Gianni Berengo Gardin: mostri a Venezia
Mostri
I mostri di Gianni Berengo Gardin sono enormi. Colmano l’obiettivo del fotografo, fuggono dai margini dell’immagine fotografica e si incagliano nei nostri sguardi. Non solo assalgono Venezia con la loro mole, ma ne minano la bellezza accentuandone la fragile vulnerabilità. Cosa sono? Enormi navi da crociera, cariche di turisti che solcano le acque della laguna, palazzi galleggianti, alti una volta e mezzo Palazzo Ducale e lunghi due volte Piazza San Marco, che transitano nel Canale della Giudecca.
Il fotografo documenta il loro transito per due anni, dal 2012 al 2014. “Il loro passaggio nel cuore di Venezia non rappresenta solamente uno sfregio alla bellezza”, afferma Berengo Gardin, ma anche “un grave pericolo per uomini ed edifici, una irrimediabile aggressione al suo già fragile equilibrio ambientale”. E ancora: “il sacrificio è stato svegliarsi alle cinque del mattino per diverse settimane”, “volevo fotografare i mostri mentre arrivano, mentre fanno la posta alla loro preda”.
Una scelta di metodo e un modo di investire il tempo della ricerca che rivela “l’intenso lavoro in seno alle cose”, direbbe Walter Benjamin, una rigorosa adesione allo spirito dei luoghi, il cui risultato è stato una selezione di ventisette immagini – sulle trecento scattate dal fotografo – ora esposte negli spazi al piano terra di Villa Necchi Campiglio, bene del FAI nel cuore di Milano, che si possono vedere sino al 28 di settembre.
L’effetto è strano: una sorta di cortocircuito visivo del tutto incongruo. È stato il fotografo a scegliere la collocazione delle immagini, racconta la volontaria del Fai Daniela Bertani durante la visita a villa Necchi, nessuna di esse è posizionata a caso: ai piedi dell’Amante morta di Arturo Martini, vicino all’Oreste ed Elettra di De Chirico o appoggiata alla statua del Puro folle di Adolfo Wildt.
In cosa si sono trasformate queste opere d’arte appartenute alla collezione di Claudia Gian Ferrari? Nella metafora dello sguardo di Venezia su se stessa e sulla violenza che subisce? Nello sguardo di ciascun visitatore? Oppure nella silenziosa richiesta che il fotografo rivolge al nostro sguardo: pietas ed empatia?
La risposta si può intuire nelle parole di Berengo Gardin. Le immagini devono essere considerare un lavoro di denuncia, spiega in un’intervista, “ho fatto spesso reportage sociali, ma come questo forse soltanto uno, Morire di classe, nel 1968, con Carla Cerati”, su ispirazione di Franco Basaglia, per documentare, come dice il sottotitolo, la condizione manicomiale. “È chiaro” prosegue, “che queste immagini sono molto meno drammatiche, qui la vittima non è una persona ma la bellezza”. E le navi i mostri.
Eppure a questi colossi del mare è consentito di attraversare impunemente il Canale della Giudecca. Perché? Per permettere ai passeggeri di scattarsi un selfie con lo sfondo di Piazza S. Marco dall’alto di enormi “movide galleggianti” come le chiama Lorenza Pieri nel suo reportage dedicato alla Costa Concordia? O per imparare che ci sono “intensità di blu anche oltre il blu più limpido che si possa immaginare”, come scrive ironicamente David Foster Wallace nella narrazione della sua esperienza vissuta su una nave da crociera?
A questo delirio di onnipotenza – visiva e non solo – fondata sull’eccesso, sull’enfasi sproporzionata, sull’idea di un’euforia sovraccarica di sogni artificiali, Berengo Gardin oppone il rigore del suo sguardo, del suo lavoro e della sua esperienza.
Adolfo Wildt, Il puro folle, a Villa Necchi Campiglio e di fronte una delle immagini fotografiche di Gianni Berengo Gardin
L’occhio come mestiere
Se scrive George Didi-Huberman, che “il lavoro fantasmatico di un’immagine non si risolve in un punto isolato, ma, come dice Warburg, nella “dinamografia” della totalità della sostanza immaginante”, Venezia è quell’immagine che sopravvive e appare spesso nella vicenda umana e professionale di Gianni Berengo Gardin.
Non solo il padre del fotografo è veneziano, ma il ritorno della famiglia nella città lagunare coincide con un altro evento, fondamentale per la sua formazione. Vicino al negozio di vetri di Murano e di orologi della famiglia paterna, in cui il fotografo avrebbe lavorato a partire dal 1956, ha sede “La Gondola”, un gruppo di fotoamatori veneti fondato intorno al 1948, nel clima ricco di fermenti e iniziative del dopo liberazione, ricorda Wladimiro Settimelli nella sua appendice sulla fotografia in Italia, pubblicata nel volume di Jean-A Keim.
