Due nuovi libri sui media / Il capitalismo ci renderà stupidi?

13 Agosto 2016

I tempi di lettura si accorciano progressivamente. Le persone dedicano sempre meno tempo a leggere i libri e gli editori di saggistica negli ultimi anni si sono adeguati, riducendo via via il numero delle pagine. Ora c’è chi è arrivato più o meno alla lunghezza di un articolo accademico. È il caso dell’editore Castelvecchi, il quale, dopo aver superato alcune difficoltà economiche, si trova attualmente in una fase di rilancio e ha creato la nuova collana Irruzioni. L’ultimo volume di tale collana, tolte le pagine bianche e quelle che hanno solo dei titoli, conta 35 pagine. Il che non sarebbe in sé un problema. Il sociologo Georg Simmel con il saggio La moda e l’economista Piero Sraffa con Produzione di merci a mezzo di merci hanno dimostrato che poche decine di pagine sono sufficienti a rivoluzionare il pensiero umano. Ma i testi della collana Irruzioni di Castelvecchi non sembrano paragonabili a queste fondamentali opere. Sono piuttosto testi minori, preparati per conferenze o qualcosa di simile. Certo l’obiettivo che l’editore sembra essersi posto con questa collana è meritorio: provocare, lanciare un sasso nello stagno, stimolare la nascita di nuove idee. Per poterlo raggiungere, però, è necessario proporre delle tesi che siano al tempo stesso innovative e convincenti. Due libri usciti di recente propongono invece delle tesi non particolarmente condivisibili. 

 

Il primo è firmato dal mediologo Derrick de Kerckhove e pone sin dal titolo una domanda retorica: La rete ci renderà stupidi? De Kerckhove infatti afferma già nelle prime pagine di non essere d’accordo con il saggista statunitense Nicholas Carr, il quale aveva cercato di dimostrare nel 2011, con il saggio Internet ci rende stupidi?, che l’uso della Rete costringe il cervello umano a delle continue interruzioni dei suoi processi di elaborazione e che queste lo spingono verso la superficialità, perché gli impediscono di analizzare in maniera approfondita tutte le questioni affrontate. Per Derrick de Kerckhove, infatti, Carr commette l’errore di considerare solamente una parte dell’attività svolta dal cervello umano e cioè quella cognitiva, mentre esistono anche altre forme di contatto con l’ambiente circostante che si basano sul sentire e sull’essere. 

 

Illustrazione di Beppe Giacobbe.

 

Il fatto però che il cervello abbia altre sfere d’azione non impedisce che in una di queste, quella cognitiva, le cose vadano proprio come dice Carr. A ciò De Kerckhove risponde che a suo avviso oggi il pensiero umano non è più così importante come era in passato, perché esistono comunque delle macchine che sono in grado di sostituirlo egregiamente. Sembra voler abbracciare pertanto una prospettiva “postumana”, secondo la quale le macchine inevitabilmente prenderanno il posto degli esseri umani. Vale a dire che applica l’idea del suo maestro Marshall McLuhan secondo la quale i media sono delle vere e proprie protesi del corpo umano che consentono a questo di esternalizzare molte delle sue funzioni. Così, se si porta la memoria o altre funzioni fuori dal cervello, si creano le condizioni perché questo, liberato da pesanti fardelli, possa funzionare meglio. È tutta però da dimostrare la tesi che un cervello umano così frammentato possa operare efficacemente. 

 

Un altro recente libro della collana Irruzioni di Castelvecchi è L’idolo del capitalismo di Carlo Freccero. Questi propone la ben nota teoria sviluppata dal situazionista Guy Debord nel celebre volume La società dello spettacolo. Di tale autore d’altronde Freccero si è dichiarato da tempo seguace e diversi anni fa ha anche scritto la prefazione di una delle tante edizioni italiane de La società dello spettacolo. Qui non aggiunge molto e continua a dichiararsi fautore della visione apocalittica coltivata dal filosofo francese, che riconosce però essere figlia dell’analisi sviluppata da Karl Marx sulla natura del capitalismo. Sostiene infatti che siamo vittime inconsapevoli della diffusione tentacolare del modello dello spettacolo. Questo, come scrive, «non occupa più solo le nostre vite ma anche i nostri sogni, le nostre aspirazioni» (p. 43). 

 

È curioso però che Freccero se la prenda tanto con quello spettacolo che ha contribuito a produrre in maniera significativa negli scorsi decenni. Prima alla corte di Berlusconi, dirigendo reti come Canale 5, Italia 1 e La Cinq, e poi in Rai, alla guida di Rai 4 e attualmente come membro del Consiglio di amministrazione. Forse gli si potrebbe chiedere di cercare di impegnarsi per produrre uno spettacolo di migliore qualità. Ma probabilmente è un compito difficoltoso per chi nutre una visione quantomeno discutibile della società in cui viviamo. Freccero infatti sostiene nel libro appena pubblicato che il mondo sia troppo complesso per poterlo comprendere. Una vasta letteratura sociologia è invece lì a dimostrare proprio il contrario. 

 

Freccero inoltre pensa che non esista più nessuna differenza tra il consumo tradizionale e il consumo culturale. Tutto cioè, a suo avviso, è diventato consumo culturale. In realtà, oggi il consumo è anche molto altro. E proprio per questo è qualcosa a cui le persone non vogliono rinunciare, perché, come ha mostrato una vastissima letteratura antropologica, rappresenta uno strumento assolutamente fondamentale per la costruzione della loro identità. 

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