Leopardi “terzo-istruito” / Gaspare Polizzi. Io sono quella che fuggi
“Giacomo aveva assistito a sei anni, da bambino curioso, a un’eclissi solare e a tredici anni al passaggio di una cometa, due fenomeni celesti che ancora impaurivano i popolani di Recanati, ma non il giovane Leopardi, educato dal padre Monaldo a studi severi e in grado di leggere, nella Biblioteca di famiglia, i migliori e più aggiornati trattati di astronomia”: è il suggestivo incipit dell’ultima fatica leopardista di Gaspare Polizzi (Io sono quella che tu fuggi. Leopardi e la Natura, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma luglio 2015), dedicata al ruolo che il contatto fecondo e mai interrotto con le scienze ha avuto nella formazione, nella maturazione del pensiero filosofico e nella stessa “officina” poetica del Recanatese, che intenzionalmente riecheggia le annotazioni delle Lezioni americane di Italo Calvino, secondo il quale “la contemplazione del cielo notturno che ispirerà a Leopardi i suoi versi non era solo un motivo lirico; quando Leopardi parlava della luna sapeva esattamente di cosa parlava” (Italo Calvino, Lezioni americane, Oscar Mondadori).
Convinto che lo stesso si possa dire non solo per la luna, bensì per la Natura in generale, in questo volume che mette a sintesi i risultati di oltre un decennio di ricerche, Polizzi ripercorre la produzione scientifica giovanile di Leopardi, a cominciare da quella Storia dell’astronomia scritta a quindici anni, considerata una delle dieci più importanti dell’Ottocento, e ricostruisce le direzioni con cui i mai abbandonati interessi scientifici, anche dopo il periodo giovanile, vanno a comporre il mosaico concettuale della “filosofia naturale” leopardiana, rinvenibile nelle opere letterarie e nei pensieri zibaldoneschi, che trova il suo vertice nello “stratonismo” delle Operette morali, per fare, infine, da sfondo a quella “filosofia morale”, nella quale, secondo la tradizione di ascendenza aristotelica, si pone al centro non a caso l’indagine sulla felicità, che, come si sa, a Leopardi apparirà drammaticamente come il focus di un’aspirazione infinita, radicata nell’“amor proprio” di ogni vivente, e al contempo preclusa.
Con acribia storiografica, filologica e insieme ermeneutica, Polizzi non esamina solo gli innumerevoli scritti leopardiani, editi e inediti, e i loro rimandi, ma segnala puntualmente le fonti, le letture, le influenze, le circostanze, le frequentazioni con scienziati del tempo. E lo fa, non seguendo un criterio strettamente cronologico, ma ripercorrendo il viaggio leopardiano in un ognuno dei continenti del sapere scientifico, oggetto dell’onnivora esplorazione del poeta: astronomia, cosmologia, matematica, chimica, biologia, storia naturale, fisica, antropologia culturale.
“Giovane favoloso”, Giacomo Leopardi, favolosamente ‘ribelle’, ‘eretico’, che nel cuore di un ambiente retrivo e ultraclericale, proprio attraverso le letture scientifiche e degli illuministi, rintracciati nei testi polemici dei gesuiti, sviluppa e si lega tenacemente alla visione della natura e di un mondo tutto materiale, segnato da un’assoluta contingenza, dove “niente preesiste alle cose: né forme, o idee, né necessità né ragione di essere” (Zib., 1616), senza la paura di aprire, molto prima di Nietzsche, la porta all’ospite inquietante che quella visione porta con sé come la sua ombra: il nichilismo, il “tutto è nulla”. E Polizzi ci invita a seguire il filo rosso che lega la visione “cosmica” leopardiana, già forgiata nel periodo scientifico giovanile e poi riversata nella “poesia lunare” e in alcuni dialoghi delle Operette morali (il Copernico e il Dialogo della Terra e della Luna), all’intonazione marcatamente anti-antropocentrica del suo materialismo, che motiverà e connoterà il suo sguardo sarcastico sui risvolti ottimistici di quella “fede” scientifica o di quelle ideologie salvifiche e palingenetiche del progresso tecnico e industriale, che presumevano di supplire alla ritirata delle religioni e degli “errori popolari” e che Leopardi vedrà annunciarsi col volto di un “secol superbo e sciocco”.
Il lavoro complessivo sulla figura di Leopardi di Gaspare Polizzi si situa originalmente in quella sorta di Leopardi Renaissance che ha caratterizzato l’ultimo trentennio della filosofia italiana, con un concorso plurale di voci che hanno interrogato, con interessi e tagli prospettici diversi, i testi leopardiani: da Emanuele Severino a Massimo Cacciari, da Roberto Esposito a Massimo Donà, per citarne solo alcuni.
