Il giro del mondo di Ian Fleming 

6 Gennaio 2024

«Il mondo è composto da due tipi di persone: 50 milioni d’inglesi e quattro miliardi di stranieri». Così scriveva, nel 1946, l’umorista britannico di origine ungherese George Mikes nel best seller How To Be An Alien. Una battuta, certo, ma nella terra d’Albione, soprattutto negli anni pre-bellici, non lo era neanche tanto. Chissà, dunque, se fu per ribadire quel concetto, o se fu per la percezione che, nel 1959, al giro di boa degli anni sessanta si stessero respirando grandi cambiamenti sociali, che sir Charles Denis Hamilton, direttore del Sunday Times, decise di mandare in avanscoperta, a scoprire e raccontare le città del mondo, il suo più prestigioso redattore, quel Ian Fleming, ex Capitano di corvetta al servizio (segreto) di Sua Maestà, già autore, all’epoca, di sette romanzi di James Bond, la spia con licenza di uccidere che, di lì a poco, calatasi nelle sembianze di Sean Connery, e trasportata sullo schermo dalla EON Productions di Albert Broccoli e Harry Saltzman, avrebbe dilagato in tutto il mondo.

Una scelta non casuale visto che sia lo scrittore che il suo personaggio erano grandi viaggiatori e “uomini di mondo” dai gusti sofisticati e, tutto sommato, era un modo autorevole di offrire ai lettori una diversa modalità discorsiva per descrivere e relazionarsi con quei “nativi etnici” in giro per il globo, che gli artisti e scrittori di viaggio britannici del XIX e inizi del XX secolo avevano, fino allora, «interiorizzato in un processo di rappresentazione definito come “othering”», fa notare Carl Thompson, docente all’Università del Surrey. «Un processo saldamente incorporato nella modalità della scrittura di viaggio in cui una cultura raffigura un’altra cultura come non solo diversa, ma anche inferiore a se stessa, che, da sempre, aveva assecondato la retorica dell’Impero britannico». E che da un po’ mostrava la corda.

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Una redazione di ex agenti segreti

Ian Fleming non era solo una Grande Firma del Sunday Times, ma era anche – sin da quando alla fine della guerra era tornato alla vita civile – responsabile del desk esteri del celebre supplemento domenicale, dove poteva mettere a frutto le amicizie e conoscenze fatte durante il periodo bellico nell’intelligence militare. Era stato assunto nel novembre del 1945 con uno stipendio di 4.500 sterline l’anno, più un rimborso spese di altre 500 sterline, una cifra oggi equivalente a circa 250mila euro annui. Nel suo ufficio a Grey’s Inn Road gestiva una rete di oltre ottanta corrispondenti, la maggior parte dei quali era stata reclutata personalmente da Fleming fra i suoi ex colleghi della Naval Intelligence

Nonostante che, in quel 1959, fosse già un autore più che affermato (il suo settimo romanzo, Goldfinger, era uscito a marzo di quell’anno), e avrebbe potuto permettersi la più grande libertà personale e professionale, Fleming amava la vita di redazione. Era sempre stato un animale troppo sociale per adattarsi a ritmi solitari, amava la sicurezza e il senso di cameratismo che gli dava un ambiente di lavoro tradizionale con la sua routine, i suoi ritmi, i suoi orari. «Si era ritagliato il lavoro perfetto per sé», ebbe a ricordare Godfrey Smith, ex direttore del Sunday Times. «Rimaneva in ufficio fino al venerdì pomeriggio, poi se ne andava a giocare a golf per tutto il fine settimana». 

L’unica bizzarria che si permetteva, per contratto, erano due mesi liberi l’anno in cui si dedicava alla scrittura delle avventure di 007. A questo proposito, una nota sul suo fascicolo, depositato presso l’archivio dell’ufficio del personale, ricorda che: «il signor Fleming ha chiesto al presidente di ridurre il suo stipendio di mille sterline per potersi assentare per occuparsi di suoi affari privati all’estero», intendendo la sua amata proprietà in Giamaica: Goldeneye.  

