Gianfranco Baruchello da “abaco” a “zero”

8 Agosto 2022

Da tempo coltivavo l’idea di mettere insieme una mostra pescando tra gli anfratti più polverosi di qualche museo di provincia. Rimestare e ridestare un po’ di vecchie cose, metterle insieme e vedere l’effetto che fa. Non una mostra-archivio, che è fin troppo di moda, piuttosto l’esatto contrario. Scommettere cioè sul fatto che il disordine altro non è che un diverso tipo di ordine. Avrei chiamato questa mostra L’enciclopedia del possibile, e forse la farò davvero, chissà. Ma intanto devo fare i conti con un impressionante libro: 830 pagine, 200 tavole a colori, indice quadrilingue (italiano, inglese, cinese, arabo), sicuramente oltre due chili di peso (il bilancino postale del mio dipartimento non potendo segnare oltre), una copertina griglia acciaio. Gianfranco Baruchello, Psicoenciclopedia possibile, Treccani 2022. Sottotitolo: Conoscere è confondere. Come non essere d’accordo? Nel risvolto Hans Ulrich Obrist conferma che “è il libro del ventunesimo secolo”, e se lo dice lui come non essere d’accordo, anche qui? 

La storia comincia così. L’austero Istituto della Enciclopedia Italiana, forse – io credo – per sentirsi meno in colpa di aver varato la pretenziosa, goffa e sostanzialmente inutile “Arte contemporanea” (quattro volumi, oltre 3600 lemmi in buona parte già gratis online, “prestigiosa copertina in pelle con lettere e fregi in oro”, eccetera) invitò nel 2016 Baruchello a realizzare una sua enciclopedia. Unica condizione che ci fosse un lemmario disposto in ordine alfabetico. Per il resto libertà assoluta. Baruchello ha così riunito gli appunti, le note, i ritagli, le lettere, le letture, le poesie, i diari di lavoro e i vari progetti messi insieme, a volte realizzati a volte no, in quasi cent’anni di vita (Livorno, 1924).

Ne viene fuori un’Enciclopedia da “abaco” a “zero”, proprio come quella color ruggine dell’Einaudi (1977-1984), quella che s’incontra sempre nelle case delle persone molto ricche o molto colte – io, per esempio, vorrei tanto possederla. Questa di Baruchello è qualcosa che assomiglia molto agli impeccabili e intimidatori volumi Treccani, a partire dalla gabbia tipografica e dai caratteri di stampa. È qualcosa che anche nell’odierna ristampa anastatica (la prima edizione essendo di due anni fa) visivamente assomiglia molto alle altre note imprese del glorioso Istituto romano, ma in realtà è altro.

E allora per capirne le ragioni tanto vale saltare alla voce “Psicoenciclopedia”, appunto. “Un lavoro sul sapere. Sogni, ipotesi, esercizi. Niente di inamovibile. Contro il monumento e la rigidità. Al loro posto: la passione per il sapere, il desiderio, la fragilità. Nessun patrimonio accumulato per sempre”. Insomma polvere e atmosfera anziché sapere granitici; frammenti scomposti versus presunzione di totalità; discontinuità fluida anziché ordine sistematico. 

La si può intendere come una forma di estremo romanticismo, se vogliamo. Un approdo del tutto particolare, in un certo senso inattuale, e al tempo stesso un’ironica presa di distanza rispetto alla concezione di genio individuale cui fa capo l’intero discorso. 

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Perché è vero che l’opus è composto di frammenti, sogni, speranze e illusioni, così come di memorie, materiali, immagini, in un vortice inesausto di riferimenti incrociati, rimandi bibliografici, potenziali “navigazioni” nei mari del sapere come in quelli dell’ignoto. Ma in quel grande rumore caotico ogni cosa alla fine è ricondotta all’individuo che di tutto questo è Autore e Garante, Collezionista e Archivista: di se stesso, anzitutto; e poi dei processi mentali che fanno capo a ogni sua operazione artistica come a ogni debordante avventura intellettuale. Così allora intendo il prefisso “Psico” e spero di non sbagliarmi.

In fin dei conti questa enciclopedia si può affrontare come fosse la colossale proiezione di un Ego immaginifico, espanso, irresistibilmente e sempre a suo modo creativo. Che dietro tutto questo ci sia la migliore e meglio digerita eredità del surrealismo e di Duchamp, dell’energia tutta politica del situazionismo e della corrente disordinata di fluxus è la più naturale delle conclusioni.