Profeta dell’approdo nichilistico dell’Occidente e della possibile salvezza con la poesia-ginestra, erede della festa arcaica; Leopardi che, nel punto estremo della sua visione, fonda sul ‘niente-in-comune’ il vincolo di una nuova solidarietà umana; Leopardi di fronte al “misterio grande” di una Natura insensata, che contraddittoriamente si esprime nell’uomo come volontà di senso, destinata all’inappagamento: sono solo alcune delle immagini di Leopardi che il dibattito di questi anni ci ha consegnato, alla ricerca dell’ologramma di “un pensiero in movimento”, come splendidamente lo definisce Remo Bodei proprio nella prefazione a un libro precedente di Polizzi. Quale immagine complessiva ci restituisce o sottende, invece, il lavoro di Polizzi?
Forse possiamo rinvenirla nella non casuale concomitanza dei suoi studi leopardiani con quelli rivolti, per tanti anni, all’epistemologia francese del Novecento e in particolare alla figura di Michel Serres, di cui Polizzi ha curato di recente una ricca antologia, corredata da commenti e saggi, con Mario Porro (Michel Serres, Marcos y Marcos, Milano 2015), con la quale questo filosofo francese, membro dell’Académie Française, viene finalmente “sdoganato” in Italia. Il ‘Leopardi’ di Polizzi, infatti, ha forti somiglianze con uno dei “personaggi concettuali” della pedagogia sui generis di Serres: il fanciullo che apprende per incroci, ibridazioni, mescolanze, denominato “terzo-istruito”, che poi continua a intersecare e conciliare cultura umanistica e cultura scientifica (Michel Serres, Le Tiers-Instruit, Gallimard, Paris 1992). E Leopardi appare un filosofo “terzo-istruito” come e ancor più di Kant, che nel suo cosiddetto periodo “precritico” visita tutte le scienze, a cominciare dall’astronomia. D’altra parte, come ci fa notare Polizzi, è proprio Leopardi che, nel capitolo settimo del Parini ovvero della gloria, sottolinea come filosofia e scienze si nutrano, più di quanto non si pensi, della “forza immaginativa”, oltre che della “sottilità d’ingegno”, e che, quasi a voler ascrivere lui stesso a questa linea, “il Descartes, Galileo, il Leibniz, il Newton, il Vico, in quanto all’innata disposizione dei loro ingegni, sarebbero potuti essere sommi poeti; e per lo contrario Omero, Dante, lo Shakespeare, sommi filosofi”. Seguendo la ricognizione originale e rigorosa di Polizzi, possiamo scoprire come sia proprio nell’interstizio di interessi scientifici e filologico-umanistici, che Leopardi allestisce lo scenario delle sue principali teorie filosofiche ed estetiche.
A cominciare dalla costante riserva, di sapore cusaniano, nei confronti della matematica, il cui linguaggio astratto e formalizzato non riuscirà, a suo avviso, a rappresentare una ‘natura’ che incorpora l’“appresso a poco” e il dinamismo aperto a infinite e imprevedibili possibilità, e alla quale non può che sfuggire l’inclinazione “materiale” e “infinita”, appunto incommensurabile, dell’uomo al piacere, che meglio può essere resa, per converso, da una poetica dell’indefinito e del vago. Quell’infinito che, se “nel pensier mi fingo” grazie all’immaginazione poetica, proprio perché “senza limiti”, nella prospettiva fisico-matematica, può invece solo coincidere col “nulla”, secondo Leopardi.
Sono certamente le letture chimiche compiute a tredici anni, compendiate e commentate nelle Dissertazioni filosofiche, fino ad arrivare alla lettura decisiva delle Ricerche sul moto molecolare dei solidi di Domenico Paoli del 1825, che avviano Leopardi alla riformulazione scientifico-moderna dell’idea, già riscontrata in Lucrezio, di una materia in perenne movimento di costruzione e di distruzione, costituita da una quantità di elementi che si combinano diversamente. Idea che segna, com’è noto, il passaggio dallo “scetticismo ragionato e dimostrato” degli anni 1820-’22, ruotante sulla polarizzazione ragione-natura, vero-illusioni, alla filosofia naturale “stratoniana”, in cui la natura da buona diventa “nemica scoperta degli uomini, come si dice nel celeberrimo Dialogo della Natura e di un Islandese. Ma è sempre a contatto con la nomenclatura chimica lavoisieriana che Leopardi, secondo Polizzi, concepisce la sua teoria semiologico-estetica sulla distinzione tra le “parole”, vaghe ed espressive della letteratura, e i “termini”, precisi della scienza.
Polizzi ci svela, poi, un Leopardi chiaramente animalista, che s’incuriosisce e s’inserisce nel dibattito sulla presenza dell’“anima” nelle bestie, sulle differenze tra umanità e animalità, che è affascinato nell’Elogio degli uccelli dalla “leggerezza”, non gravata dalla sofferenza dei vincoli materiali terreni, dei volatili, paragonati ai fanciulli, e che dà persino una descrizione commovente di una lucciola, “uccisa e ridotta a una striscia lucida fra la polvere” da alcuni ragazzi davanti ai suoi occhi, nell’abbozzo di un’autobiografia mai portata a termine.