Fu solo quando ormai le pressioni per portare sul grande schermo le avventure di Bond si erano fatte vieppiù assillanti da non poter più gestire una doppia vita professionale, che alla fine di dicembre del 1959, di ritorno dal primo ciclo di viaggi intorno al mondo (l’anno successivo ripeterà l’esperienza in Europa), si arrese a “andare in pensione”, ricevendo dai colleghi un porta tè d’argento come viatico per la sua nuova esperienza di lavoratore autonomo.

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Impurgato è il contrario di espurgato?

I tredici articoli di viaggio di Fleming per il Times – sette città del mondo e sei d’Europa – furono raccolti in volume nel 1963 sotto il titolo di Thrilling Cities: “pezzi di colore”, scrisse Fleming, che mettono in luce gli aspetti più bizzarri e oscuri della vita. Il volume è oggi riproposto, con il titolo inglese originale, da La Nave di Teseo (a cura di Massimo Bocchiola, e ritradotto da Andrea Carlo Cappi che aveva curato anche la prima edizione italiana del 2006 per l’editore Alacràn). «Una traduzione “restaurata”: non nello stile, ma in parte nel contenuto», avverte il curatore, «per ripristinare il testo originale che in edizioni successive era stato rivisto a uso di ipotetici turisti bisognosi di mete aggiornate al loro tempo». Sì, perché già all’epoca della pubblicazione sul Sunday Times alcuni passaggi erano stati tagliati da redattori scandalizzati, e reintegrati nella versione libro («impurgati, posto che questo sia il contrario di espurgati», scrive Fleming).

Giro del mondo in trenta giorni

Se Phileas Fogg, il ricco gentiluomo protagonista del romanzo d’avventura di Jules Verne gira il mondo in ottanta giorni, Leonard Russell, il capo redattore letterario del Sunday Times, ne concederà solo trenta a Fleming, che ricorda: «Gli feci notare che sarebbe stato molto faticoso, e che non era possibile girare il mondo in trenta giorni e scrivere reportage belli e accurati». Ma Russell fu granitico: «Sembra che ai lettori di James Bond piacciano gli scenari esotici. Non le occorre nuovo materiale per le sue prossime storie? Questa è una splendida occasione».

Così ecco che Fleming, acquistato un biglietto giro-del-mondo per ottocentotre sterline, diciannove scellini e due pence, si fa dare dal capocontabile cinquecento sterline in traveler’s cheques, si sottopone a una serie di vaccinazioni che lo lasciano dolorante e con le vertigini, e il 2 novembre 1959, in una tranquilla tipica mattinata grigio-londinese, decolla a bordo di un Comet 4 della BOAC alla volta di Hong Kong. 

Primo scalo tecnico a Beirut. «Una città di ladri», confida Fleming al suo vicino di posto, un neozelandese che lo aveva intrattenuto, tutto il tempo, con una sfilza di barzellette sugli aborigeni. E lo mette sull’avviso di non lasciare niente sul sedile, soprattutto la sua costosissima macchina fotografica. Quando riprendono il volo Fleming si immerge nella lettura di un thriller di Eric Ambler, Armi ai ribelli, «libro perfetto per qualsiasi viaggio», mentre il vicino scopre, con costernazione, che durante la sosta gli avevano fregato macchina fotografica e obiettivi. Come volevasi dimostrare.

E da quel momento, scrive Bocchiola, scopriremo un Fleming ironico, distaccato, a momenti arrogante, a momenti anche pigro, con un occhio un po’ cinico, un po’ spietato, un po’ sciovinista, ma un occhio di mirabile, fotografica esattezza. 

Durante lo scalo a Nuova Dehli Fleming annota: «L’India mi ha sempre depresso. Non riesco a reggerne la sporcizia e lo squallore generali. E le manifestazioni esteriori delle due grandi religioni indiane mi fanno cadere le braccia». A Bangkok invece (altro scalo) scrive: «Nonostante le zanzare grosse come Messerschmitt e l’umidità opprimente, questo è un luogo di bellezza strabiliante». 

