Giusi Marchetta: "Chi abita in questo castello?"
Quando nel 1979 Angela Carter scrisse La camera di sangue, un’antologia di racconti che rielaborava materiale narrativo presente nelle fiabe tradizionali, si diede il compito di «estrarre il contenuto latente dai racconti della tradizione». Nei suoi testi modellava personaggi femminili spogliati di un certo abito principesco per inserire elementi che restituissero agency alle sue protagoniste. Agency, quindi, cioè la capacità di fare, il potere di parlare per sé: le donne di Carter ragionano in prima persona, conoscono la potenza dei propri corpi, sono coscienti dello spazio che occupano. La sua riscrittura era un processo narrativo nuovo, interessante, tutto postmoderno, densamente politico: era un esperimento strettamente legato al periodo in cui veniva ideato, gli anni settanta del novecento, e diceva della necessità di rinegoziare certi accordi di potere che relegavano le donne al margine. Parlare di fiabe, si intrecciava, quindi, con un nuovo femminismo.
La riflessione sulle principesse e sul modello che incarnano compare già con Elena Gianini Belotti nel 1973, in Dalla parte delle bambine (Feltrinelli): l’autrice riportava una breve storiella per l’infanzia comparsa negli Stati Uniti in cui la mamma di una bambina di nome Mary le prometteva che avrebbe avuto un giovanotto in premio, se solo avesse imparato a fischiare. Poi annotava: «Tra Mary che si rifiuta di fischiare e le varie Belle Addormentate, Biancaneve, Cenerentola e così via non c’è molta differenza. Cambiano i modi, ma le figure femminili sono sempre passive e inette, senza scopi e senza ideali, tranne quello di catturarsi un uomo che le faccia felici per tutta la vita.»
Nei fatti, in fondo, nelle storie che conosciamo la principessa è spesso solo una piatta funzione narrativa. Lo mette bene in chiaro Giusi Marchetta in apertura del suo saggio Principesse. Eroine del passato, femministe di oggi (ADD editore, 2023) quando traccia l’identikit dei personaggi femminili che si propone di chiamare in causa: un carosello ricchissimo che abbraccia vicende diverse e distanti nel tempo – dalla prima Biancaneve prodotta da Disney nel 1937 che salvò le casse dell’azienda e la consacrò come unica grande «fabbrica di sogni» a Xena, principessa guerriera degli anni Novanta. Marchetta convoca e esamina tutte le figure che hanno costituito il panorama in cui ci siamo ambientate: sono un patrimonio comune e condiviso, sebbene ogni epoca abbia la sua principessa. Le più recenti sono le più pop: Elsa e Merida, che pur nella loro diversità rispetto alle antenate («Merida si comporta «come un maschiaccio» ed è l’unica principessa a non prevedere un principe e a non concludere la sua storia con un matrimonio») non riescono a divincolarsi dalle logiche patriarcali che silenziosamente continuano a governarle; Nilde, una delle voci bambine che Marchetta raccoglie lungo il percorso, sintetizza così: «Non corrono, non combattono, non fanno mai niente» dice. «A parte Merida» le faccio eco. «Sì ma poco» dice.
Belle e piacenti, anche mentre imbracciano l'arco e scoccano frecce, appetibili, i loro corpi passivi, da guardare, anche nei rari casi in cui sono capaci di potenzialità del fare.
La scintilla che spinge Marchetta ad indagare la questione è l’incontro con Camilla, figlia di un’amica, Letizia, che viene colta mentre è intenta a disegnare principesse, e confessa di voler diventare una di loro. La mamma è turbata ma dissimula, «Non è mica una tragedia. Solo che pensavo che le avessimo uccise», commenta. Eppure no, era apparenza, ci avevano provato, ma nel tempo l’unico effetto delle loro lotte è stato sfumarne i contorni. Dunque: mettersi in cammino, ascoltare voci, inventare una storia nuova per Camilla, che sia diversa in modo definitivo, per salvarla «da questo drago che la vuole magra e bella». È un’impresa non da poco, perché comporta la messa in discussione di principi inveterati che intrecciano capitalismo e patriarcato.
Le principesse radunate sono tutte belle e quindi amabili, silenziose, devote, «il punto debole della principessa, la sua mancanza di scelta, è in realtà il punto di forza dell'archetipo: in un sistema in cui la bellezza guadagna l’amore e quindi la felicità, allontanarsi dal modello significa rischiare di sentirsi incomplete e infelici.» Belle e dotate di un «pacchetto di qualità» che permette loro di essere accettate – e il pacchetto risponde a «regole, prodotti, convinzioni» che ha un prezzo altissimo per tutte. Questa «l’acqua in cui nuotiamo» da sempre, finché come i pesci in quel racconto di David Foster Wallace ci chiediamo che cosa sia, l’acqua, e tutto trema, la tempesta comincia.
