Gli Appennini al tempo di Google / Il bel paese ch’Appennin parte e ’l mar circonda e l’Alpe

18 Settembre 2017

Gli Appennini costituiscono non solo la colonna vertebrale del nostro paese, ma anche uno degli ambienti più importanti dal punto di vista geografico, territoriale e paesaggistico. Sono anche l'Italia più negletta e dimenticata, seppur molta parte dell'identità italiana deriva dai borghi e dai paesi lì arroccati, o alle sue falde. Abbiamo pensato di dedicare uno speciale agli Appennini nella loro estensione dal Nord al Sud, cercando di capire cosa sono e cosa potrebbero essere nel prossimo futuro. Un'indagine e una riflessione, che ci auguriamo possa aiutare dopo i terremoti degli ultimi decenni a riscoprire questo terriotrio montuoso così importante per tutti noi. La serie sarà coordinata da Maurizio Sentieri e riprende parte del lavoro di scandaglio e narrazione realizzato in occasione dello speciale precedente Paesi e città.

 

Le parole del Petrarca restituiscono tutta l’essenza dell’Italia nel XIV secolo: quello il “bel paese”.

Un’immagine che può sembrare vera ancora oggi, nei giorni di Google. Basta digitare “Italia geografia” sul motore di ricerca, e moltissime immagini evidenzieranno in un insieme unico Mar Mediterraneo, Alpi, Appennini, questa la “triade” per tratteggiare cosa sia l’Italia.

 

Solo immagini tuttavia, perché non resta niente di quell’essenza. Il “bel paese” ha dimenticato gli Appennini; ha dimenticato la loro storia, la loro umanità, la cultura, l’economia; mentre della geografia resta in fondo il poco che abbiamo imparato a scuola e quella che apprendiamo ogni qual volta, viaggiando, tagliamo in due il nostro paese, passando da Ovest ad Est e viceversa. Per la maggior parte – chi non ci è nato o vissuto – resta una conoscenza superficiale, un accidente del caso.

Nell’Italia di oggi gli Appennini sembrano cioè rimanere una parte tollerata, un residuo di non si sa bene cosa, una “terra di mezzo” … eppure, geograficamente ne sono la spina dorsale, è evidente. Dosso d’Italia li definiva Dante Alighieri nel Purgatorio. Dosso, vale a dire dorso, schiena, spina dorsale appunto…

 

Il mio amico Irio mi ricorda che tra i professori delle medie frequentate verso la fine degli anni 60 in Lunigiana (lui che come altri adolescenti tutti i giorni scendeva con il pullman dal lato emiliano degli Appennini), c’era ancora chi diceva: “arrivano i Lombardi”. Involontaria conferma di confini sedimentati nella storia ai due lati del “dosso”. 

Del resto, in Liguria, Emilia e Toscana, gli Appennini dividono il mondo continentale e padano da quello mediterraneo; Lombardia erano tutte le terre verso il Po, verso il nord e le terre degli antichi Longobardi. Scorrendo poi verso sud, gli Appennini segnano il confine tra la montagna e le terre dove vivere è più semplice, verso il Mar Tirreno o verso l’Adriatico. E infine, delle terre della Basilicata e della Calabria, gli Appennini ne sono il tratto essenziale.

 

Quel confine comunque non era solo fisico e geografico, segnava anche differenti modi di vivere: il clima, l’economia, l’allevamento piuttosto che l’agricoltura, mestieri nomadi piuttosto che sedentari…

Il passo completo in cui Dante chiama gli Appennini “dosso d’Italia” recita: “Sì come neve tra le vive travi per lo dosso d’Italia si congela, soffiata e stretta da li venti schiavi, poi, liquefatta, in sé stessa trapela, pur che la terra che perde ombra spiri, si che par foco fonder la candela”. S’affaccia la duplice natura della vita sugli Appennini. Montagne mediterranee che conoscono il rigore dell’Alpe ma che fanno intravedere la dolcezza di una vita diversa altrove. Sugli Appennini, oltre il clima, oltre la geografia, oltre l’economia, il confine era anche esistenziale. Vivere sugli Appennini significava vivere su e giù per la montagna. Vivere su e giù per gli Appennini voleva dire vivere due vite diverse.

 

Mia madre ricorda che quelli – senza bestiame – che si fermavano in paese durante il semestre invernale venivano chiamati casei, vale a dire gente che resta a casa, fissi in paese, sedentari. Poche famiglie che arrivavano solo con grande attenzione al raccolto dell’anno successivo. A maggio, ricevevano solidarietà sotto forma di qualche lavoro pagato da chi con il bestiame era sceso in pianura d’inverno. 

 

Un’economia antica – da non rimpiangere – e che fino a quando abbiamo vissuto delle risorse della terra – in montagna come in pianura – ha retto… poi l’industria e la modernità hanno rotto ogni argine tra casei e non, tra pastori e contadini… giù tutti a rotta di collo verso le città.

Così è stato quando l’economia ha chiamato da un’altra direzione e il flusso di genti lo ha seguito. Così è stato quando la corsa per il benessere è diventata inarrestabile e nessuno poteva dentro quel flusso girarsi indietro. È la storia degli anni 50 e 60, l’alfa e l’omega di quello che siamo ancora. È stato così per mio padre e quelli della sua generazione, così fino ai primi anni Settanta. 

 

Alla fine sugli Appennini, svuotati di sangue e di gente, è calato, silenzioso, l’oblio. L’oblio sulla sua antica economia, ridotta quasi a zero, l’oblio sulla sua cultura, perfino l’oblio sulla sua natura. Per quanti anni si è considerato il mare, soprattutto il mare e solo dopo le Alpi e le città d’arte come possibili mete degne per le vacanze?