Finalmente atterra a Hong Kong, «l’ultimo baluardo del lusso feudale nel mondo, la città più vivace e eccitante che abbia mai visto». A fargli da guida nell’oriente misterioso sarà un altro dei “suoi uomini”, il giornalista australiano Richard Hughes, ben noto nell’ambiente dell’intelligence, al quale lo scrittore dedicherà il romanzo Si vive solo due volte, e che userà come modello per il personaggio di Dikko Henderson, imitato da John Le Carré che lo trasporrà nel personaggio di Craw, in L’onorevole scolaro

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All’anima del venerdì 13

James Bond non era certo superstizioso. Quando, in Dalla Russia con amore, deve volare a Istanbul di venerdì 13, spiega a Moneypenny, la segretaria di M, preoccupata per lui, che «viaggiare il 13 è meglio. Ci sono pochissimi passeggeri, si sta più comodi e il servizio è migliore. Quando posso scelgo sempre il 13». La stessa cosa fa Fleming quando lascia con immenso dispiacere Tokyo e le sue geishe, e prenota il volo per Honolulu, la tappa successiva, e nota che, non solo cadeva di venerdì 13, ma visto che avrebbe attraversato la linea del cambiamento di data si sarebbe ritrovato in un altro venerdì 13. Ma come Bond vuole viaggiare comodo, e parte. 

Quella volta, però, fu diverso. Mentre l’aereo volava sopra il Pacifico, sul punto di non ritorno tra Tokyo e Honolulu, esplode un motore. Per fortuna il comandante è un pilota esperto e atterra, senza danni, sulla pista della base militare dell’isola corallina di Wake Island. «All’anima del venerdì 13», annota Fleming.

Arrivato a Honolulu, trova che vi si respiri un’atmosfera esasperatamente turistica che ferisce il suo senso estetico, ma per fare buon viso a cattivo gioco segue l’esempio di Agatha Christie che, nel 1922, durante un suo soggiorno alle Hawaii (anche lei, guarda caso, stava facendo il giro del mondo) aveva tentato di cavalcare le onde su una tavola da surf abbastanza primitiva, pesantissima, e ne era uscita riportando ben più di un livido. 

L’idea di Fleming era di farsi notare dalle ninfette abbronzate che guizzavano sulle onde, inseguite da paffuti bagnini hawaiani, ma dopo qualche penoso tentativo, svariate ammaccature e qualche rischio di annegamento, decise di rassegnarsi «a pagaiare vergognosamente verso la riva».

Xe pèzo el tacòn del buso

Il viaggio continua toccando Los Angeles, Las Vegas, Chicago e finalmente New York, dove Fleming non trattiene la sua avversione per la città che definisce: «senz’anima, il luogo dove mi sono divertito di meno». Un posto dove la scontrosa indifferenza dei nuovaiorchesi «asporterà il vostro amore per la città come il bisturi di un chirurgo». A New York, scrive: «l’unico modo per trovare gentilezza è comprarla. Qui l’usanza delle mance sfiora la follia». 

Il reportage sulla città è stringato, cupo, vi si respira un’atmosfera di profondo malessere da cui «sono stato lieto di fuggire». Non senza essere andato a assaggiare lo stufato di ostriche alla crema, con crostini e birra, allo storico Oyster Bar, rintanato nelle viscere della Grand Central Station: «Forse l’unico piatto che abbia mantenuto l’integrità della New York che conoscevo».

Quando Thrilling Cities uscì negli Stati Uniti, l’editore chiese a Fleming di edulcorare certi passaggi ritenuti quasi offensivi per la città. Lo scrittore rifiutò. Offrì, invece, di aggiungere all’edizione americana un (molto) breve racconto di James Bond scritto per l’occasione, introdotto da un poscritto in cui ammetteva di rendersi conto che le sue osservazioni sulla Grande Mela potevano aver indispettito alcuni lettori, per cui proponeva che a descrivere la città fosse il suo amico James Bond. 