Nella galleria di principesse più o meno emancipate – e di modi in cui Marchetta credeva fossero state uccise per sempre, e invece no – mi sembra interessante il posto che occupa Buffy l’ammazzavampiri, che esordisce nel 1997 su Italia 1, una serie che dice dell’amore fra la Cacciatrice e il vampiro convertito al bene. Una delle scene che Marchetta ricorda come più significative è quella in cui Buffy pronuncia questo discorso: «D’ora in poi, ogni ragazza del mondo che potrebbe essere una Cacciatrice, sarà una Cacciatrice. Ogni ragazza che potrebbe avere il potere, avrà il potere. Potrà alzarsi in piedi, si alzerà in piedi.» Le parole di Buffy sono fortemente influenzate dall’ondata di empowerment femminista proveniente dagli Stati Uniti. La filosofia su cui poggia il concetto è interessante e merita una riflessione approfondita: per empowerment si intende «il femminismo che vuole restituire alle donne potere su sé stesse e nella loro relazione con il mondo». In linea teorica, l’idea sembra funzionare: pensare le persone – le principesse, le donne, le Camilla – in relazione al contesto in cui sono inserite significa valutare le interazioni fra il soggetto e la società a cui risponde, e viceversa anche il modo in cui la società governa la vita del soggetto. Ma c’è di più: la teoria dell’autodeterminazione, nata come propaggine dell’idea di empowerment, sottolinea l'elemento comunitario del nuovo «potere» (nel senso più etimologico del termine) proponendo il benessere individuale come soddisfazione di tre bisogni di base fra cui c’era anche il «bisogno di relazione». Un potere nuovo, quindi, collettivo, diverso da quello tradizionale maschile, che permetta a chi parla dal margine di rivendicare con fierezza la propria voce.
Eppure la teoria non si dimostra efficace, e le principesse non muoiono, né si trasformano: negli anni dell'individualismo sfrenato, arrivare al potere significa «ottenere quel lavoro, diventare il capo, consolidare quel potere per sé e immaginarsi un modello per le altre.» Opprimere, ancora. Per citare bell hooks: «La sorellanza femminista si radica nell’impegno condiviso a lottare contro l’ingiustizia patriarcale, non importa quale forma essa assuma. […] Finché le donne useranno il potere di classe o di razza per dominare altre donne, la sorellanza femminista non potrà essere pienamente realizzata» e ancora: «Allorché le donne, soprattutto le bianche privilegiate in precedenza prive di diritti, hanno cominciato ad acquisire potere di classe senza spogliarsi del loro sessismo interiorizzato, le divisioni tra donne si sono intensificate.»
Una donna di potere può essere esempio di sorellanza se replica le logiche del patriarcato? La risposta è ovviamente negativa: non c’è femminismo senza rotture, senza progresso, «la soluzione quindi non può essere in una o più cacciatrici che lottano per difendere il mondo così com’è», sottolinea Marchetta, e con bell hooks parla di femminismo intersezionale, per «la demolizione del patriarcato bianco eteronormativo e capitalista: non una passeggiata, ma varrebbe la pena perché ci renderebbe più felici, più umani e perché finalmente darebbe il colpo di grazia al modello unico di principessa standard». Una soluzione politicamente radicale, potente, impeccabile, l’epilogo auspicabile per i pesci che scoprono cos’è l’acqua, che ci hanno sempre nuotato e che è avvelenata. L’impresa è tremenda, ma la sorellanza può e deve essere ancora potente.
Un altro dei temi più luminosi di questo bel saggio si annoda alla questione dell’educazione. Nel suo viaggio fra principesse, pregevole perché ricco di interlocutrici preziose, Marchetta incontra Annalisa Falcone, pedagogista. La sua proposta, frutto di anni di lavoro e dialogo con bambini e bambine, è mediata ma altrettanto radicale: di fronte alla storia univoca e priva di sfumature che ci siamo raccontati e raccontate per anni, la soluzione non è uccidere la principessa, ma cambiarla, e quindi forse uccidere quelle che abbiamo conosciuto finora per mostrare che ne possono esistere delle altre. L’esercizio è quello di svelare ai bambini e alle bambine che «il mondo è fatto di diversità, non di identità e che non c’è una sola identità cui aspirare. Questo vale anche per le attrici, le modelle, le principesse: possono essere diverse tra loro e questo non le rende meno principesse, meno interessanti.» Nella sua esperienza, questa pratica di dialogo e di confronto ha portato a rigogliose fioriture.