C’è anche lo zampino dello zio d’America, ricorda Silvana Turzio nel suo saggio dedicato al fotografo, che in realtà era il cognato del fratellastro più grande. Si chiamava Fritz Redl ed era amico di Cornell Capa, fratello di Robert Capa, che gli fa avere quattro pellicole con una sensibilità alla luce di 400 ASA, molto alta rispetto alle pellicole allora in commercio in Italia che arrivavano al massimo a 100 ASA. Grazie ad esse Berengo Gardin riesce a scattare delle fotografie di Venezia con pochissima luce fra cui l’immagine notturna di un vaporetto.
Ma è con i membri della “Gondola” - Paolo Monti, Gino Bolognini, Toni del Tin, Bepi Bruno e Fulvio Roiter - e negli spazi della città, che Gianni Berengo Gardin inizia il suo lungo percorso professionale, scandito dalla realizzazione di più di duecentocinquanta libri fotografici in cui ha raccontato molte città: Venezia, Milano, Berlino, Mosca, gli ospedali psichiatrici, ha fotografato il lavoro di Renzo Piano, pubblicato reportage come Dentro le case, India dei villaggi, L’Aquila prima e dopo, La disperata allegria, Vivere da zingari a Firenze, esplorato il Regno Unito e l’Europa del Nord.
Non è un caso che Venise des saisons del 1965 - a cui seguiranno altri libri dedicati alla città fra cui il singolare Peggy Guggenheim, la casa, gli amici, Venezia del 2009 - apra il monumentale Libro dei libri edito da Contrasto, in cui sono raccolte le pubblicazioni del fotografo.
E’ un volume importante nella storia di Berengo Gardin, “senz’altro il fotolibro di maggiore violenza emotiva e di più precisa indagine “interiore” che sia stato dedicato alla città”, scrive Cesare Colombo, tant’è vero che sarà ripreso e aggiornato dal fotografo in tre diverse edizioni e con editori diversi: nel 1981 con un testo di Giorgio Soavi, nel 1994 con un commento di Josif Brodskij e, infine, nel 2004 arricchito di alcune fotografie inedite.
I testi nell’edizione del 1965 sono di Giorgio Bassani e Mario Soldati e le parole di quest’ultimo, leggere come le atmosfere evocate, lette oggi, non possono che costituire una feroce didascalia, in contrappunto al peso dei mostri veneziani immortalati dal fotografo a quasi cinquant’anni di distanza: “Ogni cosa era come prevista e sognata. Ecco il Campo Morosin, ecco il Ponte dello Speziale, ecco la Calle Larga. Piove. Le luci dei fanali, e rare insegne di negozi rimaste accese, si riflettono sulle lastre. Non c’è anima viva. Laggiù la facciata di S. Moisè appare, attraverso la sottile pioggia, come attraverso un fumo. Istintivamente, ritrovo la strada: svolto a sinistra, poi a destra, poi un ponte, poi ancora a destra, e giungo alla trattoria. Entro. Come speravo, non c’è nessuno: soltanto due svizzeri in viaggio di nozze che proprio non danno fastidio”.
Un’altra Venezia.
Gianni Berengo Gardin, LA MSC Divina, vista dal Canal Grande, mentre entra in Bacino San Marco dal canale della Giudecca. Sulla destra la Punta della Dogana, Venezia, agosto 2013. © Gianni Berengo Gardin-Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia
Venezia che muore, Venezia appoggiata sul mare…
Le immagini non lasciano dubbi: enormi navi da crociera solcano strette vie d’acqua e passano a pochi metri dai margini della città lagunare. Si offrono allo sguardo di turisti e passanti nelle loro versioni più spettacolari e iperboliche, come in una performance mondana. Instillano meraviglia nello spettatore attraverso la fantasticheria di un consumo imponente, vistoso, sorprendente. Innaturale, mostruoso.
Eppure verrebbe da dire che in questi mostri metallici non c’è alcuna traccia di “sex appeal dell’inorganico”. La loro presenza ingombrante fra Le pietre di Venezia come direbbe John Ruskin, appare come una “svirgola” paradossale nel contesto di una fragilità e di una bellezza millenari.
Di fronte a tutto questo, Berengo Gardin prende una posizione precisa: dice no. L’esito è un reportage duro e rigoroso. Questa volta non si tratta di un libro fotografico – non ancora – ma di un racconto nello spazio. Lo spettatore si muove nelle stanze di Villa Necchi come se percorresse gli spazi della città. L’accostamento è inevitabile. Le fotografie sono squarci, appaiono oscene, inconciliabili con l’ambiente che le circonda. Sembrano quasi irreali. E Berengo Gardin lo dice: “sono immagini fuori scala”, “forti, un po’ assurde, che sembrano artificiali, modificate con Photoshop. E invece sono pura e semplice realtà”.