Dal Giovane Favoloso, regia di Mario Martone, 2015
E se nell’ambito delle scienze fisiche si persuade dell’ormai definitività del sistema newtoniano, non vedendo la possibilità di un paradigma scientifico alternativo, tanto da affidare alla poesia e all’immaginazione quel “colpo d’occhio” in grado di cogliere gli aspetti profondi, arcani, fluidi della natura che in quel sistema restano opachi e non intercettati, è sempre lo stesso Leopardi a portare alle estreme conseguenze il suo materialismo fino ad ‘eliminare’ la coscienza, l’io, ridotti a processi cerebrali, come accade oggi in alcune tendenze della “filosofia della mente”: insomma, un Leopardi agli antipodi del dualismo cartesiano, quasi un Daniel Dennett ante litteram!
Ancora, è la lettura incrociata di resoconti etnografici su guerre, sacrifici e pratiche di antropofagia presso i “selvaggi”, del Viaggio del giovane Anacarsi in Grecia di Jean-Jacques Barthélemy e di una traduzione degli Opuscoli Morali di Plutarco che incrinano, a partire dalla fine del 1822, la fiducia di Leopardi nell’esistenza di una umanità primitiva felice, non ‘pervertita’ dalla ragione, esemplificata dalle tribù californiane elogiate nell’Inno ai Patriarchi, facendolo approdare alla considerazione sarcastica sul genere umano “sommo nella sua imperfezione, piuttosto che nella perfezione”, che si riscontra nella lucianea Scommessa di Prometeo, dove a fare da contraltare ai riti sacrificali dei primitivi sono i suicidi degli uomini “inciviliti”, divorati dalla noia, che Durkheim avrebbe definito verso la fine del secolo “egoistici”, ponendoli come indice statistico dell’infelicità moderna, proprio come Leopardi, più di mezzo secolo prima, aveva appunto già fatto nelle Operette morali, con l’acutezza antropologica del “filosofo morale” e insieme la brillantezza del letterato.
Ma anche quando, dopo il 1824, attraverso la mediazione della “filosofia chimica” e di un’“antropologia negativa”, il “verace saper” sulla natura si fa più “acerbo”, più corrosivo e conduce al cospetto di una Natura enigmatica e ostile all’uomo nella sua indifferenza, di una Natura che ci dà la vita che ci nega, che ci spinge naturalmente, ma contraddittoriamente, a desiderare l’irraggiungibile, anche allora per Leopardi la “radice vigorosissima” e vivificante delle illusioni e della speranza non si spegne. Ed è a questo punto che, soprattutto per i risvolti filosofico-pratici, si aggroviglia e diventa più intricato il nodo dei rapporti tra vita e ragione, natura e storia, ignoranza e scienza, poesia e filosofia, che, non solo dei primi anni di stesura dello Zibaldone, ma già dai tempi del giovanile Saggio sopra gli errori popolari degli antichi del 1815 (come Polizzi dimostra nel bel capitolo intitolato: Il rapporto tra antichi e moderni: una storia della scienza e della tecnica?) accompagna come un basso continuo la riflessione leopardiana e si costella di una miniera di spunti ancora attuali per l’interpretazione della modernità, che sovente mostrano sorprendenti assonanze anticipatrici con la riflessione novecentesca. Un esempio può valere per tutti: la critica alla pretesa dei rivoluzionari francesi di “geometrizzare” la vita, condotta in alcuni passi illuminanti dello Zibaldone, anticipano le recenti tematizzazioni sulla ‘biopolitica’, della quale Leopardi sembra, anche se vagamente, presagire la direzione mortifera e violenta, che prenderà piede con l’imperialismo europeo di fine Ottocento fino alla tragica pagina del totalitarismo, almeno quando denuncia, in passi poetici e zibaldoneschi che Polizzi reperisce e pone all’attenzione, il modo perverso in cui il ‘potere’ sia tentato di sfruttare la nuova potenza tecnologica e scientifica a disposizione o quando denuncia il “furore” insaziabile della colonizzazione, attuata nelle altre parti del mondo, dai popoli “civili”. Leopardi intravede, dunque, anche la rilevanza decisiva che, da un punto di vista morale e politico, avrebbero assunto le questioni della vita, della natura.
Dopotutto, anche se segnata dal dolore, tanto da suscitare il desiderio di cambiarla “volentier con la morte” (Ricordanze), o dal disincanto tutto moderno prodotto dal “vero” razionale e scientifico, che abita irreversibilmente il nostro tempo, è appunto la “vita”, con l’incoercibile impulso ad esistere che la muove, a sedurre fino alla fine il ‘giovane favoloso’, al punto da fargli esclamare: “Oh, infinita vanità del vero!” e a fargli tenere ferma una speranza oltre la linea del nichilismo.