Al termine di questa lunga ricognizione di personalità, Marchetta convoca Xena, principessa guerriera, protagonista di una serie andata in onda vent’anni fa e ambientata nella Grecia antica, quella del cavallo di Troia. Una serie popolata di donne la cui protagonista agisce sapientemente con le altre e per le altre, «senza mai diventare il principe delle fiabe: Xena infatti le aiuta ma al tempo stesso le ispira, le incoraggia a vivere per sé, a non far dipendere la propria felicità da nessuno che decida al posto loro.» Ed è la prima principessa della storia a desiderare un’altra principessa, Gabrielle. Sebbene la loro non sia una relazione paragonabile ad una qualsiasi altra relazione eterosessuale presente nella sceneggiatura, le crepe nella sagoma dello stereotipo fanno di Xena uno dei personaggi più rivoluzionari visti sul piccolo schermo, fino ad allora. Per la prima volta, due principesse occupano la stessa posizione, e forse proprio perché nessuna logica di genere le intrappola nelle dinamiche della prevaricazione. Di certo non si tratta di un prodotto definitivamente maturo, né equiparabile a certe scritture dell’oggi, ma ha tracciato un solco per questo suo modo di gestire la storia, svolgendo «un ruolo fondamentale non solo per il pubblico queer ma anche per chi sullo schermo vedeva una vera alternativa alla principessa. Finalmente.» È forse Xena la prima di questo elenco a far tirare un sospiro di sollievo all’autrice, la prima principessa che «non farebbe male a Camilla, a Nina, a Nilde, a tutte le altre bambine di oggi perché la storia che racconta le comprende e le vede tutte.»
Questo quindi l’approdo: considerare il caleidoscopio dei possibili, narrare vie nuove, come teorizzava Carter. «Un contatto con il mondo degli altri è possibile solo se siamo esposti a una varietà di storie e di punti vista che ce lo mostrino in tutte le sue sfumature.» Il punto diventa così «dare un senso a quello che ci circonda e collocarci nella società senza gerarchie e senza (far) sentire il peso di un’unica storia che ignora le altre storie, ne considera sbagliati i personaggi o che, semplicemente, non li racconta davvero.»
Qualche settimana fa, mentre leggevo questo libro, mi è capitato di passare del tempo con L., una bambina di sei anni che assomiglia molto a Camilla. Per una fortuita coincidenza, L. ha voluto disegnare insieme a me un castello – io in realtà ne ho solo colorato alcune parti, perché lei era molto sicura nel rivendicare il suo ruolo autoriale. A opera ultimata le ho chiesto chi lo abitasse; mi ha risposto «non te lo dico» e poi «nessuno». Un castello vuoto, dunque, che però si è materializzato sulla carta perché è nel nostro immaginario comune – mio e suo, nonostante i quattordici anni di differenza – come simbolo di una narrazione fiabesca che conosciamo molto bene: ce l’hanno tramandata, è nelle storie che nessuno ha rinunciato a leggerci. Un castello vuoto e pieno di storie che da qualche parte esistono ma che ora non ci sono: L. mi ha detto proprio questo.
Mi sembra un aneddoto significativo perché tocca proprio il nodo dell’uccisione della principessa che ho conosciuto io (e Marchetta prima di me), perché dice della necessità di liberare la stanza e lasciare che si riempia di nuove storie – le possibilità sono infinite – e di nuove voci.
Se mi prendi la voce che cosa mi resta? Si chiedeva la Sirenetta di Andersen, tracciando implicitamente una strada di riscatto che passa per la parola, per la necessità di una riscrittura. «Se la Sirenetta potesse raccontare la sua storia come finirebbe?», domanda Marchetta in chiusura del suo saggio; se fossimo educate a questo – a conquistare uno spazio, a fare della nostra unicità un punto di forza, come cambierebbe l’orizzonte? Sarebbe forse finalmente plurale e accogliente. E vero, perché radicato nelle voci di ognuna.
È negli occhi curiosi di L. e di Camilla che dobbiamo sperare. Per quegli occhi, per le loro mani tessitrici di disegni e storie abbiamo il dovere di costruire un altro immaginario, insieme. Che le voglia libere, assolute, fieramente diverse. Questa è la sfida: pensare «un nuovo tipo di bambino, nuovi rapporti con lui e il nuovo posto che egli potrà occupare nella società» (lo scriveva Gianini Belotti: era il 1973, lo sottolineiamo ancora).