Ma, a dire la verità, 007 a New York – questo è il titolo del racconto che non appare nell’edizione di La Nave di Teseo – è ciò che i veneti avrebbero descritto come “Xe pèzo el tacòn del buso” (è peggio la toppa del buco). Bond atterra a New York, e già in aeroporto trova che la sala immigrazione sia esageratamente sovrariscaldata, che i grandi alberghi, a parte il Carlyle, erano l’ombra di se stessi, che negli ascensori si aveva la sensazione che l’aria non fosse stata cambiata da mesi, ovunque il caffè era annacquato, le uova sode vecchie e azzurrognole, i toast umidi, i cibi congelati da così tanto tempo che ormai il gusto era sparito. 

Quando era stata, si chiede 007, l’ultima volta che un ristorante di New York aveva servito un pesce appena pescato, un uovo di giornata? E, poi, sferra il colpo finale: con perfido britannico sadismo, pubblica la ricetta delle “uova strapazzate alla James Bond” (il piatto preferito di Fleming). Certo, non lo dice, ma è come se sottintendesse: adesso vi insegno io a cucinare. E soprattutto a creare la giusta atmosfera: servire in piatti di rame, accompagnare con champagne rosé Taittinger, e musica a basso volume. 

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Italia: baccano e orrida confusione. Napoli: uno choc

La seconda parte del viaggio si svolge, in auto, nella primavera del 1960, a partire da Amburgo per finire a Montecarlo, passando per una Berlino ante muro, lugubre, avvolta da un odore penetrante di sigari e cavolo bollito; per una Vienna che non sorge sul Danubio che non è affatto blu, e con ragazze viennesi che non hanno neanche un decimo della bellezza di quelle inglesi; per una Ginevra che ha un’aria “alla Simenon”, e tiene i suoi segreti celati dietro le porte di bronzo delle grandi banche. 

Infine Napoli, tappa fortemente voluta dalla moglie Ann che viaggia con lui. Ci arriva entrando in Italia guidando per i dolci tornanti dell’Alta Savoia, incontrando campi di genziane, crochi alpini, anemoni bianchi, il passo del Moncenisio aperto appena dieci giorni prima del suo passaggio. Ne ha un’ottima impressione. Poi, piano piano, scendendo, il panorama e le città si degradano. A Firenze, Fleming viene investito dal già allora petulante turismo internazionale e dall’impressionante scompiglio dell’Italia postbellica. Firenze è, sì, scioccante, ma Roma, con le Olimpiadi del 1960 in allestimento, è peggio: baccano e orrida confusione. 

A Napoli, non si trattiene. «Al viaggiatore britannico, pur incallito, l’asprezza quasi bestiale della città risulta uno choc. Qui ci si sente veramente “forestieri”. Qui si viene ancora truffati, sgomitati, derubati e intimiditi». Quindi l’unica cosa che ha senso è incontrare un vero boss, altro che quei ruba galline che infestano i quartieri popolari della città. Così Fleming chiede al “suo uomo” di fissargli un appuntamento con Salvatore Lucania, meglio conosciuto come Lucky Luciano, boss della famiglia Genovese che, secondo la leggenda (con molti risvolti di verità), avrebbe contribuito a facilitare lo sbarco degli alleati in Sicilia nel luglio del ’43, tramite i suoi contatti con la mafia locale. Fleming e Luciano si incontrarono all’Hotel Excelsior e si trovano a loro agio a parlare di traffico di droga e mafia che, naturalmente, non esiste. Parola del capo dei capi.

Prima di ripartire, Fleming raccomanda ai connazionali che volessero tentare la sorte di non andare sul Vesuvio: «In cima al vulcano non c’è niente da vedere a parte qualche bolla lutulenta e le lingue di vapore che escono dalle fumarole». E poi lancia un’ultima riflessione: sarà solo una coincidenza che ad Afragola, un sobborgo di Napoli, a metà strada fra il centro città e il cratere del Vesuvio, il 15 gennaio 1899 sia nato Al Capone?

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