo, invece, nel loro insieme sono d’un grado inferiore a quello delle parti; il tavolo costruito dall’artigiano possiede una struttura meno complessa del tessuto delle fibre del legno. L’homo faber non si preoccupa di tutte le qualità della materia del suo lavoro, fabbrica per astrazione, utilizza soltanto quanto è sufficiente ai suoi scopi; la sua opera implica una trasformazione dal disordine all’ordine, impone di violare o turbare l’ordine dei materiali con cui costruisce, per adattarli all’idea del suo progetto e all’utilizzo previsto. All’uomo che agisce non serve tutta la natura, gliene basta una parte, si accontenta dunque di una conoscenza parziale. È questa la ragione con cui Socrate motiva la sua scelta per la filosofia, dopo l’esitazione iniziale fra costruire e conoscere: “È filosofo colui che concepisce sempre più vasto e vuole aver bisogno di tutto”.
Ma il sogno di Fedro ignora la contrapposizione fra l’operare umano e la techne della natura, non pensa che la materia sia il dato inerte che si presta alla manipolazione dell’artefice. Diceva Picasso rivolgendosi al “cinese” Malraux: un proverbio cinese esprime al meglio quanto sia mai stato detto in pittura: «non bisogna imitare la vita, bisogna lavorare come lei», cioè seguire lo stesso processo grazie al quale la natura produce. L’Eupalino a cui Fedro affida la sua filosofia dell’architettura lascia che arte e natura cooperino nella progettazione di una nave: “Egli immaginava con passione la natura dei venti e delle acque e così la mobilità come la resistenza di questi fluidi; meditava la generazione delle tempeste e delle calme, la circolazione delle correnti tiepide e dei non mescolabili fiumi che scorrono misteriosamente puri fra gli argini bruni d’acqua salsa; considerava i capricci e i pentimenti delle brezze, le incertezze dei fondi, dei passi e degli estuari insidiosi … Credeva che una nave dovesse, in qualche sorta, crearla la coscienza del mare, e quasi confezionarla l’onda medesima. Questa conoscenza consiste, in verità, nel sostituire il mare, nei nostri ragionamenti, colle azioni che esso compie su un corpo”.
Bibliografia
Gaston Bachelard, La formazione dello spirito scientifico, 1938, Cortina, 1995
Walter Benjamin, Paul Valéry, in Avanguardia e rivoluzione, Einaudi, 1973
André Breton, Il surrealismo e la pittura, 1928, Marchi, 1966 (Abscondita, 2018)
François Jullien, Le trasformazioni silenziose, Cortina, 2009
Benoît Mandelbrot, Gli oggetti frattali, Flammarion, 1975, Einaudi, 2000
Thomas Mann, La montagna incantata, 1924, trad. di E. Pocar, Il Corbaccio, 1992
Jean Perrin, Gli atomi, 1913, Editori Riuniti, 1981
Michel Serres, Lucrezio e l’origine della fisica, Sellerio, 1980
Michel Serres, Passaggio a Nord-Ovest, Pratiche, 1983
Paul Valéry, Eupalino o dell’architettura, 1921, Edizioni Biblioteca dell’immagine, 1986
Paul Valéry, Ispirazioni mediterranee, 1933, in La caccia magica, Guida, 1985