Basterebbe sfogliare una delle voci più estese, quella dedicata ai Titoli e che resta la mia preferita anche se, lo devo pur confessare, mica l’ho letta tutta per intero, la psicoenciclopedia. Max Ernst diceva che un quadro non è finito se non ha un titolo, e forse è per questo che lui stesso si dilungava in intitolazioni ermetiche, al limite e a volte ben oltre l’esoterico. Ecco, il lemma “Titoli” si dispone in dieci colonne con capitoli in ordine alfabetico che elencano titoli reali e dunque “possibili”. Da “A body in pawn elsewhere” fino al mirabile, misteriosissimo “Zimmer Dresden” (che in realtà è spiegato alla voce: “Dresden, Zimmer”). Un’enciclopedia nidificata dentro un’altra enciclopedia, insomma. Una matrioska di saperi, pseudo saperi o psico-saperi. Con intuizioni non di rado fulminanti e sentenze definitive. Una per tutte la trovate a pagina 358, alla voce “Videonastro” (non videoarte, fate attenzione): «Avanguardia artistica sì, ma per benestanti», e io non sarò così indelicato da togliere al lettore il piacere di scoprire perché.

Avverto che Baruchello ne sa qualcosa: un po’ tutti, e specie i più giovani tra i lettori, lo conoscono almeno per la Verifica incerta, il videocollage found footage un po’ objet trouvé un po’ stream of consciousness un po’ Porta Portese e molto antenato di Blob, messo insieme con Alberto Grifi nel lontano 1964 (sì, era il 1964 e alla prima parigina c’erano proprio loro, Duchamp e Ernst).

In fin dei conti tutto ruota intorno a quel cruciale snodo del Novecento. Bisognava smettere con quell’idea di essere «bête comme une peintre» – era proprio Duchamp a dirlo – e provare invece a estendere il raggio d’azione potenziale dell’intuizione primigenia del ready made

Ed ecco allora perché Baruchello nel 1973 decise di scappare dalla città, andando a vivere a Santa Cornelia, nella campagna tra Cassia e Flaminia. Questo è il racconto che si trova al lemma “Agricoltura”: «un pittore europeo di mezza età si reca a vivere in località di campagna non lontana dalla capitale con l’idea di rivisitare certi miti, produrre beni alimentari primari, allevare animali, praticare la terra e beninteso continuare il suo lavoro di artista in modo che ciascuna di queste esperienze sia simultanea, intercambiabile, sconfinante con l’altra. Dare a un raccolto di barbabietole o di patate la natura ipotetica del ready made, dare cioè un senso politico a una parte di Duchamp». E non so a voi, ma a me, forse perché da giovane ho fatto la Scuola Enologica e non il liceo, quest’ultima frase mi piace moltissimo.

Inteso come catalogo di possibilità e accumulo di possibili poetiche, il libro a onta della sua impressionante mole scorre e funziona nella continua transizione tra pensiero e opera, tra un «io» di inesausta curiosità e un «mondo» variegato, proteiforme, irriducibile a un’essenza. Un mondo da provare a ricomporre, non senza una certa frustrazione, nel mosaico della sua complessità più che da descrivere nella specchiata esattezza di una lingua definita. Vi si ricava il tessuto connettivo di un pluralismo estetico che con Baruchello ha sperimentato un po’ tutto e spaziato un po’ ovunque. Anche nella pittura – tra gli italiani c’era anche lui, insieme a Baj, Festa, Rotella e Schifano alla seminale New Realists della Sidney Janis Gallery, nel 1962.

Il cospicuo apparato illustrativo conferma l’attitudine anarchica, di caotico accumulo orizzontale. Sono tutte foto “altre” e di altri, tolte dai giornali, dalle riviste, dai libri e dalla strada. Confidano nel potenziale di significazione combinatoria e nell’abbacinante gioco dei rinvii incrociati, quasi fosse l’unico atlante possibile del dopo Warburg. 

A suo modo stratigrafia ironica di un secolo difficile, geologia e archeologia dei media creativi e dei loro possibili linguaggi, ma anche consapevole esercizio di disperazione semantica, la psicoenciclopedia di Baruchello non rinuncia al suo mandato didattico e alla vocazione pedagogica. Chiudo pertanto con il lemma “Esercizi”, tolto anche qui da varie cose baruchelliane edite in passato. Gli esercizi spirituali di Loyola qui s’intrecciano e si confondono con gli Esercizi di stile di Queneau ma anche con le note dell’onnipresente Duchamp e, vorrei aggiungere, del misticismo di Johannes Itten. È qualcosa che tiene al tempo stesso del normativo e del rituale, della respirazione zen e della pragmatica dei Bauhausbucher. Si configura, mi pare, come il programma di eccellenza di un’accademia che naturalmente sarebbe lampante contraddizione voler istituire. Infatti non esiste, perché qui in fondo è ben pensata e agita.

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