 

 

Difficile capire però come è stato possibile per lungo tempo dimenticarsi della cultura appenninica… di qualcosa cioè che è anche immateriale… adatto cioè ad essere raccontato, ancora di più oggi negli anni di Google. 

Solo un esempio: mia zia, più vecchia di mia madre di quasi dieci anni, si ricordava bene della transumanza, su e giù dalla Toscana due volte ogni anno.

 “Ierne c’me zingre” aveva risposto una volta alla mia domanda. Un viaggio di due settimane a piedi e ogni volta era un’Odissea diversa e la sua sintesi era stata semplicemente “Eravamo come zingari”, “ma eravamo tutti così” aggiungeva. Vale a dire “zingara” l’avevano fatta sentire dopo gli anni della città, del benessere, quelli di una modernità irriconoscente…

Eppure, eppure… altrove, di altre migrazioni straccione ne è stata fatta addirittura un’epopea (cosa altro è stato il far west?), noi ne abbiamo fatto solo qualcosa da nascondere sotto il tappeto di una modernità stordita.

Sì… è in quella modernità stordita che abbiamo finito per dimenticare gli Appennini, rimossi al lungo termine.

 

Ma da qualche tempo qualcosa è cambiato. I tentativi di un nuovo “rinascimento” si moltiplicano ad opera di giovani, cooperative, associazioni, residenti di ritorno, comuni. Su una rinata consapevolezza del valore della montagna appenninica e delle sue risorse, delle sue peculiarità sono molti i tentativi di dare nuova vita alle comunità. Tentativi fragili, decisi, sparuti… e ogni volta è un’impresa da far tremare i polsi, perché anche in un piccolo o piccolissimo territorio riuscire a ribaltare la storia recente può sembrare impresa impossibile. Perché la domanda alla fine che ogni comunità si pone, aldilà dei progetti, dei parchi, delle iniziative, delle idee, è sempre una: come far vivere le montagne?

 

Se si guarda al passato senza nostalgia, se si guarda cioè a ciò che è stato positivamente selezionato dal tempo e dalle generazioni, due appaiono essere gli elementi che hanno fatto sempre vivere gli Appennini, un’economia possibile e le strade che univano le persone, che collegavano quell’economia al resto del paese. Oggi l’economia che rimane è ridotta a poca cosa e le strade nuove sono solo quelle che attraversano gli Appennini, che vanno oltre e non quelle che vanno da e per la montagna. 

Così, nelle zone dove questo è il quadro generale, può essere difficile, aldilà delle idee, aldilà delle iniziative, dei progetti, dei parchi etc… rispondere all’esigenza di come far vivere la montagna.

 

Al mio paese sono rimasti in sessanta residenti e il miracolo di una giovane cooperativa di servizi che ogni mese riesce a pagare otto stipendi, otto stipendi per otto famiglie su un totale di sessanta residenti è un miracolo possibile solo perché la cooperativa pratica servizi che vanno dal turismo di comunità a lavori forestali, da piccoli lavori edilizi alla manutenzione ambientale, alla ristorazione. Attività e un’economia integrata che risponde alle esigenze del residente e di chi emigrato ha mantenuto case e terreni, che asseconda le domande del turismo più attento, che continuamente investe nella valorizzazione dell’esistente. Costruiscono lavoro muovendosi tra le diverse domande presenti sul territorio nell’unico equilibrio possibile per l’odierna montagna appenninica ma che a lungo termine potrebbe rivelarsi fragile. Fragile solo perché costruito su una economia integrata fatta di diverse domande nessuna delle quali realmente “forte”, ma soprattutto perché di tutte le “dimenticanze “di cui hanno sofferto gli Appennini quella demografica, almeno nelle zone più impervie – le più belle –, sembra presentare il conto definitivo. Se in un paese di 60 come di 100 residenti i bambini non sono più di quattro o cinque, quale curva demografica, esistenziale, economica si può prospettare solo tra una generazione? Con essa, arriverà il conto finale degli anni 60, l’alfa e l’omega di quello che siamo ancora adesso.

 Ecco perché bisogna far presto. Di tutti gli oblii di cui hanno sofferto gli Appennini, quello della demografia e dei suoi esiti è l’unico che non perdona.

 

Eppure… eppure ci sono probabilmente ancora i margini per un cambiamento. Come si fa a non considerare ad esempio l’enorme interesse odierno per cultura alimentare e tutta l’economia reale che si muove intorno. Se guardo a tutti i prodotti di qualità di origine appenninica, a tutte le ricette che impreziosiscono la cucina italiana e guardo allo spopolamento delle sue terre mi chiedo dove sia l’errore. C’è, evidente, una forbice e uno spazio che può essere riempito con il lavoro e con filiere che partano dal territorio e che uniscano domanda e produzione, che in definitiva compiano il “miracolo” di avvicinare l’umanità che è restata sui monti e che sui monti vuole tornare e l’umanità che vive nelle città. Umanità che quasi sempre non conosce gli Appennini ma che ne apprezza – spesso inconsapevolmente – il cibo, la natura, la qualità e l’unicità dei prodotti, cos’altro se non la sua cultura?

È solo un esempio, anche se rilevante, ma la cultura dell’Appennino, frugale, discreta, irripetibile, nascosta, forse potrebbe essere complessivamente riscoperta, forse potrebbe avere una nuova vita, Google o non Google.

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