Il fotografo le ha scattate in diversi momenti: mentre le navi entrano nel Bacino di San Marco dal canale della Giudecca o passano tra l'Isola di San Giorgio e la Punta della Dogana e ancora mentre scorrono davanti alla Riva dei Sette Martiri. Metallo, pietra, acqua: ogni elemento riceve la luce e la rinvia all’obiettivo con differente tonalità. Lentamente chi guarda inizia a capire.
La Celebrity Silhouette allo sbocco del canale della Giudecca nel Bacino di San Marco tra l'Isola di San Giorgio e la Punta della Dogana, Venezia, aprile 2013 © Gianni Berengo Gardin-Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia
L’effetto è di avere dinnanzi agli occhi ciò che accade realmente senza trucchi o deformazioni. Lo sguardo dello spettatore si sovrappone allo sguardo del fotografo e alla sua visione del mondo, un’aderenza ai dati di fatto senza abbellimenti, in linea come scrive Silvana Turzio, con il “rifiuto dell’immagine troppo irridente o troppo violenta” e con le modalità di uno sguardo che “si costruisce nel juste milieu”.
E in questo caso il “juste milieu” è il rifiuto dell’eccesso ottenuto proprio attraverso la sua messa in immagine. “In alcuni casi ho usato un teleobbiettivo, ma molto moderato, un 80 millimetri”, rivela il fotografo in un’intervista, in altri un normale 50. Non c’è affatto bisogno di forzare l’immagine, chiunque passeggi per Venezia avrà coi suoi occhi le stesse impressioni di queste immagini”.
Le fotografie divengono così l’interfaccia di tutte le contraddizioni: antico-moderno, pietra-metallo, spettacolo-caduta. Nello spazio che intercorre fra i termini di questi ossimori visivi, raffigurati con essenziale semplicità nelle immagini delle navi che attraversano la città, lo spettatore sposta se stesso e il suo sguardo dalla parte di Venezia, viene a conoscenza del problema, si pone delle domande.
Tuttavia non si tratta solo di spostare il punto di vista, ma come fanno queste fotografie, di suggerire la motricità che lo spostamento in quanto processo implica: “non solo la visione spostata” come direbbe Didi-Huberman, ma “la visione in spostamento”, quasi come se lo spettatore camminasse insieme al fotografo nello spazio della città, che genera anche una sorta di spostamento temporale: pare che le fotografie vogliano suggerire ciò che accadrà nel futuro.
E insieme scongiurarlo, come si intuisce in una delle immagini più sorprendenti della mostra in cui si vede una nave vista da via Garibaldi, mentre passa davanti alla Riva dei Sette Martiri, dopo aver lasciato il bacino San Marco.
Una grande nave, vista da via Garibaldi, mentre passa davanti alla Riva dei Sette Martiri, dopo aver lasciato il bacino San Marco, Venezia, aprile 2013 © Gianni Berengo Gardin-Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia
Da ciascun elemento trasuda la sensazione di una tragica attesa: l’immensa prua minacciosa punta dritta verso la città, i passanti e i turisti sono immobili e rivolti verso il suo profilo che si avvicina inarrestabile, come se fosse l’ultima visione impressa nelle pupille. Il potere veggente dell’immagine fotografica è evidente: nell’istante successivo, il diaframma catturerà la luce di un’immagine sinistra. Venezia sarà colpita dalla mole della nave.
Vi è un altro elemento che accomuna alcune di queste immagini: il cielo. L’uso del bianco e nero ne accentua i contorni rendendo le nuvole cariche di presagi. “Il colore distrae” dice Berengo Gardin, “un cielo azzurro brillante sistema molte cose. (…) Il bianco e nero dà quello scarto rispetto alla visione naturale che ti costringe a guardare meglio”.
E a guardare meglio si percepisce che anche il cielo è sintomo di un’attesa. Sembra “carico di destino”, quasi apocalittico, nel senso che la fotografia, come direbbe Giorgio Agamben, rappresenta il mondo come appare nel giorno del Giudizio.
È questa “natura escatologica” che il bravo fotografo sa cogliere, scrive il filosofo, senza togliere nulla “alla storicità e alla singolarità dell’evento fotografato”. Grazie al potere speciale del gesto, dell’oggetto, dell’evento, continua “quest’indice rimanda ora a un altro tempo, più attuale e più urgente di qualsiasi tempo cronologico”. Verrebbe da dire al tempo della salvezza. E in questo caso di quella della città amata dal fotografo.
Così le immagini di Berengo Gardin diventano un invito a oltrepassare la soglia dell’istante fotografico per intercettare direttamente la vita ed evitare che la ricchezza di Venezia sfumi prima o poi nel ricordo.