Gli animali selvatici di Cristian Mungiu

13 Luglio 2023

In un’intervista del 1979, Italo Calvino usa parole molto crude per esprimere lo smarrimento verso la perdita di mordente del linguaggio e della comunicazione pubblica, fondamento dello stare insieme di una società e delle possibilità di comprensione reciproca:

Io in fondo odio la parola per questa genericità, per questo approssimativo. Adesso sento che le parlo e che dico cose generiche e ho un senso di ribrezzo per me stesso. La parola è questa cosa molle, informe, che esce dalla bocca e che mi fa uno schifo infinito. Cercare di far diventare nella scrittura questa parola, che è sempre un po' schifosa, qualcosa di esatto e di preciso, può essere lo scopo di una vita. Soprattutto quando si vede un deterioramento, quando si vive in una società in cui la parola è sempre più generica, povera. Di fronte a un linguaggio che va o verso la sciatteria o verso l'astrazione, ai vari linguaggi intellettuali che sono sempre appiccicati, lo sforzo verso qualcosa d'irraggiungibile, verso un linguaggio preciso, basta a giustificare una vita.

È da questo smarrimento – e dalla speculare ricerca di precisione analitica ed espressiva – che credo bisogna partire per parlare di Animali selvatici, l’ultimo film del pluripremiato regista romeno Cristian Mungiu. Un film che affonda la lama nei mali che attanagliano la società europea – razzismo e rifiuto del diverso, populismo e crisi della democrazia, impoverimento e crescita delle disuguaglianze – mettendo al centro l’incomunicabilità di fondo delle nostre società. E lo fa con estremo rigore, mostrando come le basi per un discorso pubblico razionale sembrano ormai compromesse, logorate da paure xenofobe, ricerca di capri espiatori, vuoti tecnicismi neoliberali e dalle mille ipocrisie dello stesso campo “progressista”.  

La storia è all’apparenza semplice. Il protagonista del film è Matthias (Marin Grigore), un antieroe di poche parole che pensa poco prima di agire, e che si muove sullo schermo con un senso di estraniamento e inadeguatezza. Ma nello scorrere dei minuti è l’intero immaginario villaggio della Transilvania, dove si svolge il film, a prendersi la scena. Un crocevia di diverse comunità – romeni, ungheresi, tedeschi e rom, quest’ultimi ormai quasi assenti per la generale ostilità nei loro confronti – stretto tra montagne deturpate da miniere, boschi di faggi abitati da orsi e altri selvatici e una mancanza cronica di lavoro, mitigata solo dalla presenza di un panificio industriale che cerca di accedere ad appetibili finanziamenti europei. 

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All’inizio del film troviamo Matthias in fuga dalla Germania, licenziato da un macello in cui lavora per aver reagito violentemente ad un caporeparto razzista. Ritorna così tra le strade fangose del villaggio d’origine, dove ha lasciato storie interrotte che fa fatica a comprendere e rimettere insieme. La giovane moglie Ana, con la quale i rapporti sono ormai ai minimi termini e che lo accoglie di malavoglia in casa. Il figlio Rudi, che soffre di un ritardo di parola che Matthias vorrebbe goffamente scuotere via con la sua sola presenza. Otto, suo padre, un anziano contadino che soffre di inspiegabili amnesie. E poi c’è Csilla – interpretata da una bravissima Judith State – l’ex-amante di Matthias, donna indipendente e coraggiosa, con cui si riannoda un rapporto. 

Sarà proprio Csilla a mettere in moto la scelta che porterà all’implosione dell’apparente equilibrio del paese. È infatti l’arrivo di tre innocui lavoratori immigrati dallo Sri Lanka, assunti da Csilla nel panificio che dirige, a fungere da particella intorno a cui si aggregano interessi, paure, energie distruttive che covavano nella e nelle comunità, in un crescendo di tensioni che si autoalimentano scatenandosi, infine, nel rigetto dei nuovi arrivati. 

Questa aggressiva eccitabilità collettiva verso il diverso non viene messa in scena da Mungiu in maniera enfatica, calcando la mano: ci sono certamente episodi violenti che scoppiano all’improvviso, ma quello che sembra interessare maggiormente al regista è l’”effetto palla di neve” che le argomentazioni razziste e di intolleranza riescono a mettere in moto. Magistrale in questo senso la scena dell’assemblea pubblica in Municipio, organizzata dal sindaco della cittadina per affrontare insieme la questione della presenza dei tre poveri lavoratori stranieri. 

Mungiu riesce qui, in 17 minuti coraggiosamente a camera fissa, a rappresentare in maniera davvero esemplare la crisi della democrazia per mano di una discussione apparentemente democratica. Una discussione che impasta insieme, senza che scattino antidoti collettivamente riconosciuti, paure primordiali (“non comprate più quel pane, è stato toccato da quelli, con le loro malattie…”), accuse alla UE e ai suoi valori universalistici e minacciosi (“vogliono imporci altri valori, impedirci di chiamare i genitori mamma e papà” ), ragionamenti tossici che l’estrema destra, e non solo lei purtroppo, ha instillato nel sistema circolatorio di molti paesi (“iniziano con due o tre e poi ci invadono, guardate cosa è avvenuto in Francia”). E anche le posizioni progressiste sono afone e ipocrite, o perché dipingono soluzioni che non possono essere indossate qui e ora o perché si nascondono dietro il dito del linguaggio tecnico e specialistico.

Che la Romania sia a sua volta un paese di emigranti, che quella rappresentata sia una società locale multietnica che ospita da secoli comunità diverse, tutto ciò non riesce a rendere immuni da questi mali, come sappiamo bene anche in Italia con la sua lunga storia migratoria, e rende solo più sconfortante constatarlo.

Animali selvatici è in questo senso un ottimo film politico sull’Europa contemporanea, lucido e estremamente rigoroso, ma la capacità di Mungiu – già dimostrata in 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, Palma d’Oro nel 2007, e nel notevole Un padre, una figlia, premio alla regia sempre a Cannes nel 2016 – è di non schiacciare mai i suoi film su un unico registro. Se la messa in scena è improntata al realismo, non mancano aperture continue ad una dimensione allegorica, che nel finale prende il sopravvento lasciando un'aura di mistero nello spettatore. 

Allegoria, mistero, ricerca di una sostanza narrativa oltre alla scorza dura della realtà e alla molliccia natura delle parole. Ricerca che Mungiu porta avanti in due direzioni. Da una parte, verso la Natura: il bosco e ciò che nasconde di oscuro, belve reali e immaginarie, filtrate attraverso le paure del piccolo Rudi e la realtà violenta dei grandi. Dall’altra, verso le profonde aporie e contraddizioni della nostra mente. Non è un caso che il titolo originale del film è R.M.N., chiaro gioco di parole con Romania ma prima di tutto acronimo di Risonanza Nucleare Magnetica, l’esame a cui Matthias sottopone suo padre. E le radiografie del cranio di Otto, che continuano a scorrere sullo schermo del telefono del figlio e per suo tramite davanti ai nostri occhi, indicano che qualcosa non funziona più all’interno di quel cervello, come pure nel nostro cervello sociale e collettivo. 

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